Le strade della Los Angeles di Strange Days (Kathryn Bigelow, 1995) sono il principale luogo di spaccio di una droga potentissima. Non si assume né per via endovenosa né per via orale: è necessario essere provvisti di un dispositivo, chiamato Squid, che legga gli input sensoriali connessi a una clip video. In questo modo, con una dose-clip è possibile non solo vedere, ma anche percepire ciò che è accaduto a qualcun altro, in un’esperienza intrinsecamente sinestesica.
Tra influenze cyberpunk e riflessioni sul ruolo del cinema agli albori del digitale, il film di Bigelow sembra porre l’accento sulle carenze del dispositivo cinematografico tradizionalmente inteso (proiezione in una sala buia) rispetto all’effetto multisensoriale dello Squid, come se la visione di immagini in movimento proiettate su uno schermo non fosse più sufficiente e fosse legata a un ambito umano, troppo umano. All’inizio degli anni Novanta, l’onda lunga del postmoderno non solo stava cancellando ciò che rimaneva del senso d’identità, ma, soprattutto, lo stava riconfigurando in funzione dell’interazione tra corpo umano e tecnologia. Non più protesi esterna che potenzia le capacità di un corpo-che-deve-produrre, ma oggetto innestato sul corpo-che-non-serve-più-a-produrre che modifica in maniera sostanziale le nostre strutture percettive e cognitive.
Non a caso, dunque, lo Squid, uno dei tanti (anonimi) modi di chiamare questo salto di paradigma, investe in due modi ciò che è di solito considerato “interiore”: da un lato, in senso materiale – si tratta di un dispositivo tecnico di lettura di minidischi –, dall’altro, in senso immateriale – permette di rivivere momenti privati, talvolta momenti intimi. Tali più-che-memorie (l’effetto è, infatti, quello di un’esperienza completa, lontana dal dolore del non-ritorno connesso alla memoria) non sono di chi decide di indossare lo Squid, ma possono essere di chiunque. La droga del terzo millennio rimanda dunque a nuove interazioni tra tecnologia e corpo, le quali implicano un collasso dell’identità tra intimità/privato e non-intimità/pubblico. Anche se le visioni dovute allo Squid sono individuali, queste “esperienze-da-rivivere” possono essere acquistate solo attraverso i circuiti illegali del mercato nero. Le esperienze vissute da qualcuno diventano così esperienze di nessuno affinché possano essere consumate come stimolanti da qualcun altro.
Arriviamo così, al nodo cruciale: ci troviamo di fronte a una memoria potenziata e trans-individuale capace di confondere ciò che reale e ciò che è prodotto da una stimolazione narcotica. La memoria umana, strumento imperfetto, strumento che denuncia costantemente la propria inadeguatezza, incontra la propria nemesi: il fantasma della memoria totale. Questa formula è stata utilizzata da Roger Odin durante il convegno Changing Platforms tenutosi all’Università di Groninga nel settembre del 2015 per descrivere lo status della memoria durante l’era digitale. Fantasma, mito, illusione; irreale attualizzazione della memoria. Secondo Odin, il video e la fotografia digitali ci danno, attraverso la riconfigurazione dei rapporti tra corpo e tecnologia, la costante impressione di poter completare la memoria biologica, creando nuove forme di storaggio e accesso in cui tutto è recuperabile. Una memoria assoluta, appunto, in grado di annullare l’effetto nostalgico perché, semplicemente, chi ha la possibilità di rivivere un evento non potrà mai provare il dolore del mancato ritorno. Lo Squid della nostra contemporaneità, tuttavia, non afferisce, come nel film di Bigelow, a una forma qualitativamente connotata di memoria, ma alla capacità di accedere a un’esponenziale quantità di dati. La memoria digitale colpisce per la sua “estensione”, non per la sua “intensione”. Ovviamente, ciò è dovuto a motivi di ordine tecnologico – al contrario di quanto si pensava nei primi anni Novanta i dispositivi di realtà virtuale non sono stati “democratizzati” e commercializzati per il mercato consumer – e di ordine pragmatico.
L’ultimo punto appare cruciale: se si parla di rappresentazione della vita quotidiana attraverso i media – film e video amatoriali – non possiamo non tenere conto che la consuetudine legata ad alcune pratiche è il termine principale di relazione con le tecnologie. Solo valutando tale dinamica, infatti, possiamo comprendere come l’aumento della capacità di conservare dei “dati della memoria” (per esempio, aumento delle inquadrature per ogni singola unità di ripresa/registrazione) sia un fenomeno ricorrente nella storia dell’immagine in movimento, soprattutto nei punti di transizione ed emergenza: nel momento della commercializzazione del 9.5mm Pathé (inizio anni ‘20) – in cui l’immagine in movimento entra nel circuito domestico – oppure nel momento dell’insorgenza del video (anni ’70 e ’80).
Pensiamo a un dato sottolineato dalla maggior parte delle persone che si sono occupate di film e video analogico amatoriali: l’aumento della durata di una singola unità di ripresa/registrazione. Se una cartuccia Super8 è lunga 15 metri (si può riprendere complessivamente per meno di cinque minuti), una videocassetta analogica (sia essa Video8, Hi8, VHS etc.) consente di riprendere per minimo mezz’ora (dipende dal tipo di cassetta, ovviamente). Cambiano così le modalità di utilizzo della tecnologia. A loro volta, tali modalità creano nuovi bisogni a cui si tenta di dare risposta rinnovando la tecnologia. L’estensione della memoria digitale può essere considerata, così, un tentativo di risolvere le contraddizioni che si sono create con l’elettronica analogica: aumento dei dati, difficoltà nel migliorarne la resa qualitativa e, soprattutto, difficoltà nell’ordinarli in vista della loro preservazione.
In questa prospettiva, il video digitale non rappresenta solo una rottura con l’analogico, ma al contrario, stabilisce dei punti di continuità: la tecnologia, in ambito audiovisivo, non può essere considerata solo in senso sincronico, come se un oggetto tecnologico fosse un testo chiuso, impermeabile al motivo per cui è stato elaborato e agli usi a cui è sottoposto, ma deve essere osservata in tutta la sua pregnanza storica attraverso la ricostruzione della rete sociale e dei significati culturali che essa stessa implica.