Arte o non arte? Sembra una domanda senza senso, in un mondo dove la globalizzazione sta cancellando le differenze tra le diverse culture e dove è già stato a suo tempo decretato, nei luoghi del potere culturale, che tutto può essere arte. Da tempo, nel mondo dell’arte, domina la “teoria istituzionale”, secondo la quale “è arte ciò che gli uomini chiamano arte”, cioè tutto ciò che alcuni uomini, che hanno il potere di farlo, definiscono e impongono come arte. Questo potere è un potere economico, e quella teoria, detta dell’anything goes (qualsiasi cosa va bene), è la sua legittimazione.
Tutto dunque può essere arte. Ma se tutto può essere arte l’arte non è niente. L’artisticità non è più una qualità che certi oggetti o eventi possiedono in sé secondo un millenario senso comune, ma solo un attributo conferito e legittimato dal potere di alcune persone a loro discrezione.
A questo punto ogni serio discorso sull’arte o non arte diventa impossibile. Se qualsiasi oggetto/evento, a prescindere dalle sue qualità, può esser introdotto nel sistema dei musei e delle gallerie e promosso allo status di opera d’arte per aumentarne il valore di mercato, stiamo parlando di speculazione economica, non certo di arte. Ogni giorno si inaugurano nel mondo musei d’arte contemporanea, a questo scopo. E’ quindi un fenomeno globale.
Fra le tante cause (storiche, sociali, ecc.) di una simile deriva ce n’è una immediata: l’invenzione da parte dell’ineffabile Duchamp del ready made e dell’“arte concettuale”. Che è poi un ossimoro: l’arte non è assolutamente concettuale. Le innumerevoli installazioni che nel “concettuale” proliferano non sono opere d’arte. Non lo sono perché non sono il risultato di un processo di “formazione”, e quindi dell’invenzione di uno “stile” riuscito che è caratteristicaantropologica prima dell’opera d’arte. La cosa buffa è che lo stesso Duchamp aveva inventato il ready made proprio per distruggere l’arte (“questa idiota parola cha ha dominato tutto per secoli”) e considerava il “concettuale” appunto “non-arte”, tanto che quando poi a New York il mercato gli inventò sotto il naso l’“arte concettuale” si arrabbiò moltissimo, pensando di averla distrutta (l’arte) mentre ora essa rientrava dalla finestra risuscitata dal mercato.
Per ristabilire allora un qualche criterio di differenza tra arte e non arte conviene riprendere ex novo il discorso superando il relativismo culturale dell’approccio storicistico, e affrontare invece un discorso antropologico, quello che considera l’invenzione del bello prima e dell’artistico poi operazioni con precise funzioni vitali, inventate dall’homo sapiens sapiens in un certo momento della sua evoluzione. Si tratta di un momento cruciale (intorno ai 40.000 anni fa) in cui l’evoluzione culturale, che si fonda sulla memoria esterna “tecnica” (segni, graffiti, suoni, tessuti, codici, linguaggi, ecc.) diventa sempre più veloce e interferisce in modo sempre più determinante sulla lentissima evoluzione genetica darwiniana, che sta alla base e si fonda sulla memoria biologica.
Fare arte si presenta quindi come una operazione della evoluzione genetica darwiniana (non altrimenti di altre operazioni quali pensare, ricordare, giocare, giudicare, far di conto, ecc.), anche se con fortissime interferenze della evoluzione culturale che la rendono ambigua e difficile da definire. Tuttavia, come operazione psicofisica necessaria alla sua evoluzione (esperienza della riuscita di uno speciale tipo di narrazione) l’uomo la produrrà sempre uguale a se stessa, immutabile nel tempo, nonostante le fortissime interferenze delle sempre nuove discipline della evoluzione culturale, che mutano nel tempo (filosofia, scienza, matematica, geometria, ecc,). Per cui le vicende dell’arte degli ultimi quasi duecento anni non vanno considerate un “progresso dell’arte”, “una nuova arte”, come nella concezione storicistica delle Avanguardie (che ancora resiste per fortissimi interessi economici), ma solo innovazioni dei mezzi e linguaggi e tecniche, che non sono che gli strumenti per produrre comunque opere riuscite con la qualità di artisticità. Così, mentre la scienza è una disciplina che progredisce, e si può dire che la teoria di Einstein è meglio perché più nuova nel tempo della teoria di Newton, l’arte non progredisce, e non si può dire che un’opera di Picasso è meglio perché più nuova di un’opera di Giotto. Non va dunque considerato il fare arte (e il bello) una disciplina storica (come la filosofia o la scienza o la storia dell’arte ecc.), ma una operazione antropologica che appartiene anzitutto alla evoluzione genetica darwiniana, e la cui esperienza da parte del corpo e della psiche (come dimostra la neuroestetica) è irrinunciabile. Se l’uomo non facesse più arte, ci troveremmo in presenza di una mutazione antropologica.
L’arte è un modo speciale della comunicazione. Dal punto di vista della forma riconosciamo nella comunicazione tre tipi di narrazioni: la narrazione normale, la narrazione estetica e la narrazione artistica (opera d’arte). Nella narrazione normale non c’è alcuna speciale cura della forma. Nella narrazione estetica c’è una speciale cura della forma, ma sempre in funzione della valorizzazione e potenziamento del significato, che rimane il protagonista della operazione (es: la narrazione pubblicitaria). Invece nella narrazione artistica (nell’opera d’arte) la cura della forma è tale per cui lo stile (forma) che ne deriva (che è il “mondo” inventato dall’autore) diventa esso stesso il vero significato che l’autore comunica. L’opera d’arte (a qualsiasi linguaggio appartenga, pittura, danza, musica ecc.) è dunque una narrazione speciale, dove ciò che si dice (il significato) coincide con il come si dice (la forma). Ciò che l’opera d’arte comunica è la forma: la forma è il significato, il significato è la forma.
Ma caratteristica della nostra epoca postmoderna è la fortuna del “concettuale”, dove protagonista della operazione non è affatto la cura della forma. Non si tratta solo di stanchezza creativa, ma di una programmata “non-arte”, produzione di oggetti/eventi non giudicabili con i criteri formali del senso comune e della tradizione, quindi volutamente ingiudicabili se non all’interno della logica del potere e del mercato (secondo la teoria istituzionale), e che quindi costitutivamente si addicono alla globalizzazione. Mentre nell’opera d’arte la trasfigurazione del reale nello stile/mondo dell’autore comporta una forma formata che non si consuma, e si ammira nel tempo (il mondo di Piero della Francesca, di Van Gogh, ecc.), nel “concettuale” l’opera regredisce da una forma da “sentire” a un significato (idea) da capire. Se l’ideaè separata dalla forma come nella allegoria, e non è un tutt’uno con la forma come nel simbolo sintetico (opera d’arte), essa come mera informazione si consuma subito, e come tale si addice alla logica del “sempre nuovo per il sempre uguale” del mercato.
Inoltre, mentre nell’arte ciò che conta è l’unicità dello stile dell’autore, del suo “stile/mondo”, quindi la “differenza” (fra autori e fra culture), la globalizzazione dilaga attraverso l’“uniformità” dei linguaggi massificati rapidamente riconoscibili. L’immensa fortuna del ready made e del “concettuale” sta appunto nel fatto che non inventa uno stile, un mondo, è accessibile a tutti, lo possono fare tutti, per cui tutti possono considerarsi artisti. E‘ infatti molto più facile concepire una allegoria concettuale che formare un’opera (in pittura o in scultura) che si possa considerare riuscita come opera d’arte con il suo stile. Per quanto possa essere il risultato di una elaborazionelaboriosa, per quanto si possa dire di essa che è una «idea geniale», l’interesse per essa dipende quasi esclusivamente dalla sua «novità». Questa logica implacabile del consumo (del “sempre nuovo per il sempre uguale”) è connaturata al mercato della globalizzazione, nemica dell’arte.