Lo confesso senza vergogna alcuna: ho cercato di seguire con costanza ogni dichiarazione pubblica di Lapo Elkann nel corso degli anni. All’inizio lo facevo perché ero attratto dall’inevitabile risvolto comico che le sue prese di posizione pubbliche suscitavano sui social e perché era argomento di conversazione con amici che, come me, lo ritengono un gigante dell’umorismo involontario.
È di qualche tempo fa, ad esempio, una sua dichiarazione video nella quale invocava per l’Italia il merito, anziché le carriere basate sulla discendenza familiare. È questo solo uno dei numerosi esempi che lasciano stupefatti per la enormità delle argomentazioni e l’ipocrisia apparente che le anima. Sono, però, dichiarazioni che, almeno a me, muovono anche alla meraviglia; a una meraviglia sorella minore, forse, di quella che Aristotele celebrava all’inizio della Metafisica e che sarebbe all’origine di ogni indagine intellettuale spregiudicata. Queste dichiarazioni lo fanno non soltanto per la vastità di quella che mi pare difficile non pensare sia malafede, che è quanto poi genera l’effetto comico, ma, talvolta, anche per altri motivi.
È così capitato, parecchio tempo fa, che mi fosse sembrata interessante al di là del riso che mi aveva provocato (cosa di cui sono grato, beninteso, a Lapo), la dichiarazione che aveva fatto sulla Chiesa cattolica e sul suo papa.
Si era alle fasi finali del pontificato di Karol Woityla. Il corpo del papa era distrutto dal Parkinson e si era innescato un dibattito, non mi ricordo provocato da chi, sul persistente tema del ruolo della Chiesa nella società italiana (forse per la sua continua esposizione mediatica). Lapo era intervenuto tempestivamente con una delle sue epocali uscite, rimproverando alla Chiesa di non favorire l’innovazione in Italia. Non si capiva bene di quale innovazione parlasse la sua mimica facciale ineguagliabile incorniciata dagli occhiali Italian Indipendent (il suo marchio, a suggerire che l’indipendent sia lui e quanti condividono carriere basate sul merito e non sulla linea familiare e il privilegio dinastico, descrizioni, che mi pare si possano, in tutta onestà, sostenere che non lo riguardano molto da vicino).
Lapo mi aveva, però, dopo la risata, provocato un moto quasi di partecipe tenerezza: io me lo immagino sempre, dopo aver parcheggiato la sua Ferrari con carrozzeria mimetica su un marciapiede attiguo a qualche discoteca, non lasciando spazio per la carrozzina di un disabile, scendere dal bolide e rilasciare immediatamente una dichiarazione ad minchiam sul made in Italy e la necessità di un’impresa etica ispirata alla bontà (ovviamente, questa dichiarazione esiste sul serio). Eppure, questa sua sparata sulla Chiesa cattolica era qualcosa di diverso, non attribuibile alla creatività del tutto fuori controllo delle sue sinapsi, magari eccitate da sostanze non perfettamente legali, e nemmeno alla semplice considerazione statistica che se spari assurdità a raffica, prima o poi qualcosa di vero per accidens dovrai pure dirlo.
Poco dopo, il desiderio di Woityla, espresso a quelli che nelle fasi finali della sua malattia si prendevano cura di lui (“lasciatemi tornare alla casa del Padre”) veniva forse esaudito. Al suo posto veniva eletto Joseph Ratzinger, il predecessore dell’attuale Pontefice. Mi trovai a leggere un commento di una mia conoscente, una giornalista di una certa cultura, che invocava la denuncia del Pontefice, dell’intero Sinodo, di ogni istituzione della Chiesa cattolica a un qualche organismo per discriminazione di genere. A quale organismo, poi, inoltrare l’atto legale non si capiva bene. A una procura della Repubblica, forse, perché è stato commesso un crimine contro l’umanità? A un’agenzia dell’Onu, allora, anche se la Santa Sede ha uno status particolare all’Onu, quello di osservatore permanente, ma non di stato membro?
Sembrerebbe che la mia amica intendesse proprio qualcosa del genere: “Perché mai una donna non può, in pieno XXI secolo accedere al soglio di Pietro? Si tratta di un residuo oscuro che si imprime come marchio indelebile su una istituzione che proviene da un passato degno di essere sepolto, perché non al passo con l’innovazione dei costumi e l’estensione dei diritti universali”. Si trattava, allora, di una dichiarazione parente di quella che, parecchio tempo fa, fece un accademico, Luigi Lombardi Vallauri, per un periodo professore di filosofia del diritto all’Università Cattolica di Milano, secondo il quale il dogma dell’esistenza dell’inferno, proprio della religione cattolica e di altre, lederebbe i diritti dell’uomo e sarebbe, addirittura incostituzionale.
Sono prese di posizione che hanno qualcosa in comune, io credo, perché rimproverano alla religione cattolica di essere una religione, ossia di non essere un pensiero laico e secolare, mentre si aspettano in qualche modo lo sia. È un atteggiamento che io credo essere molto diffuso e che ho ritrovato anni dopo in due occasioni tra loro molto diverse.
La prima. Sono a cena con un’amica e si parla, non mi ricordo perché, di religione. La mia amica si proclama cattolica. Scopro quasi immediatamente che non conosce il contenuto del dogma dell’Immacolata concezione. Per altro, questa mancanza di conoscenza, credo sia molto diffusa: durante un 8 dicembre di qualche anno fa, sentii una pubblicitaria disoccupata, ben nutrita dagli alimenti dell’ex consorte, proclamare con snobismo tamarro à la Lapo Elkann, che la Chiesa cattolica è una grande agenzia pubblicitaria, se riesce a far digerire l’idea che si possa concepire immacolate. Naturalmente, la poverina credeva che l’immacolata concezione avesse a che fare con il sesso e non con l’assenza di peccato originale. Fattoglielo pubblicamente notare, mi ha tolto, fortunatamente, il saluto. Scopro, però, anche qualcosa che va al di là di questa mancanza di conoscenza, che riguarda, invece, il genere di conforto che alcuni pensano di trovare nella religione, credendo che questo conforto sia il contenuto della religione in generale. Infatti, la mia amica si dichiarava confortata, mentre si dichiarava cattolica, dal frequentare la messa. Posta alle strette, dichiarava però di essere favorevole all’aborto, cosa che la pone immediatamente al di fuori della comunità cattolica dei credenti, per i quali la vita è indisponibile e il feto è già da sempre una persona. Dal momento che questa mia amica è del tutto indifferente al contenuto dogmatico della religione cattolica, ossia alla sua rivelazione, rimane però da capire quale sia il conforto che ritiene possa trovarvi con successo.
Il secondo. Mi capita di leggere l’ultimo libro di un importante intellettuale. Ha un titolo che mi attrae, Religione senza Dio (Religion without God, Cambridge, Mass., Harvrd University Press, trad. it.Il Mulino, 2014=RsD), l’autore è Ronald Dworkin, forse il più celebre filosofo del diritto in attività negli ultimi decenni. Ne sono attratto sia per il titolo sia perché si tratta dell’ultimo scritto di Dworkin, che si è ammalato e successivamente è morto, dopo aver progettato e in parte rivisto il testo. Vi trovo, come spiegherò, una concezione della religione che è fondamentalmente solidale con la maggior parte degli aneddoti che vi ho raccontato.
Ma prima di dirvene si tratta di capire che cosa si deva intendere per ‘religione’. Il tema è al centro di tutte le indagini scientifiche che si occupano del fenomeno religioso e, occorre anche aggiungere, che sulla definizione di ‘religione’ non c’è affatto consenso. Sostanzialmente, abbiamo due gruppi di definizioni. Al primo gruppo appartengono le autodefinizioni, del genere che la religione è incontro con il sacro. Al secondo gruppo appartengono le definizioni funzionali, che definiscono la religione secondo la funzione che lo studioso ritiene di poter loro assegnare.
Sono famiglie di definizioni che hanno entrambe limiti e vantaggi. Il limite delle prime è di essere tendenzialmente tautologiche, ossia non realmente esplicative, poiché ciò che deve essere definito (il definiendum, come si dice) coincide con lo strumento che dovrebbe definirlo (il definiens). Per cui dire che la religione è quel fenomeno che ha a che fare con il sacro, sarebbe un po’ come dire che la religione è quella cosa che ha a che fare con la religione. Il limite delle seconde deriva forse da quello che è anche il loro pregio, ossia di aver allargato lo studio della presenza del fenomeno religioso al di là dei tradizionali oggetti di indagine, rintracciandolo in esperienze apparentemente distanti (il tifo sportivo, ad esempio).
In questo secondo caso, il prezzo da pagare è un occultamento, forse, della specificità delle religioni tradizionali. E non sto pensando unicamente a quelle storiche, ma anche a possibili religioni a venire, che possiamo solo immaginare. Michel Houellebecq nel suo romanzo, La possibilità di un’isola ne immagina una. Una religione a base biotecnologica si incarica di produrre un promettente simulacro di immortalità nella clonazione consecutiva degli individui. Nella finzione di Houellebecq le tecniche biotecnologiche incorporano alcuni importanti elementi delle religioni tradizionali, sacralizzando il desiderio di trascendenza della propria esistenza individuale grazie a una secolarizzazione stravolta dalla diffusione improvvisa di una religione che inizialmente era considerata una bizzarra setta per disadattati (come fu il cristianesimo delle origini, in fondo). Mi è parsa un’utopia realistica, a dire il vero.
La definizione di religione che io trovo maggiormente persuasiva, ad ogni modo, è quella fenomenologica, offerta tra gli altri da Mircea Eliade. Si tratta di una definizione che cerca di attenersi strettamente ai fenomeni dell’esperienza religiosa e ne individua la matrice comune nella polarità del sacro e del profano. È una definizione che appartiene, lo si sarà capito, al primo gruppo, ma che ha anche elementi funzionali propri del secondo gruppo, perché se la religione è il fenomeno del sacro, il sacro è la polarità opposta al profano, ed il profano, infine, è ‘ciò che sta fuori dal recinto sacro’, ossia dal tempio. Mi sembra una definizione soddisfacente per due motivi: (1) perché adeguata all’esperienza religiosa che chi è religioso vive; (2) perché individua una dialettica alla base di questa esperienza, la polarità sacro/profano appunto, e non una dimensione univoca sempre eguale a se stessa. Le dimensioni dei poli opposti di questa relazione servono poi a disegnare per Eliade una distinzione tra società secolarizzate e società religiose. Nelle prime, quelle che sono anche le nostre, il sacro ha sempre meno spazio, perché la quasi totalità delle nostre esperienze non viene interpretata alla luce del sacro (caratterizzato per Eliade da un tempo circolare), bensì nella prospettiva lineare del nostro tempo quotidiano, ossia nella prospettiva di una banalità e singolarità irredimibile (cosa mai ci potrà essere di sacro nel consumare un pasto e nel provvedere alla propria igiene personale?). Il fenomeno religioso è, insomma, il teatro di uno scontro tra due polarità che non possono essere in equilibrio e che traggono il proprio alimento sottraendolo all’altra.
Le considerazioni di Dworkin si muovono in una dimensione completamente diversa da qualsiasi preoccupazione di rigore definitorio, e questo è particolarmente strano per un filosofo che comunemente si apparenta alla filosofia analitica, almeno quanto a stile argomentativo. La religione per lui è la credenza che il mondo abbia un ordine e un significato, la vita umana uno scopo e tutto questo susciti meraviglia (RsD, p. 17). Questo vago complesso di credenze non ha bisogno della presenza di un Dio personale, è ovvio, ma è più la descrizione di un’emozione estetica che l’approssimarsi in qualche modo al sacro. Infatti, chi è dentro a questo genere di esperienza, quando osserva il Grand Canyon pensa “non sia solo spettacolare, ma anche tanto meraviglioso da lasciare senza fiato” (RsD, p. 18) e siano reali le verità morali (quali? Dworkin non lo dice) che questa esperienza suscita.
Aver provato questa esperienza di essere sovrastati da qualche fenomeno naturale è una cosa alquanto comune, ma penso dobbiamo intenderci su che cosa significhi ‘naturale’. Se ‘naturale’ significa prodotto come effetto da una causa che segue le leggi di natura, le uniche leggi che sembrano essere diffuse uniformemente nell’universo, allora possiamo trovare facilmente esperienze che suscitano timore reverenziale, rispetto e deferenza, e magari anche per la presenza effettiva, e non impalpabile, di una qualche virtù alla quale possiamo attribuire delle connotazioni morali, quali l’eccellenza e il coraggio, al di fuori di quanto Dworkin sembra intendere. Ripenso ai celebri due gol di Diego Maradona ai mondiali del 1986 contro l’Inghilterra. Il primo è stato segnato con la mano. Maradona disse che, se si trattava di mano, era “la mano de Dios”. Qualcuno, anche se non forse lo stesso Maradona, magari avrà pensato che la divinità si fosse palesata in quel modo per prendere una chiara posizione sulla controversia Gran Bretagna-Argentina sulle Falkland/Malvinas. Possiamo escluderlo? No, e io tendo a pensarlo seriamente. Il secondo gol è considerato uno dei più spettacolari della storia del calcio. Riesce davvero difficile attribuirvi tutte quelle qualità che potrebbero connotare il nostro stupore di fronte a un maestoso spettacolo della natura nel senso di Dworkin? Palesemente no. Abbiamo, allora, un sentimento estetico unito a un riconoscimento di un’eccellenza, che alcuni potrebbero ritenere una sorta di virtù morale (di fatto, per noi gli eroi dello sport svolgono la stessa funzione dei semidei nell’antica Grecia), e, tuttavia, forse ancora non basta questo a farne un fenomeno religioso, almeno in un qualche senso ampiamente riconosciuto.
Dworkin offre un suo resoconto del fenomeno religioso “ragionevolmente astratto, e quindi ecumenico” (RsD, 23). Secondo questo resoconto, l’atteggiamento religioso accetta la realtà indipendente e oggettiva del valore, assieme a due giudizi sul valore medesimo. Il primo giudizio riguarda la vita umana e le riconosce un significato oggettivo. Il secondo giudizio sostiene che la natura – ossia tutte e ciascuna parte dell’universo – è non un mero dato di fatto, bensì “qualcosa che ha valore e incanto intrinseci” (RsD, 23).
Dworkin ritiene, inoltre, che sia indispensabile distinguere tra parti scientifiche di una religione e parti valoriali. Occorre fare attenzione a questa terminologia. Per parte scientifica, Dworkin intende l’esistenza degli attori o della storia narrata da una specifica religione. Questa distinzione comporta una conseguenza precisa per Dworkin, ossia l’indipendenza della parte valoriale di un complesso di credenze religiose dai suoi contenuti fattuali. Si tratta di una posizione sulla quale Dworkin ritorna spesso nel suo breve libro, per il motivo molto semplice che ritiene che il contenuto narrativo di una religione sia indipendente dai valori che quella religione veicola.
Questo è un equivoco imponente che Dworkin condivide con molti atteggiamenti laici sulla religione, che possono giungere, con una certa coerenza credo, sino ad incrociarsi con la inconsapevole vena comica di Lapo, che rimprovera alla Chiesa di non tenere il passo con l’innovazione. L’equivoco è che la religione non è la moralità e una religione non si identifica affatto con il suo contenuto morale. Questo contenuto può prendere strade che non credo sarebbero giudicate moralmente accettabili da Dworkin e dal pensiero laico, che individua nella responsabilità personale e nell’autonomia di giudizio, che si esprime nella motivazione, le fondamenta che danno all’azione che noi giudichiamo degna di essere chiamata morale in senso moderno il suo indubitabile retrogusto etico.
Pensate, per fare il primo esempio che a molti verrà in mente, alla dottrina luterana della giustificazione sola fide. Secondo questa dottrina, sin dall’eternità Dio, che è onnipotente e onnisciente, ha deciso per ragioni che ci debbono necessariamente rimanere incomprensibili (poiché tra noi e Dio non ci può essere nessuna pietra di paragone in nulla e quindi nemmeno nelle capacità conoscitive) chi salvare e chi dannare. Magari permette all’assassino sadico Odilo Globocnik di imperversare nella nazificata Adriatisches Küstenland, che comprendeva la mia città, Trieste (dove Globocnik era nato, suddito austro-ungarico, prima di diventare durante la guerra uno dei génocidaire preferiti da Himmler), e di assurgere al regno dei giusti. Magari il vicino di casa che vedo ogni domenica portare il labrador a passeggio, prima di tornare a casa a lavare la macchina, a coccolare i suoi bimbi e a fare la raccolta differenziata delle immondizie, brucerà all’inferno, anche se non ha commesso nulla di grave, se non peccati veniali e qualche innocuo atto impuro.
Questa è una visione inaccettabile nella sua struttura logica per ogni pensiero che esalta la responsabilità, l’autonomia, i diritti, come è certamente quello di Dworkin. Dobbiamo, allora, dire che il cristianesimo riformato non è una religione, solo perché non si adatta a una visione della religione, quale quella che ci offre Dworkin e tanti come lui, che confondono la religione con l’etica, quando non la confondono semplicemente con una rassicurante estetica? Perché, alla fine, la direzione io credo sia proprio questa: il fraintendimento secolarizzante delle religioni le fa intendere come una sorta di elaborazione pre-intellettuale da ragazzini non ancora maturi in vista dell’armonia etica ed estetica, se non del politically correct. E a questo punto non ci sarebbe nulla di strano, è chiaro, a pensare che la Chiesa dovrebbe essere perseguita legalmente, perché non permette il sacerdozio femminile.
È facile trovare innumerevoli esempi di credenze religiose che smentiscono questa visione da Baci Perugina della religione. Prendiamo la Bhagavadgītā e la costernazione di Arjuna, prima della battaglia di Dharmakshetra, quando si trova a fronteggiare parenti e amici che sa che ucciderà. L’esitazione di recare oltraggio al legame di sangue viene superata grazie alla guida del suo auriga, nel quale Krishna si è incarnato, che gli spiega come questo scontro imminente e tutta la strage e il sangue che ne seguirà fanno parte di un karma che coinvolge necessariamente Arjuna e le sue stesse vittime. Non si può, non si deve sfuggirgli.
Prendete, ancora, le Beatitudini di cui parlano sia il Vangelo di Matteo sia quello di Luca. Su queste recentemente ha insistito Emanuel Carrère ne Il Regno, che narra della sua passata conversione al cristianesimo, nata dalla disperazione e alimentata da un dogmatismo cieco, come può esserlo quello di un intellettuale. Carrère ora non è più cristiano, ma questo ovviamente non può fare in alcun modo la gioia dei laici superficiali, poiché io credo che colga perfettamente il punto quando scrive che il Messia non parla dicendo “‘Fate questo, non fate quello’ ma piuttosto: ‘Se fate questo, succederà quello’. Non sono prescrizioni morali ma leggi di vita, leggi karmiche; va da sé che Luca non sa cosa vuol dire ‘karma’, ma sono sicuro che coglie istintivamente l’enorme differenza che c’è fra dire: ‘Non fare a un altro ciò che non vorresti fosse fatto a te’ (questa è la regola aurea, quella che secondo il rabbino Hillel riassumeva la Legge e i Profeti) e dire: ‘Ciò che fai a un altro, lo fai a te stesso’. Ciò che dici di un altro, lo dici di te stesso. Dare dello stronzo a qualcuno è come dire: ‘io sono uno stronzo’, scriverlo su un cartello e attaccarselo in fronte.”
In tutto questo, in Arjuna e nel Messia e in altro ancora (mi riesce difficile non pensare a quello che i cristiani chiamano lo “scandalo della croce” e, nello stesso momento, mi viene alla mente Gesù che ride sulla croce nella gnostica Apocalisse di Pietro) io non ci vedo nulla di rassicurante, soprattutto non ci vedo la possibilità di depurare queste narrazioni per consegnarcele in un’aura di bellezza e semplicità che ricorderebbe la bellezza e la semplicità delle teorie scientifiche empiriche e di quelle formali (RsD, 61-68). Se aderisci all’idea che la religione sia il regno del sacro, che descrive anche una sorta di karma personale, devi anche accettare che magari ti stai trovando dalla parte sbagliata. L’idea che tutto ha una causa o una motivazione, che richiama il principio di ragion sufficiente formulato con chiarezza da Leibniz (RsD, 69) non è per forza l’idea che tutto si componga in un sentimento di armonia etico-estetica che ci pacifica.
È del tutto assente, in altre parole, nell’analisi di Dworkin l’idea che questo karma sia anche una matrice di conflitti e non solo la produzione di un appagamento che ci porta a pensare positivo in un universo maestoso e bello. In fin dei conti, qualcosa nell’universo potrebbe non avere questa dimensione per noi e, magari, tuttavia, produrre ancora qualcosa di equivalente a un’emozione estetica. Pensate al fungo di fumo prodotto dallo scoppio di un ordigno nucleare. Anche quello è un evento che ci sovrasta e che potrebbe essere accostato a quello che Kant chiamava ‘sublime dinamico’, producendo un significativo effetto estetico.
E, infine, occorrerà pur dire qualcosa di forse banale, ma che è talmente alla portata di qualsiasi riflessione critica da non poter essere più sottaciuta nemmeno qui: il contenuto di una religione può essere ripugnante. Non sto pensando tanto alle decapitazioni e ai video postati su Youtube (qualcuno dice che non si tratta di religione: be’, si sbaglia), quanto a qualcosa che ci ha riguardato da vicino e che noi sbaglieremmo a pensare sia per sempre passato.
Quando i nazisti penetrarono in Polonia nel 1939 e nel 1941 invasero l’Ucraina scatenando la follia omicida degli uomini comuni (secondo l’espressione resa celebre da Christopher Browning), una minoranza elitaria degli invasori aveva piani precisi di restaurazione/creazione di una religione pagana basata sul Walhalla nordico e di costruzione di uno spazio europeo guidato da una nuova aristocrazia, forgiata nelle battaglie e nelle stragi, necessarie entrambe per estirpare l’ebraismo/bolscevismo (che nella visione di Hitler si identificavano) in maniera definitiva, prima dall’Europa e poi dal mondo.
Sulla via di questa politica da realizzare mediante una strategia génocidaire i nazisti non avevano necessariamente obiettivi finali sempre comuni. Himmler, il dominus delle SS, coltivava il progetto di una Europa germanizzata, estesa dalla Francia alle immense pianure russe, strutturata come un sistema feudale con a capo l’élite SS ulteriormente scremata dai Totenkopfring (una delle massime onorificenze delle SS). Questo progetto era ignoto allo stesso Hitler e avrebbe fatto a meno dello stesso partito nazista, che Himmler vedeva come strumento di un fine superiore. Una nuova aristocrazia del sangue era imminente e per questo era urgente raccogliere il sangue ariano disperso a est della Germania. Questa raccolta non era soltanto una questione di analisi antropometriche (che abbondavano nella scienza nazificata), ma di riattivazione spirituale di un patrimonio sovraindividuale disperso dalla modernità (quella modernità che ha le stigmate, per Heidegger, dell’ebreo). È questa l’idea che stava alle spalle della creazione di unità non tedesche delle SS. Nel 1943, ad esempio, erano stati reclutati più di 10.000 musulmani bosniaci grazie alla collaborazione del gran muftì di Gerusalemme, Muhammad Amin al-Husseini, che in quel momento viveva a Berlino, ospite dei nazisti (anni dopo sarebbe stato il mentore di un altro Muhammad al-Husseini, passato alla storia come Yasir Arafat).
Non credo basti esclamare “follia!” di fronte a tutto questo. Anzi: credo sia una scorciatoia che usa il metro del fraintendimento per comprendere qualcosa che, in fin dei conti, potrebbe essere a portata di mano. E quanto è a portata di mano è precisamente il fatto che per alcuni, non certo una irrisoria minoranza, questi eventi criminali erano parte di credenze religiose di una religione a venire, alle quali sarebbe relativamente facile applicare molte delle specificazioni che Dworkin ritiene caratterizzino la sua religione per atei tranquilli. C’è la presenza di un significato che oltrepassa l’individuo (la prevalenza della razza ariana), un significato oggettivo dato alla vita umana (e un significato altrettanto oggettivo dato alle vite delle popolazioni che i nazisti ritenevano sub-umane, in primo luogo quelle degli ebrei e, poi, dei polacchi), l’armonia di una predestinazione (l’espansione verso est della razza padrona), lo sforzo per raggiungere l’obiettivo che renderà tutto maggiormente sensato (le strategie gnocidaire), la seducente dimensione estetica, che trascende le stesse masse che la rendono possibile (recentemente Lemmy Kilmister, leader del gruppo hard ‘n heavy Motörhead ha detto: “le persone cattive indossano sempre le uniformi più belle”). Tutto questo è stato messo al servizio di un disegno criminale e di una visione che noi riteniamo impronunciabile e che l’ipocrisia della correttezza ci impedisce di associare alla religione. Basta questo per dire che non si trattava anche di una visione religiosa? Sono convinto di no.
È chiaro che gli esempi che ho scelto sono estremi, ma per il semplice fatto che la religione può essere un’esperienza estrema, alla quale non è estranea anche una dimensione abissale. A questa dimensione abissale non è straniera l’idea di sacrificio e di capro espiatorio, che può giungere alle aberrazioni della rinascita pagana vagheggiata dal nazismo e perseguita dai vertici delle SS. È una dimensione che non si esaurisce nella pacificazione, nell’irenismo sorridente e nell’andare d’accordo con il mondo e con il secolo. Vagheggiare una religione dove l’estetica rasserenante sostituisce il divino potrà forse tenere assieme professori, che sembrano non essere mai entrati in un tempio, atei annoiati, parcheggiatori abusivi di fuoriserie, non lo nego, ma basterà guardare il film di Leni Riefenstahl Triumph des Willens, realizzato nel 1934 in occasione del raduno del partito nazista a Norimberga, per capire che anche la bellezza può non essere per nulla rasserenante. Come la religione.