Bitte liebt Österreich! (Per favore amate l’Austria!) è il titolo dell’operazione ideata a Vienna nel 2000 dal regista tedesco Christoph Schlingensief. Si trattava di un container posizionato nel centro di Vienna sormontato da un grande striscione con la frase Ausländer Raus (Fuori gli stranieri). Nel container abitava un gruppo di richiedenti asilo le cui vicende quotidiane, oltre a poter essere viste dai passanti attraverso spioncini, venivano trasmesse – in stile Grande Fratello – su una web tv grazie alla quale gli spettatori potevano osservare gli immigrati e votare l’espulsione dei meno graditi. Il premio per il vincitore sarebbe stata la cittadinanza austriaca. Questa operazione, che stimolò grandi dibattiti e discussioni, è l’ultimo esempio, paradigmatico e quanto mai attuale nel tema, proposto nel volume di Claire Bishop, Inferni artificiali: la politica della spettatorialità nell’arte partecipativa (uscito per i tipi di Luca Sossella editore), una mappa mobile di un territorio a sua volta ancora in movimento, il tentativo non facile di descrivere un esteso campo di pratiche persino difficile da denominare. Ciò che Bishop chiama “arte partecipativa”, altri nominano infatti come: arte impegnata socialmente, arte incentrata sulla comunità, comunità sperimentali, arte dialogica, arte litorale, arte interventista, arte collaborativa, arte contestuale o, in generale, pratica sociale. Una mappa che coraggiosamente si confronta con dimensioni ampie: gli esempi riportati coprono un secolo di pratiche artistiche che hanno puntato a coinvolgere e attivare il pubblico (dalle serate futuriste del 1910 al The Bijlmer-Spinoza Festival del 2009). Inoltre, sono attinti da una pluralità di contesti geografici non sempre centrali nei circuiti dell’arte contemporanea: dalla vecchia Europa si passa all’Europa dell’est e più che agli Stati Uniti si punta l’attenzione sul Sud America. Questo tentativo di mappatura mette ordine a decine di operazioni artistiche e rappresenta senza dubbio un valido strumento conoscitivo di un simile territorio.
Valido perché costruito rifuggendo semplificazioni e riduzionismi; prendendo invece in carico la complessità di pratiche che manifestano una doppia ontologia: esse si rivelano sia artistiche che sociali, emergono proprio nella tensione tra arte e vita. Ancorate al mondo reale, alla vita quotidiana dei partecipanti e allo stesso tempo capaci di sospenderlo e rivelarne dimensioni inesplorate, contraddizioni e paradossi. Nel caso citato del lavoro sui migranti “la rappresentazione artistica della detenzione ha avuto più forza di attrarre dissenso che una reale istituzione di detenzione” da tempo presente a pochi chilometri da Vienna e trascurata dai media e dall’opinione pubblica. Bishop tenta dunque di riconoscere una specificità della percezione estetica anche nel caso di operazioni impegnate socialmente, evitando di ricondurre l’arte unicamente ad obiettivi estrinseci siano essi pur nobili così come fanno i riduzionismi sociale (l’arte come modello di legame comunitario), economico (l’arte come volano di sviluppo) ed etico (l’arte come umanitarismo e generatore di consenso). Di contro, Bishop – è qui l’indicazione programmatica del titolo ripreso da Breton – sottolinea che l’arte apre uno spazio di rifiuto dell’esistente o di antagonismo, produce disturbo, rottura, contraddizione, attrito, in definitiva induce un’esperienza perturbante rispetto alle certezze consolidate e concilianti.
Naturalmente quello di Bishop è un tentativo che può e deve essere proseguito e approfondito. Al di là della necessaria genealogia artistica bisognerebbe, seguendo le indicazioni di Benjamin, farsi carico di elementi ulteriori ma imprescindibili per la definizione di arte partecipativa. Come avverte nella sua prefazione Cecilia Guida, curatrice dell’edizione italiana, Bishop trascura il ruolo dei media digitali e reticolari, lì dove invece sarebbe indispensabile coglierne l’importanza nel ridisegnare le forme espressive contemporanee. Inoltre, sebbene sia da condividere il monito dell’autrice di non far coincidere i concetti di partecipazione politica e artistica, una più precisa comprensione delle dinamiche politiche, oggi soprattutto della crisi della democrazia, e quindi del relativo concetto di partecipazione al o contro il potere, senza dubbio gioverebbe a una più circostanziata definizione di arte partecipativa. Tenere maggiormente presenti questi elementi potrebbe evitare eccessivi slittamenti in concetti chiave come quelli di spettatorialità e autorialità. Il pubblico a cui Bishop si riferisce può essere spectator, audience, viewer, observator, visitor, constituency, community, generic public. Ma nel contesto mediale e politico attuale probabilmente non tutte le declinazioni sono pertinenti. Chi possiamo poi riconoscere come autore o almeno iniziatore delle operazioni di arte partecipativa? Solo artisti riconosciuti e riconoscibili oppure, per esempio, anche organizzazioni socialmente impegnate? Il 22 aprile scorso Amnesty International, dopo il tragico naufragio di migranti nel mar Mediterraneo, ha messo in campo un’operazione partecipativa, condivisa sui siti di social network con l’hashtag #DontLetThemDrown, che ha coinvolto oltre duecento cittadini stesi sulla spiaggia di Brighton dentro nere sacche da morto per richiamare l’attenzione sulla crisi dei migranti e la mancata risposta da parte dei governi europei, a iniziare da quello di Cameron. Un’esperienza che sicuramente ha scosso la sensibilità pubblica britannica predisponendo una situazione che ha fuso “la realtà con un artificio attentamente regolato” come nei migliori esempi di arte partecipativa proposti in Inferni artificiali, utili a esperire aspetti del nostro mondo – come l’immigrazione – assai poco rassicuranti ma non per questo meno decisivi per le sue sorti.