Parte seconda.
La marea con cui l’Isis ha inondato la Mesopotamia ha trovato da subito nel Pkk e nei gruppi ad esso affiliati una spina nel fianco. L’anno scorso i guerriglieri provenienti dalla Turchia hanno avuto un ruolo di primo piano nella battaglia contro l’Isis in Iraq, schierandosi a fianco dei peshmerga del Kurdistan iracheno per arginare l’offensiva islamista. Subito dopo i curdi di Ypg sono intervenuti nelle montagne dello Sinjar, sconfinando dalla Siria, per prestare soccorso agli yezidi assediati. Nel luglio del 2014 il califfato ha tentato una rappresaglia, attaccando in forze la cittadina di Kobane, capitale di uno dei tre cantoni controllati da Ypg in Siria. Se l’Isis fosse riuscito a prendere il controllo della città, avrebbe diviso i due cantoni rimanenti, ponendo le basi per la distruzione del movimento curdo nel paese. Com’è noto, il tentativo è fallito e all’inizio del 2015 gli islamisti hanno dovuto ritirarsi lasciando sul campo una schiera di cadaveri.
L’atteggiamento della coalizione anti-Isis in questo frangente è sintomatico. Dopo un’esitazione iniziale gli Usa hanno accordato a Ypg e Ypj una copertura aerea che ha avuto un ruolo rilevante nella vittoria. Non hanno però acconsentito alla richiesta principale dei guerriglieri: la fornitura di armamenti. L’Isis dispone infatti di un arsenale avanzato, frutto di saccheggi ai danni dell’esercito e dei ribelli siriani, nonché delle forze armate irachene. I curdi possono avvalersi quasi esclusivamente di armi leggere. La ragione di tanta cautela da parte di Washington nell’armare la fanteria più efficace nella lotta all’Isis si spiega con i malumori di un altro membro della Nato: la Turchia.
Dopo aver sostenuto nei primi anni di governo una politica di apertura verso i curdi, avviando uno storico processo di pace, negli ultimi tempi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta invertendo la direzione di marcia. Durante la battaglia di Kobane l’esercito turco, schierato sul confine, ha boicottato sistematicamente la resistenza curda. Al contempo manteneva quella che, nel migliore dei casi, appare come un’indulgente indifferenza nei confronti dello Stato islamico. L’atteggiamento del governo si è inasprito ancora dopo il voto del giugno scorso, quando il partito di Erdogan, l’Akp, ha perso la maggioranza assoluta alle elezioni; per la prima volta il partito curdo Hdp, vicino al Pkk, ha oltrepassato la soglia di sbarramento del 10% conquistando 79 deputati.
In luglio un attentato kamikaze ha ucciso una trentina di giovani in procinto di partire per una missione di solidarietà a Kobane nella città di Suruç, nel Kurdistan turco. Secondo il Pkk i servizi segreti di Ankara avrebbero lasciato fare, se non addirittura aiutato, gli attentatori. Nei giorni successivi due agenti di polizia turchi sono stati uccisi in un attacco di cui il movimento curdo si è assunto la responsabilità. Alla fine del mese l’esercito turco ha avviato una vasta operazione militare, salutata dai media internazionali come l’inizio della guerra di Ankara contro l’Isis. A qualche mese di distanza la realtà dei fatti è che, dopo qualche attacco cosmetico ai danni dello Stato islamico, le forze armate turche restano interessate più che altro alla distruzione del Pkk. L’impresa si sta dimostrando più ardua del previsto, la parte sudorientale del paese sta precipitando nella guerra civile. Nel frattempo Erdogan si accinge a chiamare gli elettori a elezioni anticipate sulla cui trasparenza, in pieno conflitto, è difficile non covare dei dubbi.
Mentre tutto ciò avveniva in Turchia, i curdi siriani estendevano i territori sotto il loro controllo sottraendo ulteriore terreno all’Isis e unendo i due cantoni orientali. L’offensiva turca contro il Pkk, però, ha privato il Pyd di un vitale retroterra logistico. I guerriglieri temono ora una possibile invasione da parte dell’esercito turco, giustificata dalla pretesa di combattere il califfato.
In tutto questo gli Stati uniti, e l’Europa al loro traino, mantengono un ruolo paradossale. Dopo l’inizio del conflitto con il Pkk la Turchia ha concesso a Washington l’uso della base Nato di Incirlik per i raid della coalizione anti-Isis (singolare che un paese che formalmente faceva parte di quella coalizione non l’avesse fatto fino a quel momento). Nel frattempo gli Usa continuano a fornire il supporto aereo alla guerra che il braccio siriano del Pkk conduce contro il califfato, proprio mentre a pochi chilometri Ankara, stato membro della Nato, mette in atto una repressione sanguinosa contro il ramo turco di quello stesso movimento.
Sul campo il Pkk-Pyd ricopre un ruolo di primo piano. Esso scompare, però, nelle proposte improntate a un presunto realismo: sia Petraeus che scommette su al-Qaida, siano gli analisti europei che sperano in un accordo con Assad. Al massimo ci si chiede come risolvere “la questione curda” in Turchia ma, fatta eccezione per gli ambiti della sinistra radicale intenti a lucidare l’icona di Ypg, il destino dei territori autogovernati dai curdi siriani non sembra interessare nessuno.
Come tutte le scelte in questo conflitto, dare un peso al Pyd nella futura Siria post-bellica non è un’opzione a costo zero: susciterebbe l’ira della Turchia e porrebbe il problema dei rapporti con il governo di Damasco, qualunque forma esso debba prendere. Eppure manterrebbe in vita la più avanzata proposta democratica e laica emersa in Medio oriente dal ribollire delle Primavere arabe. È un dato evidente eppure ignorato: ciò si deve a una forma di miope pragmatismo e alla cautela nei confronti di un’Ankara sempre più brutale e spericolata, ma anche a ragioni di ordine ideologico.
Dal punto di vista militare i curdi non hanno una potenza alle loro spalle, ciò li rende poco interessanti per le analisi geopolitiche sempre attente alle aree di influenza. Dal punto di vista politico il confederalismo democratico stona con il malcelato orientalismo con cui l’Europa guarda al «mondo islamico»: l’esistenza di un movimento post-nazionale, laico e libertario in Medio oriente risulta del tutto inconcepibile. Infine la collocazione nella sinistra radicale del Pkk lo rende vittima di una cecità selettiva che costituisce un fenomeno di carattere generale del nostro tempo.
Sparito il Pkk da tutti i radar, gli analisti occidentali continuano a proporre soluzioni ottocentesche a un problema quanto mai attuale e a un nemico, lo Stato islamico, inserito a pieno nel nostro tempo. Come i «sonnambuli» che nel libro di Cristopher Clark portarono all’esplodere della Grande guerra, rispondiamo secondo abitudine a sfide nuove, potenzialmente distruttive. Proprio nel momento in cui bisognerebbe pensare alla futura stabilità del Mediterraneo con autentico, spregiudicato realismo.