Il seguente brano è parte della traduzione di un colloquio tra Boris Groys, Jochen Hörisch, Thomas Macho, Peter Sloterdijk e Peter Weibel, svoltosi in Germania nel 2005 e ora in corso di pubblicazione presso Mimemis, con il titolo IL CAPITALISMO DIVINO. COLLOQUIO SU DENARO, CONSUMO, ARTE E DISTRUZIONE, edizione curata da Stefano Franchini
con una postfazione di Paolo Perticari
Signore e signori, vorrei condividere con Voi alcune riflessioni alle quali potrei dare il titolo “La seconda delusione. Sulla svolta post-democratica del capitalismo” e con le quali intendo anzitutto proporre un avvicinamento pragmatico all’entusiasmante tematica di questa sera. Quello che mi interessa è mostrare come oggi sia più facile che mai essere profeta. Per questa ragione, prenderò le mosse da una serie di idee, suggerendovi d’intenderle come se venissero pronunciate intorno all’anno 2200. Come immaginarci una cosa del genere? Un politologo del 2200 guarda all’inizio del XXI secolo e, impiegando il registro del profeta rivolto all’indietro e insieme dello storiografo, interpreta ciò che d’essenziale è avvenuto in quel periodo, peraltro non senza che i contemporanei più sensibili di quell’epoca l’avessero già colto grazie a premonizioni atmosferiche o esplicite constatazioni. Intorno al 2000 si poté infatti osservare un fenomeno che gli europei, nella misura in cui possedevano ancora una sufficiente memoria storica, avevano già incontrato una volta negli anni Trenta del XX secolo: parlo del passaggio delle società liberali al modello del capitalismo autoritario. Supponiamo che il profeta rivolto all’indietro operante nel 2200 sia sufficientemente istruito e perspicace, nell’ambito della filosofi a della storia, per collegare a queste osservazioni una riflessione nello stile di una considerazione sulla storia universale: una considerazione, tuttavia, sviluppata in una tonalità riconducibile più a Hegel che a Jacob Burckhardt. Il lavoro logico che Hegel ha svolto sulla storia umana non è connotato solamente dai celebri schemi dialettici, ma anche dal concetto di Enttäuschung (delusione, disillusione). Hegel – non lo si è mai sottolineato abbastanza – è forse il maggiore teorico della delusione, poiché, al centro del suo concetto di esperienza, troviamo il motivo dello spirito deluso. Il commentatore del 2200 può adesso arrivare al nocciolo della questione. Egli infatti afferma che, nella storia dello spirito moderno, vi sono state due grandi svolte incentrate sulla delusione, di cui l’una segna l’inizio e l’altra la provvisoria fi ne di quella storia. Il primo punto di svolta è descritto con la parola chiave “crociate”, mentre la seconda con la parola chiave “capitalismo divino”. Per quanto concerne la prima svolta, posso essere assai breve, perché il necessario potete trovarlo nelle hegeliane Lezioni sulla filosofi a della storia. Qui Hegel ha derivato la nascita dell’Europa moderna dallo spirito della delusione ingenerata dalle crociate. In una grande narrazione di sublime astrattezza svela che gli europei, in base al loro profi lo spirituale, hanno potuto diventare quelli che sono soltanto dopo essersi messi in marcia per la crociata, al fi ne d’impadronirsi del Santissimo gerosolimitano, ossia il santo sepolcro, che gli europei desiderano ardentemente possedere. Ai loro occhi, per ragioni inizialmente comprensibili, la tomba di Cristo aveva il valore di centro del mondo. Ma i cristiani dell’Europa nord-occidentale, a causa di un’amara ironia della sorte geopolitica, sono stati esclusi dal possesso di questo luogo, e a partire dal momento in cui diventano consapevoli di quanto sia intollerabile questa circostanza, specie dopo la conquista di Gerusalemme da parte dei musulmani, finiscono anche per comprendere che non possono più sopportare questa situazione. Di conseguenza, si vedono costretti a organizzare delle crociate. Hegel però osserva che partire per la crociata significa desiderare d’impadronirsi dell’assoluto oppure, per esprimerci in termini religiosi, del Santissimo, concependolo sotto forma di esteriorità.
Questa infatti è la natura dell’illusione cattolica che muove innumerevoli cavalieri feudali a montare a cavallo per raggiungere, con sforzi immani, questo angolo del pianeta pesantemente funestato da Dio, che ancora oggi gode della dubbia fama di essere la regione che riflette il clima (Wetterecke) della storia universale: in una sua poesia, Peter Rühmkorf l’ha recentemente chiamata, con un accento sprezzante, la fossa depressiva delle tre divinità (Dreigöttersenke). Qui però accadde ciò che era inevitabile, affinché gli europei ne traessero la lezione a loro destinata. Davanti al sepolcro aperto di Gerusalemme l’anima europea subisce la propria delusione costitutiva, perché capisce concretamente ciò che fi no a quel momento aveva soltanto sentito dire, ma non aveva direttamente veduto, e a cui perciò non aveva mai creduto seriamente: il sepolcro è vuoto, il sacro si rivela come non-oggetto. Europeo è colui che, in un modo o nell’altro, si è avvicinato al sepolcro vuoto di Cristo, vedendo che lì non c’è letteralmente nulla. A partire da quel momento, si afferma l’idea decisiva secondo la quale l’infinito o l’assoluto può essere cercato soltanto sotto forma d’interiorità. In questa maniera, viene generata la grande svolta verso la religione soggettiva, che pone fi ne al feticismo cattolico e conduce prima al protestantesimo e poi all’Illuminismo, di cui gli individui istruiti del 2000 sono pur sempre gli eredi nel senso più lato del termine. Il nostro brav’uomo del 2200 afferma inoltre che, intorno al 2000, tra gli uomini del mondo occidentale, si vanno diffondendo delle nuove dicerie. Si sostiene che ormai, in avvenire, avendo a che fare con una delusione costitutiva, la lezione subita a Gerusalemme non servirà più. Intanto, nel mondo, sorge una nuova capitale della delusione, ossia Singapore. Questa città sta agli individui del 2000 come Gerusalemme stava agli europei vissuti tra il 1096 e il 1270. Questa tesi un po’ strabiliante necessita di una spiegazione. Dal punto di vista della storia delle idee, Singapore finisce al centro dell’attenzione per un significativo periodo, perché vi è stata condotta, con eclatante successo, un’operazione pericolosa, forse fatale, di cui gli odierni europei percepiscono certamente le conseguenze, ma ancora senza comprenderle. Nella città-Stato di Singapore, uno statista a suo modo geniale di nome Lee Kuan Yew, che svolse il ruolo di Primo ministro dal 1959 al 1990, creò una forma asiatica di dittatura morbida oppure, si potrebbe anche dire, un autoritarismo democratico. Alla base di questo progetto si trovava fi n dal principio un grado elevato di consapevolezza ideologica, poiché Lee Kuan Yew si rifaceva a una comparazione estensiva tra civiltà e a un’esplicita filosofi a dei valori. A livello di teoria della civilizzazione, la tesi centrale di Yew consisteva nella seguente affermazione critica: la triade che determina la civiltà dell’Occidente, ossia capitalismo, razionalismo e liberalismo democratico, è composta erroneamente, specie in relazione al terzo elemento. Mentre per Yew anche una civiltà asiatica può far uso, in misura più o meno diretta, delle due componenti capitalismo e razionalismo, l’elemento democratico-liberale va invece espulso da questa triade, se si vuole ottenere una soluzione compatibile con le idee di valore e le tradizioni dell’Asia. Di conseguenza, nell’esperimento di Singapore si è deciso di togliere la terza gamba del tripode, sostituendola con un’altra componente, ossia, se così posso esprimermi, con una gamba di legno asiatica, che mette le forme mentali di tipo olistico e autoritario al posto del liberalismo.
Ora posso spiegare meglio perché Singapore, in quanto luogo della seconda, grande delusione dell’epoca moderna, possa essere annoverato nella storia delle idee politiche e in che senso Lee Kuan Yew rappresenti una fi gura fatale, a dispetto del suo essere relativamente sconosciuto in Europa e della scarsa influenza politica esercitata al di fuori della sua regione. Infatti, ciò che Yew ha sperimentato a Singapore, costruendo il tripode alternativo, quello asiatico, non è diverso da ciò che ho chiamato capitalismo autoritario. Con il suo dominio trentennale sulla città-Stato dell’Estremo Oriente, egli è riuscito a dimostrare che la convinzione occidentale di un’affinità inscindibile tra forma capitalistica dell’economia e democrazia liberale costituisce un pregiudizio confutabile. Se quanto sta accadendo non m’inganna, questa dimostrazione ha carattere profetico. Essa rivela come lo stile di vita del consumismo capitalistico, che nel frattempo ha fatto la sua comparsa in Asia, non debba necessariamente accompagnarsi al liberalismo politico. Yew ha mostrato come il modello della gestione economica autoritaria possa essere superiore al modello della contesa politica o della battaglia politica che caratterizza il sistema parlamentare pluripartitico. Di conseguenza, il principio della oikonomia – la direzione domestica o padronale delle attività economiche – è in grado di propagarsi anche alle faccende politiche… una situazione che forse, attraverso il brutto termine “dittatura”, riceve un accento un po’ troppo negativo. Per giunta, anche Singapore possiede una retorica democratica ampiamente sviluppata, che ricorda le consuetudini dell’epoca imperiale romana. Com’è noto, allora fu infl azionata la formula senatus popolusque romanus (SPQR) per rendere di pubblico dominio, con una reverenza verbale di fronte al Senato e al popolo, quelle che erano decisioni imperiali autocratiche. Lee Kuan Yew ha perfezionato questa strategia romana. Tra l’altro, egli predicava che questo moderno autoritarismo asiatico fosse la vera democrazia e che la rinuncia agli eccessi del liberalismo occidentale attestasse unicamente la saggezza dei popoli asiatici. Il concetto di “eccesso” ha grande rilevanza nel discorso critico nei confronti dell’Europa e dell’America elaborato nel mondo orientale, tra Arabia e Cina, poiché là viene considerato eccesso quasi tutto ciò che noi qui siamo e rappresentiamo con il nostro modus vivendi. Possiamo riconoscere in queste critiche un versante plausibile, tenendo conto che molti di noi sono già, in certo qual modo, “ultimi uomini”, e non soltanto nel senso indicato da Nietzsche, ma anche in ottica demografica, giacché in nessun’altra parte del mondo troviamo così tanti individui che, grazie alla separazione, praticata a livello di massa, tra sessualità e procreazione, hanno scelto lo stile di vita di flipper senza fi gli, oppure, per esprimerci in modo meno dozzinale, quello di utilizzatori finali delle proprie chance di vita. Quali conclusioni trarre da questa riflessione? Dalla prospettiva del profeta rivolto all’indietro nell’anno 2200, Singapore costituisce un punto di svolta nella storia della delusione che caratterizza la nostra civiltà, perché a Singapore l’Occidente ha subito, o meglio sta subendo, la sua seconda delusione costitutiva. Personalmente definisco questa delusione come il virus singaporiano, poiché, per via della sua qualità estremamente infettiva, produce un’epidemia globale che sta contagiando in maniera decisiva il clima politico mondiale. I primi a essere stati colpiti da questo virus (o meglio, ad averlo consapevolmente introdotto nel loro Paese) sono stati i cinesi, poi i russi, infi ne persino gli americani e, se guardiamo all’Europa, anche gli italiani dell’era Berlusconi, i quali, a modo loro, sono fi niti in acque post-liberali. Ovunque sono state accettate le regole del gioco messe a punto a Singapore, adattandole di volta in volta alle specifiche situazioni. Si potrebbe anche dire che, ai quattro angoli del pianeta, è cominciata una riforma che punta alla trasformazione delle società nel senso del capitalismo autoritario e che si svolge su uno sfondo o post-comunista o postliberale. Possiamo cogliere con mano questo processo soprattutto nella Cina post-maoista, dove, intorno al 1980, giunsero al potere alcuni riformatori come Zhao Ziyang (1919-2005), il quale, in veste di primo ministro e di segretario del partito pro tempore, fu responsabile della svolta verso l’apertura della Cina all’economia di mercato basata sulla proprietà privata
Nel ruolo di “padre del miracolo economico cinese” egli godette di grande popolarità, ma, per via del suo atteggiamento conciliante nei confronti degli studenti durante le loro proteste nella piazza della Pace Celeste nel 1989, venne condannato agli arresti domiciliari, dove morì di lì a poco, condotto al cimitero solo da pochi intimi. Si riesce a valutare adeguatamente l’importanza di questi processi soltanto se ci si rende conto che il miracolo economico cinese, che da allora tiene il mondo con il fiato sospeso, risale, in sostanza, all’attenta imitazione dei processi svoltisi a Singapore da parte della dirigenza cinese, la quale pervenne alla conclusione che anche in un grande Paese potesse essere realizzato il legame tra capitalismo e autoritarismo. Possiamo dire qualcosa di simile anche per quanto concerne l’evoluzione della Russia post-sovietica, con la differenza che qui, al posto della variante di capitalismo autoritario incentrata sulla dittatura del partito, dominante in Cina, troviamo una variante incentrata piuttosto sulla dittatura dello Stato, in competizione con quella mafi osa e anarchica. Ancor più inquietante, ovviamente, è il fatto che anche gli statunitensi abbiano contratto il virus singaporianocinese. Ciò è accaduto, da un lato, per via di quella che potremmo definire la loro svolta “pacifica”, ossia l’aver posizionato il loro baricentro, in economia e in politica estera, sul versante non atlantico del globo, e dall’altro, attraverso le infiltrazioni neo-conservatrici nell’amministrazione Bush. Potremmo addirittura affermare che il bushismo, in un certo senso, rappresenta il tentativo di trapiantare lo standard di Singapore negli Stati Uniti. A tal fi ne, la cesura dell’11 settembre 2001 e la retorica bellicistica che ne è scaturita offrono i contesti più adatti. L’obiettivo di questa politica consiste nel creare una oligarchia avventurosa, che metta alla prova la separabilità di capitalismo e democrazia anche sul suolo americano, pur mantenendo, al contempo, l’alta congiuntura caratterizzata dalle evocazioni retoriche di democrazia e liberalismo. Resta infi ne da capire come si pongano gli europei rispetto a queste tendenze. A tal proposito, basta guardare all’Italia, che fi n dalla prima guerra mondiale ha svolto, in Europa, la funzione di laboratorio della modernità. Quel che rinveniamo è abbastanza chiaro, poiché il berlusconismo (che continua a produrre effetti strutturali anche dopo la mancata rielezione di Silvio Berlusconi) va interpretato, per molti aspetti, come una versione europea di capitalismo autoritario: un autoritarismo dal volto sorridente, si capisce, che unifi ca in sé consumismo e mediocrazia. Se poi ci chiediamo quali saranno le tendenze generali nelle nazioni dell’Europa centrale e occidentale, anche qui si delinea un quadro problematico. Si pensi, come esempio scontato, al comportamento dell’elettorato olandese e francese, cioè popoli liberali di vecchia data, in occasione del referendum sulla Costituzione europea. Le due nazioni, che figurano entrambe tra quelle fondatrici della Comunità europea e che sono state praticamente i pionieri degli “Stati Uniti e Liberali d’Europa”, si sono espresse in modo spettacolare, con il loro rifiuto della Costituzione europea, in favore di una svolta neo-protezionistica che potrebbe significare l’assunzione, da parte di queste vecchie civiltà liberali, di una variante di autoritarismo formattata su scala nazionale. Bisogna pur sempre constatare, tuttavia, che lo spazio d’azione europeo è ancora più aperto di qualunque altro. Qui continuano a esistere tradizioni liberali che percepiamo come gradite e preziose, e quindi tocca ora agli europei riflettere su quanto si debba salvare di questi beni. La parola “salvezza” può sembrare un tantino patetica, ma, sullo sfondo di quanto abbiamo detto, un po’ di pathos non è certo fuori luogo. Se da tutti i tripodi del mondo dovesse propagarsi la profezia che i tre elementi apparentemente inscindibili: razionalismo, capitalismo e liberalismo democratico, possano invece essere separati, spetterebbe bene o male al continente-madre dell’idea democratica il compito di rigenerare la sua idea più preziosa.