Proprio ieri, parlando con un amico scrittore, si discuteva della gigantesca paranoia di Céline, che aveva dissipato talento, soldi, chances in nome della propria idea di arte e di letteratura. Se non che Céline aveva anche passato il resto della propria vita a lamentarsi di quello che gli era accaduto, cercando di affrontare la sventura — che egli stesso aveva procurato — che seguì alla pubblicazione dei suoi terribili e sublimi, deliranti pamphlet. Ci interrogavamo su cosa l’artista debba fare quando egli ha deciso di essere un irregolare, un paria. In fondo, ciò che capisco umanamente ma che mi provoca qualche interrogativo è proprio il rapporto tra la rivendicazione di una libertà artistica assoluta, cosa che nella Francia di Céline come nella Francia di oggi aveva e ha qualche senso pretendere, e le giaculatorie per le conseguenze di quella libertà. In fondo lo scrittore, l’artista, ha una licenza speciale, nel suo campo, di dire tutto ciò che ritiene vada detto. Ma, ecco il punto, come dovrà affrontare le conseguenze di ciò che, detto nella sfera dell’arte, produrrà per le istituzioni o per la società effetti dirompenti?
Dovrà egli rivendicare una libertà priva di conseguenze,e pretendere che quelle conseguenze non si dispieghino? Oppure dovrà rivendicare una libertà nel campo dell’arte e pereat mundus?
Per cercare una risposta, rileggo le lettere dal carcere di Egon Schiele. Nel 1912 Schiele venne arrestato a Neulengbach con l’accusa di aver sedotto una minorenne (Tatjana von Mossig) e di aver esposto materiale pornografico in un luogo accessibile a minori. In seguito si dimostrò, anche grazie a una perizia medica, che la giovane Tatjana, che era stata sua modella, non era stata abusata dall’artista. Ma Schiele fu comunque condannato per l’altra accusa (l’esposizione di materiale pornografico): gli furono sequestrati un centinaio di disegni, e uno di essi fu addirittura bruciato dal giudice in udienza. Schiele aveva trascorso 24 giorni di detenzione preventiva. Per non impazzire, aveva iniziato a disegnare sulle pareti della cella, “con dita tremanti inumidite nella mia saliva amara” (lettera del 16 aprile 1912). Poi disegnerà la sua cella, il corridoio… piccoli gesti che gli daranno una felicità indicibile. Nel Diario dal carcere, pubblicato postumo, Schiele racconterà l’orrore di quei giorni: “Devo convivere con i miei escrementi, respirarne l’esalazione velenosa e soffocante. Ho la barba incolta — non posso neppure lavarmi a modo” (18 aprile). Accompagnerà queste terribili pagine con le grida contro l’indifferenza dei colleghi e della società viennese (“Nessun grido risuona a Vienna per il mio arresto”, 17 aprile). Respingerà recisamente l’accusa di oscenità: “Non l’ho mai negato: ho fatto disegni e acquarelli erotici. Ma sono opere d’arte — lo sostengo, e saranno liete di confermarlo le persone che se ne intendono. Nessuna opera d’arte erotica è oscena se è artisticamente rilevante” (il corsivo è mio). Schiele invocherà il parere di artisti, colleghi, esperti: ciò che è osceno per le istituzioni lo è per colpa degli occhi lubrichi di chi guarda. Sosterrà che la sua carcerazione è uno scandalo: “Autodafé! Savonarola! Inquisizione! Medioevo! Castrazione istituzionalizzata, ipocrisia!”, scriverà l’8 maggio del ’12 rivendicando all’arte la funzione di parlare liberamente di ciò che per gli altri può essere turpe in quanto rimosso (“Hanno dimenticato la terribile passione che da piccoli gli ardeva dentro e li tormentava?”).
Ma c’è qualcos’altro che attrasse il mio sguardo e che oggi mi riporta a quelle pagine: l’idea, romantica ma anche tipica della Secessione viennese, di una funzione sacrale dell’artista, che per questo però è destinato a soffrire per colpa di una società “ignorante e brutale, non in grado di comprenderlo” (lo scrive Federica Armiraglio nella Postfazione al diario). Schiele si muove contraddittoriamente tra questi due poli: è uno scandalo incarcerare un artista; ma egli sopporterà tutto questo in nome dell’arte (“Ieri: gemiti — lievi, timidi, lamentosi; urla — forti, incessanti, imploranti; singhiozzi addolorati — disperati, angosciosamente disperati; — infine mi allungo, schiacciato, le membra gelate, scosso da brividi mortali, bagnato di sudore. Eppure sopporterò volentieri per l’Arte e per i miei cari!”: 25 aprile). Martirio e rivendicazione della propria innocente superiorità alle convenzioni e alle regole della morale corrente.
Mi pare che ci si dibatta ancora tra queste contraddizioni, come dimostra il caso di Erri De Luca, per il quale l’accusa ha chiesto 8 mesi di reclusione per aver incitato al sabotaggio. E’ giusto condannare un artista per le sue parole? Oppure egli, che deve rivendicare il diritto di dirle, dovrà accettare, pur continando a battersi, che il mondo ‘ignorante e brutale’ delle istituzioni e della società non lo capisca, e perciò lo condanni? Sarebbe quest’ultimo un martirio, un segno di remissione, oppure un più alto appello all’arte, che non può essere compresa e giudicata, e dunque pereat mundus?
Pure io sto con Erri, però vorrei che fosse lui stesso a chiarirmi questo dilemma.