Fino all’11 settembre 2001 il termine Ground Zero identificava l’ipocentro dello scoppio della bomba Little Boy su Hiroshima. Dopo quel giorno tale denominazione si riferirà unicamente al sito ove sorgevano le Torri Gemelle, luogo simbolo dell’apocalisse del presente. Da allora «tutti dicono 11 settembre senza aggiungere altro, e forse così resterà. Non era avvenuto neppure con la scoperta dell’America o l’inizio delle Guerre Mondiali» (Zoja, 2002, p. 10).
L’America non aveva mai subito sul proprio suolo un attacco simile. La traumatica vicenda di Pearl Harbor, che ad alcuni potrebbe sembrare un precedente, avvenne nella base militare delle isole Hawaii, e pertanto l’azione rimase lontana dai cittadini americani del continente. Le Torri Gemelle erano invece a New York, il cuore economico e culturale degli Stati Uniti. L’attacco alle torri è stato subito considerato «una sfida simbolica» (Baudrillard, 2001, p. 18).
Il trauma e il ritorno degli oggetti cattivi
«Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune all’umanità, seminato confusione in tante limpide intelligenze, degradato così radicalmente tutto ciò che è elevato» (Freud, 1915, p. 123). Queste parole, Freud le scrisse a proposito della Prima guerra mondiale, a quel tempo un conflitto senza precedenti, che indusse poi lo scienziato viennese a rivedere parte della propria teoria pulsionale e a scrivere di un nuovo tipo di patologia, la nevrosi di guerra. «Le nevrosi di guerra sono delle nevrosi traumatiche, che, come è noto, si presentano anche in tempo di pace in seguito a esperienze spaventose o a gravi incidenti» (Freud, 1919, p. 73). Caratteristica dei nevrotici di guerra è che essi rivivono nei sogni quegli eventi angoscianti. Secondo la teoria classica della psicoanalisi, i sogni sono espressione di un desiderio inconscio, il sogno traumatico invece fa eccezione, e l’episodio che andrebbe rimosso, si ripropone.
Lo psicoanalista inglese Ronald Fairnbairn spiegava le nevrosi di guerra in termini di “oggetti cattivi rimossi”. Semplificando il suo pensiero, il mondo interno, psichico, è popolato di “oggetti”, cioè di rappresentazioni interne della realtà; fra questi vi sono gli oggetti cattivi che nelle «situazioni traumatiche hanno un ruolo importante come fattori precipitanti; ed è in questa direzione che dobbiamo cercare se vogliamo capire le nevrosi di guerra» (Fairbairn, 1951, p. 200). La persona traumatizzata «per quanto desideri rifiutarli, non può allontanarsi da essi. [Gli oggetti cattivi] gli si impongono; ed egli non può resistere loro perché hanno un potere su di lui. Quindi egli è costretto a interiorizzarli nel tentativo di controllarli. Ma tentando di controllarli in questo modo, egli interiorizza degli oggetti che hanno tenuto il potere su di lui nel mondo esterno; e questi oggetti conservano il loro dominio su di lui nel mondo interiore. In una parola, egli è “posseduto” da essi, come dagli spiriti maligni» (Fairbairn, 1943, p. 94).
L’attacco alle Torri Gemelle fu senz’altro un evento spaventoso, e come tale è stato descritto in molte opere letterarie, tanto che oggi si parla di letteratura post-11-settembre (o post-9/11). Per questa narrativa riteniamo di poter applicare ciò che scrisse Hanna Segal per l’opera artistica: «ogni creazione è realmente la ri-creazione di un oggetto una volta amato e intero, ma adesso perduto e rovinato, un mondo interno e un Sé distrutti. Quando questo mondo dentro di noi è a pezzi, quando è morto e senza amore, quando i nostri cari sono distrutti e noi stessi in una disperazione impotente, allora dobbiamo ricreare il nostro mondo, rimettere insieme i pezzi, infondere vita ai frammenti morti, ri-creare la vita» (Segal, 1952, p. 241).
La creazione artistica (e letteraria) si presenta come la ri-creazione di un oggetto che un tempo era amato ed integro e che va ri-creato raccogliendone i frammenti che sono andati persi. Quando la perdita è stata riconosciuta e il dolore sofferto, avviene la ri-creazione. Molta della letteratura americana post 9/11 pubblicata nell’arco del primo decennio degli anni Duemila, non attua questo processo. In diversi romanzi (L’uomo che cade di Don Delillo, Good Life di Jay McInerney), come anche nei racconti di cui di seguito si scriverà, gli autori, anche i maggiori, sembra non siano riusciti a superare il momento del crollo delle torri, e hanno descritto l’America limitandosi a parlare di pochi oggetti simboleggianti l’angoscia della sciagura vissuta. La loro narrativa, limitata a sentimenti e punti di vista personali, descrive oggetti “parziali”, cioè oggetti descritti come parte dell’autore traumatizzato e come appartenenti ad una realtà circoscritta il cui confine è solo e solamente Ground Zero. Finora solo pochi autori, per fare un esempio Amy Waldman con il romanzo Nei confini di un giardino (2011), sono riusciti a portate a termine il processo di ri-creare la totalità dell’oggetto amato e poi perduto (Manhattan e l’idea stessa di America), ponendo in narrativa quanto accaduto al World Trade Center, ma con un’ampia visione che va al di là del trauma personale e che abbraccia un’ampia parte della realtà americana.
Il processo psicologico del ritorno degli oggetti cattivi citato da Fairbairn, è individuabile in alcuni testi letterari, sia mainstream sia, soprattutto, di genere fantastico, il solo capace di rendere metaforicamente rappresentabili i fatti psichici. Nel romanzo Giochi d’infanzia (The Writing on the Wall, 2005) di Lynne Sharon Schwartz la caduta delle torri fa riemergere i vecchi traumi. La protagonista viene sorpresa in strada durante il crollo delle Torri, e durante quello che chiama un uragano di carta a seguito dell’esplosione del WTC, «tra le carte ammassate accanto alla griglia di un tombino coperto di cenere […] come se fosse andata lì a cercarla apposta trovò la banconota da venti dollari» (Schwartz, 2005, p. 55). La donna, da bambina era stata accusata di aver rubato tale cifra dalla cassa comune organizzate fra amiche, e l’episodio fu il primo trauma infantile subito dalla protagonista. Il giorno dell’11 settembre, i venti dollari ritornano. Il romanzo della Schwartz esemplifica il meccanismo per il quale il trauma presente ripropone i ricordi del passato sotto forma di oggetti.
Lucius Shepard, scrittore duro e capace di trattare tematiche forti dell’attualità americana, nel 2003 scrive il racconto malinconico e pensoso Only Partly Here, che strizza l’occhio solo per un momento alla storia di fantasmi, ma si rivela essere un moderno quadro di solitudine urbana ambientato pochi giorni dopo il crollo delle torri: i soccorsi sono ancora in corso, i vigili del fuoco continuano a scavare, e Bobby, un laureando che si è preso un anno sabbatico ed aiuta a Ground Zero, trova una scarpa da donna di color azzurro. Quando lui e altri due amici impegnati negli scavi vanno a bere, al bar incontra Alicia, una donna silenziosa e appartata che sta seduta al bancone, e non le importa di attirare gli sguardi degli uomini che lì si raccolgono per distendersi. Bobby regala alla ragazza la scarpa, «l’unico oggetto abbastanza potente da convogliare i suoi sentimenti» (Shepard, 2003, p. 18). Lei ha un sussulto e fugge, scomparendo nel traffico come fosse un fantasma richiamato da quell’oggetto che forse le era appartenuto nel momento della caduta delle Torri.
Da premesse simili parte Stephen King, che nel racconto lungo Le voci delle cose (The Things They Left Behind, 2005) descrive il trauma del superstite. Il protagonista Scott Staley, il cui ufficio alle assicurazioni Light and Bell era al WTC, è miracolosamente scampato alla morte. L’uomo vive la sensazione provata da molti sopravvissuti al crollo delle Torri, una sorta di senso di colpa per essere ancora vivo. A quasi un anno dalla tragedia, egli vede materializzarsi nel suo appartamento alcuni oggetti appartenenti ai colleghi di lavoro morti l’11 settembre: una mazza da baseball, un paio d’occhiali, un cuscino, una conchiglia, una moneta preservata in un blocco di resina, un fungo di ceramica. L’uomo cerca di sbarazzarsene in diversi modi, ma gli oggetti ritornano, gli procurano visioni e gli fanno udire voci. Essi sono la materializzazione di ricordi che Scott voleva rimuovere: gli amici che, diversamente da lui, non sono sopravvissuti. Bisognoso di condividere questa situazione d’angoscia, l’uomo si confida con Paula Robeson, un’inquilina del suo stesso palazzo. La donna accetta in regalo il blocco di resina con la moneta, ma dopo qualche giorno glielo riporta perché il fantasma di un collega di Staley le si è materializzato in casa. Impaurita, non vuole sapere niente di quanto sta succedendo al vicino, e il sentimento legato a quell’oggetto è solo di rabbia e paura.
Altri ritorni sono quelli che descrive Richard Bowes nella storia There’s A Hole In The City del 2005. La vicenda comincia il mercoledì successivo all’attentato. Nella confusione di quei giorni, fra i controlli, i posti di blocco e i negozi chiusi, i due protagonisti intravedono alcune persone vestite stranamente. In quest’atmosfera di paura, i fantasmi che i due scorgono per le strade sono quelli di centoquarantasei giovani donne morte nell’incendio di una fabbrica di tessuti il 25 marzo 1911; ma anche le migliaia di tedeschi del Village in gita su un battello a vapore colato a picco il 15 giugno 1904. Il buco nella città del titolo, il Ground Zero, ha richiamato i morti di altri disastri. Quasi che, dopo l’11 settembre, ogni futuro sia impossibile e si possa volgere lo sguardo solo al catastrofico passato rimosso che incessantemente ritorna. Se l’atmosfera rievocata da Bowes è quella del cordoglio, la rabbia è la sensazione che concorre al tentativo di comprendere gli eventi descritta da K. Tempest Bradford, scrittrice che ambienta il suo racconto Until Forgiveness Comes (2008) in un futuro lontano ove ogni anno si compie la liturgia funebre haitai che richiama gli spiriti dei morti dell’attentato alla Stazione centrale. I rintocchi delle campane rievocano gli scoppi delle bombe e delle esplosioni suicide con le quali i terroristi si sono fatti esplodere. «Con questo rituale, ogni anno, molto tempo dopo l’evento, è come strappare una crosta da una ferita in modo che non possa guarire. Non sono solo le famiglie. Ci sono dodici città, da qui a Khmet Britannia che si fermano in questo giorno, e la rabbia ritorna sempre nuova» (Bradford, 2008). Con il passare degli anni e delle cerimonie, le anime dei defunti che ritornano sul luogo (quelle delle vittime come quelle degli attentatori) trovano pace e non si mostrano più, a differenza dello spirito del bomber numero due, che invece ritorna incessantemente, ad evidenziare il mancato superamento del trauma.
Come già diceva Freud, la persona traumatizzata tende a ritornare inconsciamente all’evento, e gli scrittori nei loro lavori di fiction, ripetono l’immagine critica. Seguendo Fairbairn, la ripetitiva ricomparsa di cose e persone descritta nei vari racconti, è pari al continuo ritorno degli oggetti cattivi, che sono oggetti parziali. Questi pochi esempi della vasta letteratura post-11-settembre pubblicata pochi anni dopo l’evento, mostrano solo singoli frammenti di realtà (una scarpa, una mazza da baseball, morti di altri tempi), muti testimoni dello shock subito. Gli autori che hanno scritto i loro testi come reazione all’angoscia provata, non sono riusciti, oppure non hanno voluto, occuparsi dell’America e della New York che doveva comunque continuare a vivere dopo l’attacco al WTC. In questi racconti c’è solo la descrizione del trauma e della pena dei testimoni dell’evento, e la ri-creazione del proprio mondo interiore è un passaggio ulteriore che questi autori ancora non sono riusciti a compiere.