Come evidenzia Ian Buchanan, nel momento in cui de Certeau si occupa ne’ L’invenzione del quotidiano della differenza tra “concetto di una città” e “fatto urbano”, egli ripropone la distinzione tra spazio geometrico e spazio antropologico formulata da Maurice Merleau-Ponty. Insomma, da una parte vi è uno “spazio contenitore”, uno spazio organizzato con l’obiettivo di regolare i movimenti delle masse che lo attraversano, dall’altro vi è lo spazio vissuto da chi abita la città – spazio embodied in cui, come sostiene l’antropologa Setha Low “human experience and consciousness takes on material and spatial form” (S. Low, “Embodied space(s): Anthropological Theories of Body, Space, and Culture”, in Space and Culture, vol. 6, n. 1, febbraio 2003, p. 9) e in cui prende corpo un’esperienza dello spazio “which is transitory and has no readable identity” (Ian Buchanan, Michel de Certeau: Cultural Theorist, Sage, London-Thousand Oaks-New Delhi 2000, p. 111).
Questa dicotomia può essere ravvisata anche in ambito audiovisivo. Lo “spazio audiovisivo (filmico/video)” va considerato, innanzitutto, come spazio prospettico – anche se dobbiamo precisare che si tratta sempre di uno spazio prospettico “curvato” dalla quarta dimensione, il tempo. È, in ogni caso, uno spazio paradossale che deforma gli oggetti secondo regole proiettive per farli apparire verosimili. Esso, tuttavia, si può anche qualificare come “spazio topologico”, ossia come spazio espressivo, fondato su corrispondenze qualitative (rapporti di vicinanza, prossimità e separazione), anisotropo e non-omogeneo. Uno spazio, come sostiene Michele Bertolini, “pre-oggettuale e non-euclideo, in stretta relazione con gli sviluppi del pensiero sensorio e motorio, con la postura e la gestualità del corpo e con i cambiamenti fra i ‘diversi stati della sensibilità’, legato all’istanza patica della pura sensazione” (M. Bertolini, “Introduzione”, inLa rappresentazione e gli affetti. Studi sulla ricezione dello spettacolo cinematografico, a cura di Id., Milano-Udine, Mimesis, p. 78).
In primo luogo, dobbiamo specificare quale tipologia di sguardo sia implicata dallo spazio topologico. In questo senso, il concetto di sguardo situato è preliminare a qualsiasi altra specificazione teorica. Si tratta di “unosguardo mondano, incarnato e immerso nella realtà contingente, densa e tendenzialmente quotidiana. La prossimità tra l’occhio della cinepresa e l’occhio corporeo del filmmaker rivoluziona non soltanto le pratiche di realizzazione del film, ma determina un cambiamento nel tessuto filmico. Tensioni corporee e pulsioni affettive si immettono nel film convertendosi in tracce testuali” (A. Cati, Pellicole di ricordi. Film di famiglia e memorie private (1926-1942), Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 7).
Questa conversione, tuttavia, non va indagata semplicemente estrapolando delle marche semiotiche ed evidenziandole come nuclei in tensione. È necessario, infatti, valutare come la pregnanza pratica dell’azione del cineamatore influisca sull’elaborazione del film. Lo sguardo situato, infatti, co-implica l’emersione di uno spazio agito più che contemplato, abitato più che ordinato. Queste condizioni suggeriscono l’articolazione di uno spazio topologico, spazio che si configura come spazio rovesciato, spazio corporeo e spazio espressivo.
Con spazio rovesciato intendiamo quell’articolazione in cui, allo spazio prospettico, caratterizzato da astrazione geometrica, continuità, isotropia e omogeneità, si sovrappone uno spazio gestuale in cui le relazioni di prossimità e lontananza rivelano, rispettivamente, attestazioni di co-appartenenza e proiezioni empatiche. Si tratta di uno spazio concreto, legato alla “localizzazione e dal movimento dei corpi. Dalla loro scelta e disposizione sullo schermo dipende la forma dello spazio vuoto (trasparente) fra gli oggetti. Lo spazio delimitato dalla superficie delle cose e, dall’altra parte, la forma riempita dalla massa delle cose, formano […] lo spazio concreto” (R. Ingarden, “Il tempo, lo spazio e il sentimento di realtà, in La rappresentazione e gli affetti. Studi sulla ricezione dello spettacolo cinematografico, a cura di M. Bertolini, Milano-Udine, Mimesis, p. 161).
Altra tipologia spaziale a cui facciamo riferimento è quella dello spazio corporeo: spazio non contemplato, spazio agito, spazio che nasce dall’intreccio percettivo di sguardi e di corpi in movimento. Spazio in cui il corpo esprime la propria metis e in cui la cinepresa ha essenzialmente una funzione protesica. Prendiamo, per esempio, una delle figure più frequenti dei materiali cineamatoriali, ossia le continue zoomate. Esse non vanno considerate solo come un semplice tic dell’operatore, ma, piuttosto, come un tentativo di esplorare lo spazio e di sperimentare le possibilità della “visione amplificata” permessa dal dispositivo di ripresa.
Spazio rovesciato e spazio corporeo delineano i tratti dello spazio espressivo: uno spazio esteticamente denso, affettivo, idiosincratico, stratificato e irriducibile a formalizzazioni geometriche. È “forma generale e concreta” dello spazio e costituisce la base per qualsiasi successiva “retorizzazione”: è il fondamento sul quale poggia la possibilità di costruire “buoni discorsi” filmici. Ciò significa osservare attentamente il comportamento dell’amatore e descrivere i modi in cui egli utilizza quegli elementi del linguaggio cinematografico che ritiene più idonei alla propria condizione e alle proprie competenze, esaltando le evidenze percettive dello spazio topologico oppure mascherandole.
Il discorso, a questo punto, dovrà affrontare il suo nodo terminale, ossia il rapporto tra cineamatorialismo e rappresentazione dello spazio urbano. Le domande che dobbiamo porci sono le seguenti: in che modo si articola lo spazio urbano nei film amatoriali? È possibile individuare almeno le macrotipologie di questa articolazione?
La proposta che, a tal proposito, dovrà essere verificata riguarda la pregnanza dei concetti di spazio monumentale, spazio sociale e spazio privato.
Il primo concetto afferisce a una pratica ricorrente, ossia il passaggio in rassegna dei monumenti di una città. In questi casi si viene a determinare uno spazio fondato sulla riconoscibilità dei contenuti e sulle possibilità della “visione a distanza” permessa dalla prospettiva.
Il secondo concetto considera lo spazio come luogo della partecipazione a eventi di rilevanza sociale. I criteri di riconoscibilità degli eventi si congiungono all’attestazione di una presenza che traduce in immagini uno dei possibili sensi del valore documentale legato ai materiali amatoriali: la retorica dell’“io c’ero”.
Il terzo concetto richiama il tema dello spazio come ambiente caratterizzato da relazioni percettivo/affettive. Da questo punto di vista, centrali divengono non solo il rapporto tra esterno e interno, tra spazio domestico e spazio non-domestico, ma anche la capacità della cinepresa di testimoniare dell’esperienza della città come esperienza segnata da valori affettivi, abitudinari e, in senso decerteausiano, tattici.
Tali valori hanno un impatto decisivo sulla definizione della quotidianità al cui interno si muovono i nostri operatori. La cinepresa produce un’interazione con uno spazio agito, che è agito per essere ripreso. L’azione, lapalissianamente, descrive il mondo in cui gli operatori si situano, definendo un orizzonte di quotidianità. La domanda che ci dobbiamo porre – e che, forse, assume anche una connotazione ideologica – è la seguente: è possibile definire una tipologia di quotidianità? Se sì, ne esiste solo una o è necessario rimandare a un orizzonte di molteplicità? Detto altrimenti, possiamo parlare, in relazione all’utilizzo della cinepresa, di quotidianità infraordinaria e quotidianità controculturale?