Alibi
se i poeti non cantassero
che avrebbero i filosofi da spiegare?
José Paulo Paes
Che farsene oggi della poesia? Come scrivere di poesia in un contesto che sia di attualità? E stare al passo con i tempi dell’informazione senza sosta?
Innanzitutto, partendo dal presupposto, volutamente metodologico, che “non dire è talvolta anche non essere”:
L’essere è più del dire, siamo d’accordo.
Ma non dire è talvolta anche non essere.
Ah discreta più del dovere fu l’incoscienza.
Presto tutte le acque saranno uguali e lisce
e di conseguenza nella convinzione della ambizione o forse necessità, se non piuttosto condizione, di dire per essere; senza la parola che nomina, senza il dire nella sua facoltà originaria, senza la capacità fattiva del linguaggio la realtà non viene all’essere.
Con questi versi di Giovanni Giudici (da Finis fabulae, perché vogliamo iniziare dalla fine) dunque, in apertura e intenzionalmente senza troppe certezze se non per via negativa, scegliamo di dire, scegliamo di leggere di scrivere e discutere e ricominciare da capo un’altra volta con nuova energia: il dibattito è aperto.
E scegliamo subito di cominciare da un’esperienza di lettura. Per leggere, in poesia ovviamente, cosa succede – tra l’attesa silenziosa e sospesa “per un senso remoto di tempesta/o di contrasto tra gli elementi” e la risoluzione di quel “tutto” che “lentamente volge all’azzurro” nell’alchimia simbolica del colore dell’arte – quando la poesia legge poesia, nei versi del poeta, argentino di nascita ma italiano d’adozione e spesso di scrittura (come in questi dall’ Italienisches Liederbuch), Juan Rodolfo Wilcock
Quando tu, mia poesia, leggi poesia,
si oscura il cielo di una luce verde,
la gente sfugge la riva del mare
per un senso remoto di tempesta
o di contrasto tra gli elementi,
vampe si inalberano sui fili dei tram,
e un gran silenzio cala sulla città:
è la poesia che contempla se stessa.
Leggi parole di un tempo scomparso,
di un presente che crolla senza sosta
velocemente nell’informe passato,
leggi di re e corone, giardini e guerre,
tu che sei la corona di ogni impero
e il giardino del mondo conosciuto
e la guerra dei sensi della natura,
leggi, “chi crederà i miei versi in avvenire
se dico adesso tutto il tuo valore?”
e accade in quel momento che quei versi
come una freccia scagliata nei secoli
raggiungono chi un giorno li ha ispirati.
E allora il buio verde si fa totale,
la gente si rintana, sopraffatta,
e in un silenzio come di terremoto
si alza la luna sui Castelli Romani
e lentamente volge tutto all’azzurro,
mentre tu, mia poesia, leggi poesia.
Partiamo dunque dalla immediata constatazione, riconoscibile a chiunque abbia letto versi qua e là, del ripresentarsi continuo e insistente, che assume davvero l’aspetto singolare dell’ovvietà del non visto e dell’evidenza inosservata, della poesia autoreferenziale; di questa particolare configurazione testuale che chiamiamo subito metapoesia: la poesia a proposito di poesia, la poesia che parla di se stessa, una combinazione poetica unica che unisce la poesia come contenuto alla poesia come forma, l’argomento poesia quindi alla scrittura in versi. Una poesia doppia in qualche modo, la poesia allo specchio, “è la poesia che contempla se stessa”.
Ma, da un punto di vista puramente teorico, perché la scrittura poetica autoreferenziale? Attraverso un’attenzione plurale, dopo molte poesie e lunghe letture, si può gradualmente arrivare a scorgere qualcosa nel multiforme, a individuare nella quantità dell’autoreferenzialità poetica il particolare di qualità? è possibile risalire e ridurre dal molteplice all’uno, capirne il disegno?
Perché, insomma, la poesia vuole scrivere o deve scrivere e comunque sistematicamente scrive a proposito di se stessa?
Perché scrivendo di se stessa la poesia costruisce nei versi la propria identità: la metapoesia (e nello specifico la metapoesia novecentesca, con il Novecento secolo di trasformazione, spazio di costruzioni decostruzioni e ricostruzioni poetiche), trova infatti il suo fondamento e radica la necessità di scriversi motivandosi e motivando la propria presenza, costante e ricorrente, nei termini di un fenomeno identitario, come percorso e come processo di identificazione, di ricerca, una vera e propria quête dell’identità letteraria e poetica. Scriversi in poesia per la poesia corrisponde alla volontà di istituirsi come scrittura poetica, equivale a una domanda quindi di identificazione in qualità di poesia e all’implicita affermazione di identità che a questa domanda risponde e che compare precisamente nel luogo dell’esperienza testuale in versi.
Innanzitutto, allora, metapoesia come fondazione di un’identità linguistica, in quanto testo scritto che è poesia e come poesia vuole essere riconosciuto, secondo una prospettiva ontologica del crearsi linguisticamente dicendosi, sulla scorta della centralità formale e contenutistica del verbo – che è un verbo performativo, per inciso – nominare, nella sua funzione di segnale, di spia lessicale che introduce la riflessione autoreferenziale in poesia. Il nominare, l’atto del dare un nome, “il nome esatto”, che implica concettualmente la complicata relazione tra la parola e la cosa, si manifesta nell’invocazione, da un punto di vista novecentesco ampiamente condivisa in sede metapoetica, alla parola affinché sia la cosa; “la mia parola sia/la cosa stessa” scrive in versi Juan Ramón Jiménez: che dunque la parola sia la cosa, e – nel potere unico e fecondo della nominazione, capace di creare dicendo o scrivendo – la poesia la sua costituzione.
In definitiva, possiamo utilmente intendere la metapoesia come una fondazione, nel senso ontologico di “Grϋndung, istituzione come fondazione”, nel momento in cui la poesia che si dice fonda se stessa come poesia attraverso il linguaggio che la dice. Un fondarsi poetico, la fondazione della poesia in quanto poesia attraverso la qualità unica e particolarissima che ho chiamato iniziale della parola metapoetica: una parola attiva, operativa, fabbrile, creatrice che dicendosi e nominandosi istituisce e appunto fonda la propria identità e esistenza di poesia: scritto nei versi (come in questo efficacissimo e definitivo di Hans Magnus Enzensberger, per esempio) “se si nomina qualcosa, esiste”.
Un vero e proprio atto performativo, assimilabile nella funzione dimostrativa ai deittici e alle espressioni indicali che contestualizzano la scrittura al qui e ora, e che vengono a sancire la specificità lirica e poetica del testo in versi: “quest’ermo colle”, “questa siepe”, e questa poesia, proprio questa, questa che verso dopo verso si sta scrivendo adesso. La metapoesia, allora, in quanto fatto linguistico ed evento poetico, parola-azione attraverso la quale diventare ciò che si afferma verbalmente, si interpreta, in definitiva e aprendo un’ulteriore prospettiva, come una performance nella cui evidenza rappresentativa riconoscersi, e che inscenando poesia fa letteralmente poesia, vale a dire attua, attualizza, realizza e rende reale la poesia.