L’Ombra finanziaria dell’occidente nel Mediterraneo orientale. Una Storia poco nuova

 

 

Oggi l’Europa tutta, non solo quella comunitaria o di appartenenza all’Euro-zona, guarda con preoccupazione al Mediterraneo orientale, vuoi per la Grecia e il suo default-strutturale, vuoi per le incerte tendenze islamiste della Turchia, vuoi per le tensioni nell’Egitto tra i seguaci di Morsi e quelli di Al Sisi, per non dire della devastata sponda siriana. Eppure le occasioni perché questa antica culla di civiltà potesse tornare a dire la sua sullo scenario dello sviluppo economico europeo non sono mancate. In queste righe che seguono si cerca di mettere in luce alcune situazioni e alcune singolari ricorrenze di carattere economico e finanziario che hanno riguardato questa antica e nobile parte del mondo. Infatti, non è da ora che le ribellioni islamiste contestano in Egitto l’occidente, ne’ è solo contemporanea la Troika imposta alla Grecia, e neppure la doppia anima turca sospesa fra Islam moderato e Islam radicale sono caratteristiche del nostro giovane secolo. Importanti anticipazioni le ritroviamo più di cento anni fa anni fa. Osserviamone alcune più da vicino.

 

Già nel lontano 1838, con l’accordo commerciale denominato “Convenzione di Balta Liman” la Gran Bretagna aveva iniziato la sua penetrazione nell’impero ottomano inaugurando un’azione politica volta, neanche troppo celatamente, a ridurre quella che era stata una grande potenza a un rango semi-coloniale. Qualcosa di simile avrebbe di lì a poco caratterizzato l’azione britannica anche nei confronti dell’impero cinese attraverso i cosiddetti “Trattati ineguali”. Ma, a differenza di quanto sarebbe occorso per la complessa vicenda cinese, quella costituita dall’area del Mediterraneo orientale, dove Istanbul costituiva l’attore principale, consentiva movimenti e mediazioni molto più elastiche; tale caratteristica poggiava sull’evidenza costituita dalla geopolitica, dato che la Sublime Porta, come si diceva in linguaggio essenzialmente diplomatico, del secolo XIX, cioè l’impero Ottomano, faceva da cerniera fra la Russia e quello che sarebbe stato ben presto chiamato impero austro-ungarico. Non a caso l’impero Ottomano, sempre nello stesso sobborgo di Istanbul di Balta Liman, avrebbe sottoscritto nel 1849 un altro accordo, questa volta con l’impero russo; per la cronaca, si trattava del terzo trattato con quel nome, poiché nel 1839, sempre nello stesso luogo, il sultano aveva dato garanzie di navigazione al Belgio, piccola-grande potenza dell’Europa nord-occidentale. Dunque Istanbul aveva, eccome, alcune carte non strettamente economiche da giocare, ma le giocò male, molto male. A partire dall’Egitto, territorio che ormai era solo debolmente collegato all’impero Ottomano ma che pure, almeno potenzialmente, per tradizioni lingua e religione avrebbe potuto essere recuperato da Istanbul; così non fu e la cosa costituì un’occasione persa in modo tanto rimarchevole quanto invece proprio dall’Egitto sarebbero ben presto passati i destini dell’economia mondiale con l’apertura del canale di Suez. Del resto il Mediterraneo orientale, a partire dalla metà del XIX secolo, era stato per alcuni aspetti riscoperto dall’economia mondiale nella misura nella quale il movimento di origine/destinazione delle merci da e verso l’estremo oriente e l’India si era fatto cospicuo.

L’idea di non circumnavigare l’Africa per commerciare da e verso l’oriente non era certamente nuova. Tuttavia, quel passaggio era apparso veramente utile solo con la rivoluzione industriale, anche se la sua prima realizzazione risale all’inizio dell’era cristiana. L’iniziativa industriale per il taglio di Suez fu francese e intervenne nel momento nel quale la politica imperiale di Napoleone III sembrava godere dell’appoggio incondizionato sia della compagine industriale del suo Paese sia, fatto ancora più rilevante, di quell’Haute Finance che stava conferendo alla Francia un ruolo di primissimo piano nelle vicende economiche mondiali. In effetti, il tessuto creditizio francese fu quello che maggiormente finanziò e sostenne la grande iniziativa, almeno fino alla rovinosa sconfitta di Sedan, con qualcosa come 20.000 sottoscrittori.Gli investitori formarono la“Compagnie Universelle du Canal maritime de Suez” che utilizzò il progetto dell’italiano L. Negrelli e ne affidò la direzione dei lavori all’ex console francese in Egitto, F. Lesseps, con buoni risultati: la “compagnie Universelle” ottenne la concessione nel 1854 e nel 1869 il Canale di Suez diventò una splendida realtà. “Splendida” per la storia dell’ingegneria ma non per la citata “Compagnie Universelle”. Infatti, alla fine, i costi della realizzazione erano risultati doppi del previsto e il fatto che il transito dovesse essere limitato alle sole navi a vapore costituì un grande svantaggio, almeno inizialmente. Si consideri, a tale proposito, che ancora nel 1860 solo il 5% delle navi era mosso da motori. Non di meno il Canale di Suez costituiva una delle opere che avrebbero cambiato il corso dell’economia mondiale, dando sbocco economico concreto agli straordinari progressi industriali del Grand Siècle. Il tutto proprio a partire dalla necessità di trasformare velocemente la propulsione delle navi dalle vele ai motori a vapore, dando alla cantieristica specializzata un incremento notevolissimo e decretando la fine di quella legata esclusivamente ai velieri.Per le sorti del commercio mondiale quelli furono anni sicuramente decisivi e Suez ne fu il perno. Possiamo anche aggiungere che se con poi, all’inizio del nuovo secolo, i rapporti di forza economici assunsero dimensioni così rilevanti, ciò fu dovuto in buona misura al modo con il quale Gran Bretagna e Francia si rapportarono alla grande opera; ecco il punto.

Diciamo subito che non fu l’impero Ottomano l’unico a non vedere che cosa stesse per accadere. Un ruolo di primo piano lo avrebbe potuto e dovuto giocare, per esempio, la città di Trieste e dunque l’Austria-Ungheria. Ciò sembra ovvio anche solo a guardare la geografia: collocato già alle porta dell’Europa centro-settentrionale, dotato di adeguati fondali e maestranze qualificate, il porto triestino avrebbero dovuto offrire scalo e destinazione per le merci provenienti dalla Cina e dall’India destinate al Nord Europa, fino ad allora movimentate solo attraverso Londra, Le Havre ed Amsterdam; per drenare quel traffico sarebbe bastato[1] un decente collegamento ferroviario dall’estremo nord dell’Adriatico (dunque anche Fiume) verso l’Europa centro-settentrionale.

Si consideri, infatti, che ancora fino ad allora le merci a scalo baltico erano trasportate da navi che circumnavigavano la Danimarca perché, per quanto già esistente dalla fine del ‘700, il canale di Kiel sarebbe stato realmente navigabile per le navi oceaniche solo nel 1898, quando la Germania lo ammodernò e lo rese fruibile; il canale invece, come s’è rilevato, era già aperto da vent’anni. Nella direzione di dotare l’economia centro europea di una nuova strategia trasportistica si muoveva, per esempio, la “Deutsches Handelsverein” (“Associazione commerciale tedesca”) di Trieste, che a più riprese sostenne la proposta di fare del sud-est europeo un’area di colonizzazione economica affermando la necessità di potenziare le vie di comunicazione da e verso Trieste, porto naturale dell’area germanofona e in generale mitteleuropea.

La presenza mediterranea della marina austro ungarica, invece, diminuì costantemente, passando dal già modesto 4% nel 1870, al 3,7% nel 1875, per toccare il quasi insignificante, se paragonato all’estensione delle coste e alla consistenza della propria economia, 1,8% nel 1889.Un po’ meglio l’Italia ma non del tutto; innanzi tutto perché non era ancora iniziata la fase di vera industrializzazione tipica della cosiddetta età giolittiana, sia perché una buona parte della cantieristica italiana era rimasta piuttosto legata ai velieri (come per altro era accaduto ad alcune altre cantieristiche del nord Europa), sia infine perché i problemi derivanti dal mantra del pareggio di bilancio (uno spettro che si è ripresentato anche ai nostri giorni) avevano indotto i governi italiani a una politica di investimenti alquanto modesti. Quando A. Depretis, prima, e poi F. Crispi invertirono la rotta, nel senso che ebbero il consenso politico tale da passare ad una serie di investimenti, furono necessari alcuni anni per averne qualche beneficio. In realtà, la crescita mediterranea non si verificò e i terminali-merci che si affacciano nei mari europei settentrionali continuarono la loro crescita nella gestione del trasporto oceanico non solo senza risentire negativamente dell’apertura della nuova rotta del Mar Rosso, ma paradossalmente avvantaggiandosene. Vediamo perché.

Sul piano finanziario non tutto il progetto del Canale era andato per il meglio; sin in dai primi anni dell’apertura del Canale di Suez, specie quando si superò l’iniziale entusiasmo, si manifestò una progressiva diminuzione dei proventi (il famigerato cash flow, che spesso punisce i promotori di un’iniziativa e premia i suoi utilizzatori), soprattutto a fronte di quanto era stato previsto negli anni precedenti e, come s’è detto, della grande crisi di liquidità che colpì il sistema creditizio francese a causa delle riparazioni di guerra imposte dai Tedeschi. Tuttavia, la crisi dei proventi certo non dipese dall’ingordigia prussiana ma da calcoli troppo ottimistici. Ennesima dimostrazione, quest’ultima, se mai ve ne fosse stato o fosse bisogno, della regola per la quale le discipline economiche devono rifuggire da accenti di carattere predittivo. Infatti, se e dal 1870 al 1874, la crescita dei transiti era stata confortante per gli investitori ,a partire dal 1878 si registrò una netta tendenza al rallentamento del tasso di crescita del traffico, ingenerando perdite di lungo periodo, che oggi potremmo anche definire “strutturali”.

Al momento della costituzione della Società del Canale, i sovrani d’Egitto, chiamati Khedivè per sottolineare la loro formale dipendenza dal Sultanato turco, erano stati associati alla gestione finanziaria dell’impresa. Quando gli incassi iniziarono a scemare, l’allora khedivè Mehmet Alì, drammaticamente a corto di liquidità, decise di sospendere i pagamenti dei titoli di Stato. Subentrò, allora, una commissione internazionale per il debito egiziano, simile a quella che era stata costituita qualche anno prima, come vedremo, nell’impero ottomano, composta sia dagli azionisti della Società del Canale, sia dai creditori internazionali, cioè britannici, francesi e tedeschi, una Trojka del medio secolo XIX. La Commissione, di fatto, esautorò il khedivato, giungendo a sostituirne la persona stessa con un’altra più fidata. Uno dei Khedivè che aveva voluto la modernizzazione ebbe modo di proclamare che “L’Egitto ora non appartiene all’Africa ma all’Europa”. Ebbene, possiamo dire con certezza che il presupposto assunto dal Khedivè non aveva fatto i conti con il potere della finanza internazionale.

Infatti, da quel momento tutto lo sforzo fatto fino a quel punto per dotare l’Egitto di infrastrutture moderne fu vanificato e la parte forte della Commissione, cioè quella formata dagli esponenti francesi e britannici, in pratica si mise in tasca, se così possiamo dire, il Canale di Suez. Si giunse a tanto perché Britannici e Francesi dovettero trovare un’intesa far loro non solo per fare funzionare un’iniziativa nella quale si erano esposti finanziariamente ma anche, se non soprattutto, perché al tavolo della Commissione del debito sedeva, a titolo di creditore, la componente tedesca; una presenza che già veniva concepita da Francia Gran Bretagna come portatrice di interessi conflittuali. E’ qui che però si deve fare un passo indietro.

Inizialmente, la classe dirigente britannica aveva snobbato, se non ostacolato, quella grande opera perché non solo la si vedeva qualcosa di francese ma soprattutto perché essa guardava al canale come un indebolitore del traffico nel Mare del nord a vantaggio delle economie mediterranee, il che voleva dire essenzialmente a vantaggio dell’economia francese. Tuttavia, con l’avanzamento dei lavori e diremmo già all’indomani dell’inaugurazione, Londra si rese conto dell’abbaglio e rimase vigile fin quando si presentò l’occasione.

Ciò accadde nel 1873, allorché a causa delle difficoltà finanziarie in cui versava, la citata Società del Canale fu costretta a collocare sul mercato una parte delle azioni senza un apprezzabile aumento di capitale, quindi nei termini di una reale anche se parziale cessione di controllo. Ad acquistare quelle quote si presentò, e con un’offerta congrua, la Gran Bretagna. Poi, nel 1875, il debito estero dell’Egitto assunse proporzioni così elevate da costringere Ismail Pascià a mettere in vendita per 4 milioni di sterline la quota di partecipazione detenuta dal suo Paese nella Società di gestione a maggioranza francese (51%). Ad acquistarle provvide immediatamente il Tesoro della Gran Bretagna, grazie all’attivismo di B. Disraeli che prima colse al volo una brillante segnalazione giornalistica, e poi utilizzò magistralmente l’appoggio dei banchieri Rotschild; si trattava del 49% delle quote. Se teniamo conto della grande frammentazione delle quote francesi e della inversa grande concentrazione e di quelle inglesi, comprendiamo bene chi avesse veramente messo le mani economiche sul canale di Suez. Era, quella frammentazione, l’effetto della storia dell’origine societaria che aveva trovato la sua forza nella raccolta borghese, fatto di piccoli risparmiatori e che però ora, compatta quanto si volesse, non aveva la forza della quota britannica che aveva una base diremmo monomandataria. Infatti, a svolgere la funzione di “Controller” del debito egiziano fu inviato da Londra lord Cromer, figura molto interessante della politica britannica della seconda metà dell’Ottocento, recentemente definito anche come il classico imperialista vittoriano, che certamente non si limitò alla sua funzione ufficiale ma divenne una specie di proconsole dell’economia egiziana nel suo complesso. Non era che l’inizio.

 

Traffico nel Canale di Suez 1889-1914

 dere

Fonte: A. Siegfred.

 

Non fu una scelta semplice, quella britannica, né dal punto di vista economico-politico né da quello commerciale. Infatti quando il Gladstone , sempre  nel 1882, si mostrò ostile a una eventuale occupazione dell’ Egitto, anche per le continue turbolenze che agitavano la zona di Suez. Solo la grande influenza esercitata sul governo da J. Chamberlain produsse la decisione finale di inglobare l’Egitto nella completa sfera d’influenza britannica. Ancora una volta l’argomento era squisitamente economico: Chamberlain convinse il governo che il capo egiziano della rivolta, Ahmad Urabim era solo un avventuriero che avrebbe messo in pericolo la sicurezza[2] sia del Canale di Suez, sia del commercio inglese che vi transitava. Ben presto, la presenza britannica, però, non sarebbe stata solo economica. Poco dopo, infatti, durante una grande guerra civile interna a quelli che allora erano i confini egiziani, chiamata “Rivolta del Mahdi”, fortemente venata di Jihadismo e inneggiante a un nuovo purismo integralista islamico, consistenti truppe britanniche furono dislocate a protezione degli interessi commerciali sul canale. Come si vede, il braccio di ferro fra islamisti e occidentalisti non è cosa nuova sul palcoscenico dell’Mediterraneo orientale.

Intanto, l’occupazione temporanea del Egitto settentrionale, priva di giustificazioni dal punto di vista del diritto internazionale, ben presto comportò che tutto il potere si concentrasse nelle mani dell’Alto Commissario britannico e, come si può immaginare, quel potere fu esercitato essenzialmente sul campo del controllo economico-commerciale, anche se si sarebbero più avanti registrati anche interessanti investimenti britannici nel settore agricolo.Sarebbe stato il primo atto di una vera e appropriazione della zona del canale da parte britannica.

Non si trattò, del resto, di semplice precauzione perché le cose si erano messe molto male per i britannici, sconfitti ad Al Obeid, e l’ipotesi di un contagio islamista ( espressione che oggi circola nuovamente, si deve riconoscere…) capace di rovesciare il governo egiziano era molto serio. La guerra poi durò ancora dieci anni con alterne vicende, coinvolgendo anche l’Italia[3], ed alla fine sancì l’inglobamento dell’Egitto, a partire proprio da Suez, nei domini della Gran Bretagna anche se con la formula del Protettorato che, se non si fosse tradotta sempre e ovunque, in totale appropriamento di territori e dunque in un’azione dolorosa per i protetti, sarebbe anche una formula umoristica.

 

Tonnellaggio in transito nel canale per nazionalità

(1871-1888) in migliaia di tonnellate

 

Anno Gran Bretagna Francia Austria Ungheria Italia Germania
1871 546 89 39 27 2
1879 2056 262 71 94 22
1885 4864 574 120 159 199
1888 5223 387 123 123 238

 

 

 

Fonte: J. Marlowe, 1967.

 

 

 

Il controllo di una delle rotte più importanti per l’economia mondiale era in mani britanniche e, parzialmente, francesi. Naturalmente, tutto ciò non poteva che costituire, per le altre potenze europee, che un elemento di frustrazione e di attrito anche se va ricordato che il controllo anglo-francese non fu selettivo; per passare, qualunque fosse la nazionalità del bastimento, bastava pagare. Ebbene, di bastimenti ne sarebbero passati e ne passano ancora oggi a migliaia. Per questi motivi l’Egitto divenne un territorio strategico; il dato importante è che, come argomenta D. Fieldhouse ne Gli imperi coloniali del XVIII secolo, (Feltrinelli, Milano 1967), fu proprio l’Egitto e Suez che fecero mutare radicalmente la linea politico-economica britannica rispetto all’immenso continente africano; da “non interventista” la Gran Bretagna si scoprì nel breve volgere di qualche anno bene interventista, essendosi assicurata “uno del pezzi più preziosi del diadema coloniale prima che altri potessero far valere i loro diritti”(Ivi, p. 131). Va anche detto che l’espansione commerciale fu fortemente incoraggiata da alcuni gruppi di pressione. Infatti, dal 1850 al 1870 l’economia europea aveva attraversato un periodo di crescita eccezionale, che aveva generato immense rendite da capitali; la stessa crisi agraria della quale si è detto non fece altro, specie in Gran Bretagna, che ridimensionare il valore economico delle proprietà terriere aristocratiche ed innalzare il potere di nuovi ceti e nuovi soggetto.

Tanto guadagno aveva però inondato il mercato di liquidità ed abbassato i tassi di interesse. Da più parti, quindi, si cercavano nuove forme di investimento sulle quali indirizzare i capitali ormai ben remunerati da quei buoni profitti che avevano prodotto nuove fasce sociali di ricchezza; secondo una parte di questi nuovi ricchi, eventuali sbocchi asiatici avrebbero costituito un buon territorio di investimenti dove trascinare gli imprenditori a chiedere soldi ai detentori di grande liquidità. E non si pensi solo ai banchieri; l’idea dell’esca d’oltremare, se così possiamo chiamarla, ha funzionato sempre, dai tempi delle “Repubbliche Marinare”, cioè dall’inizio del secolo XIII. A volte era un’esca vera e la rete si riempiva di profitti, a volte era una bolla, una Bubble, come giustamente chiamarono gli inglesi quelle compagnie commerciali che nel Settecento pullulavano nella tumultuosa City londinese.

Del resto, tutta la fase centrale del secolo XIX la finanza europea era andata in cerca di soluzioni adatte fare muovere il capitale, sia nella forma classica dell’investimento sia in quello degli impieghi; quando questi ultimi si manifestavano sotto forma di titoli di debito pubblico la loro affidabilità, come è comprensibile, sembrava maggiore nei confronti di quella dei titoli emessi dai privati. A quei tempi per altro non esistevano né autorità di vigilanza borsistica che fossero nelle condizioni di verificare l’effettiva consistenza patrimoniale delle società quotate, e nemmeno le famigerate agenzie di Rating che oggi fanno il bello e il cattivo tempo. Esistevano, naturalmente, i Broker ed anche società di consulenza, ma non esisteva il Rating e se esso veniva determinato, l’ultima cosa che allora si pensava di fare era quella di renderlo pubblico. Spesso, pertanto, la finanza europea pur restando nel mercato delle grandi borse come Londra, Parigi, Vienna, etc. preferivano puntare su titoli di debito pubblico sovrano, la cui emissione era tarata sui valori borsistici. Fra i tanti casi, uno va studiato a parte perché avrebbe dato il via alla penetrazione economico finanziaria europea nella vasta area che oggi tutti noi chiamiamo all’inglese “Medio oriente” anche se per molti europei si tratterebbe del “vicino oriente”.

I modi di questa penetrazione sono, tuttavia, per alcuni versi paradossali perché non cominciano da un successo e da una crescente appetibilità del titolo, ma dall’esatto contrario e non si trattò di un piccolo ducato o un principato qualsiasi. Stiamo parlando di dell’Impero Ottomano che dopo avere emesso titoli di Stato per molti anni, dichiarò, nello sconforto universale, la propria non solvibilità, cioè la cosa peggiore che poteva sentirsi dire un risparmiatore europeo.Quando, nell’ottobre del 1875, l’Amministrazione centrale dell’Impero Ottomano, nella figura del Gran Visir Mahmut Nedim Pascià, dichiarò unilateralmente la propria insolvenza rispetto ai titoli di debito pubblico, in tutta l’Europa occidentale, e in modo particolare a Londra e a Parigi, si levarono grida di indignazione, se non di rabbia, verso quel provvedimento e l’insensata politica economica praticata da Istanbul. Fu tale la disperazione dei risparmiatori traditi che qualche giornalista (che per la cronaca non si chiamava Schäuble) si chiese se avesse ancora senso che esistesse l’Impero Ottomano. Il senso, evidentemente, dovevano averlo trovato gli investitori inglesi e francesi sia quando dieci anni prima era stata costituita, con sede a Parigi e fondendo due banche preesistenti[4], la “Banque Impériale Ottomane” alla quale il Sultano aveva concesso il diritto di commerciare i titoli del suo impero, sia specialmente quando gli stessi incassavano l’interesse del 7% senza occuparsi minimamente delle “insensate” politiche ottomane. Tuttavia, quella bancarotta aveva posto un problema in ordine alla forma finanziaria della questione orientale. Gli interessi europei nelle aree di dominio ottomano, che giungevano all’attuale confine Iran-Irak, erano troppo rilevanti per lasciare che tutto andasse in malora e dunque l’esigenza di assumere il controllo di almeno una buona parte della politica economica ottomana divenne una priorità e si cercò da ambo le parti, debitori e creditori, di trovare una via d’uscita (o di entrata, se si considera quello che sarà il prezzo dell’ingerenza occidentale negli affari ottomani).

Dopo la bancarotta del 1875, la nuova classe dirigente ottomana (nel marzo del 1877 si tenne la prima seduta del Parlamento dell’Impero Ottomano) cercò allora di entrare in contatto con i detentori di quei Buoni di Tesoro per la negoziazione di nuove condizioni di debito. Il risultato di questa iniziativa si maturò sei anni dopo, nel 1881, e consistette nel cosiddetto “Decreto di Muharrem”, un provvedimento in base al quale il governo ottomano s’impegnava a ridurre \ consolidare l’enorme debito estero. Perché tutto ciò venisse accettato, i Paesi creditori ritennero necessario disporre di un organismo di loro controllo che fosse in grado di operare sulla negoziazione dei titoli e su una certa quantità di operazioni economico-finanziarie in modo del tutto e formalmente autonomo rispetto al Ministero del Tesoro ottomano. Bisognava, a parere di Londra e Parigi, che molte entrate, proprio perché dovevano servire al risanamento del bilancio pubblico e al ripristino della fiducia delle borse occidentali, fossero gestite da un organismo finanziario distinto dal Ministero.

Prese così forma un nuovo organismo, ovvero l’Amministrazione del Debito Pubblico Ottomano, la Ottoman Pubilc Debt Organisation (O.P.D.A.). Si trattava di un’organizzazione a controllo europeo ( non proprio una Trojka ma certo i tre governi a guidarla realmente erano quelli di Gran Bretagna, Francia e Germania) istituita per raccogliere i pagamenti che l’Impero Ottomano doveva  a società europee, operando attraverso la gestione separata del debito pubblico ottomano; era il 1881. L’anno dopo, nel 1882, la Gran Bretagna trasformerà l’Egitto, formalmente ottomano, in suo Protettorato blindando, come abbiamo visto, i propri interessi su il Canale. Era l’inizio di una penetrazione economica radicale nelle maglie di un impero secolare. Vediamo come si realizzò.

Innanzi tutto, lo strumento giuridico-economico del quale si avvantaggiarono gli occidentali fu quello delle cosiddette “Capitolazioni” che esistevano da secoli e che con gli anni ’80 dell’Ottocento vennero ulteriormente ampliate. Esse ormai contemplavano, a vantaggio degli europei, ampia libertà d’esercizio del commercio, la inaccessibilità del proprio domicilio da parte della polizia locale; la inapplicabilità della legge musulmana civile e penale (fu sostituita da quella francese); ma specialmente l’ esenzione da quelle imposte che precedentemente versavano come non-musulmani. L’O.P.D.A. divenne un soggetto caratterizzato da una burocrazia indipendente all’interno di quella ottomana, gestita dai creditori dello Stato, cioè essenzialmente banche e società di intermediazione finanziarie con sede a Londra e Parigi. Infatti, il suo Consiglio direttivo era composto, oltre che dai rappresentanti del Sultano, sostanzialmente da funzionari di governo francesi e britannici che vigilavano sulla raccolta di molte accise ottomane.  Nel suo momento di massima espansione, essa giunse a contare 9.000 dipendenti, ben più di ministero delle finanze dell’impero. Ma il motivo di maggiore rilievo economico connesso all’azione dell’O.P.D.A., consistette nel ruolo che essa ebbe negli affari finanziari ottomani: non solo gestiva il debito pubblico di quel che, comunque, era pur sempre un impero, ma essa faceva da intermediaria con le imprese europee in cerca di opportunità di investimento nel Impero Ottomano.

Nel 1887 fu data dal Sultano la concessione di 60 anni per lo sfruttamento del porto di Beirut a una società a prevalente capitale francese chiamata comunemente “Compagnia del porto di Beirut” che vedeva fra i fondatori oltre la “Banque Impériale Ottomane” altre due banche di un certo rilievo internazionale, entrambe francesi, come il “Comptoir d’Escompte” e la “Banque de Paris et des Pays-Bas”.

Ebbene, appena un anno dopo, e la cosa non può non essere collegata, l’O.P.D.A. 1888 co-finanziò quella società in quanto intendeva fare di Beirut il maggiore terminale intermodale ferrovia-nave dell’estremo oriente mediterraneo. L’effetto fu che il commercio sull’area libanese, grande porta per il Medio Oriente, fu sottoposto a un controllo francese. Tra il 1890 e il 1900, l’O.P.D.A. finanziò molti progetti industriali ma specialmente lo sviluppo della rete ferroviaria ottomana che vide la nascita della linea ferroviaria Beirut-Damasco (1892), successivamente esteso a Homs, Hamah e Aleppo e poi ancora Smirne-Kasaba e Istanbul-Salonicco (1892). Si trattava di investimenti importanti che si basavano sulla raccolta di titoli acquistati da aziende di credito europee, o anche privati investitori, tutti però sulle piazze borsistica di Parigi o Londra. La rinnovata fiducia sulla realtà turca non era però casuale. Essa si basava su nuovi elementi di garanzia che non avevano solo natura e\o appetibilità finanziaria ma specialmente istituzionale. I privilegi finanziari e commerciali degli stranieri non-musulmani furono, infatti, tutelati non solo dalle nuove citate capitolazioni dell’Impero Ottomano, ma da un sistema di controllo di gestione che di fatto impediva alla pubblica amministrazione ottomana di mettere le mani sulla struttura degli investimenti. Al Sultano restava, questo sì, il potere di concedere le autorizzazioni o le concessioni ma questo potere, che si traduceva in entrate non-strutturali, non si estendeva al controllo dei flussi di cassa che restavano in mano, e non si può neppure considerarlo eccessivo, ai finanziatori.

I profitti di questa longa manus franco-britannica sull’economia dell’impero ottomano si attestarono mediamente su un rispettabilissimo 30% di tutte le entrate dello Stato.Un elemento importante che giocò a favore del ruolo di questo organismo fu la sua opera di funzionalizzazione della produzione agricola dei territori ottomani al commercio internazionale (il che voleva dire in pratica europeo), in modo tale da massimizzare i profitti ricavabili dalla commercializzazione del vino di Cipro, della seta della Tracia ma specialmente dal tabacco macedone. Per quest’ultimo business, francesi e britannici vollero costituire, nel 1883 e sempre come emanazione dell’O.P.D.A., la “Société de la Régie cointéresée des tabacs de l’Empire Ottoman. La lucrosità di questo investimento fu subito evidente; ciò si rese possibile perché la stessa O.P.D.A. volle finanziare solo le tratte ferroviarie utili allo smercio di quel tipo di produzione.Forse anche per questo motivo, negli anni che vanno dall’occupazione inglese in Egitto del 1882 all’occupazione italiana della Libia, del 1912, i possedimenti ottomani non furono intaccati da altre imprese colonialistiche.In concreto, Gran Bretagna e Francia, almeno fino alla fine del secolo XIX, sia con la “Banque Impériale Ottomane”, sia con l’O.P.D.A., sia come abbiamo visto tramite altre Società, riuscirono a stringere l’impero ottomano in una tale serie di vincoli e obbligazioni di tipo economico – finanziario da indurre il suo governo a di legiferare seguendo una linea che non tanto nascostamente veniva suggerita ora da Parigi, ora da Londra. La cosa sarebbe sicuramente continuata chissà per quanto e chissà per quanto l’utile organismo imperiale ottomano sarebbe rimasto in piedi se non si fosse registrata nel 1898 una svolta che avrebbe preparato la fase di scontro economico sull’Impero. Si tratta della visita del Kaiser Guglielmo II a Istanbul, per l’appunto nel 1898. Un altro ingombrante commensale intendeva sedersi alla mensa ottomana; forse troppo ingombrante per non costituire un nuovo elemento di attrito fra le grandi potenze europee. Era, però, un attrito diverso, traslocato e concentrato su altri teatri ma non per questo meno forte e pericoloso.

Quando la Germania del II Reich provò, infatti, a mettere piede in affari relativi all’influenza economica internazionale, ormai da una decina d’anni altre due potenze economiche europee, Gran Bretagna e Francia, avevano raggiunto posizioni di assoluto privilegio praticamente dovunque, nel mondo, fosse possibile farlo e laddove non sembrava possibile, come in Cina, stavano tentando di renderlo meno impossibile. L’azione politica teutonica fu straordinaria e, ça va sans dire, fu costellata da importanti interventi finanziari ed economici fino al lancio, ma siamo già in pieno Novecento (1904), della grande sfida costituita dalla cosiddetta “Ferrovia di Baghdad” ovvero la Berlino – Baghdad o, per essere più precisi, l’Amburgo – Baghdad, che avrebbe dovuto vanificare l’importanza economica di Suez.

Lo sforzo di accaparrarsi spazi e privilegi (non per nulla la dizione quasi universalmente accettata con la quale in inglese si identifica tale atteggiamento è quella del verbo to Scramble, e cioè “arraffare”, “accaparrare” ma anche “litigare malamente”, “azzuffarsi per qualcosa” etc.) si estrinsecò con tutti i mezzi disponibili, da quelli più pacifici e benefici come missioni e ospedali a quelli più ipocriti come la responsabilità degli occidentali (Il “fardello dell’uomo bianco”, titolo di una poesia di Kipling), a quelli violenti come il ricatto politico ed economico, l’occupazione militare e perfino i mezzi più vergognosi, come il genocidio. Si tratta del colonialismo di fine Ottocento, uno dei fenomeni più importanti della storia mondiale, la cui influenza nelle vicende economiche, pur fra le controverse valutazioni, fu comunque rilevantissima.Le questioni erano solo connesse all’efficienza del capitale investito e dunque al profitto. Risultò essenziale avere un’idea chiara dell’andamento del mercato azionario perché il finanziamento passava in grandissima parte da lì, dalla possibilità da parte delle Società quotate di collocare azioni e finanziarsi. In questo senso, lo si è già visto, l’avanguardia non fu costituita dalla City e dalla sua Borsa Valori, ma da Wall Street, cioè dagli Stati Uniti d’America, dove fu praticamente inventato[5] il modo per monitorare l’ andamento dei titoli, giorno per giorno.

Dove c’era profitto c’era offerta di liquidità, dove non c’era profitto o questo era scarso/incerto, l’offerta scompariva; semplice e terribile allo stesso tempo. Se il sistema creditizio degli Stati Uniti finanziò alcune operazioni remote, cioè fuori dal territorio dell’Unione, fu solo a fronte di grande solidità patrimoniale del cliente e grandi prospettive; ebbene, fra tutte queste prospettive una divenne talmente grande e strutturata da fare muovere i capitali americani all’estero. Si trattò del petrolio; ma questa è un’altra storia.

 

E’ possibile trarre una conclusione? Forse, ed è quella che bisogna essere cauti, molto cauti, nell’approntare giudizi specie a proposito delle imprevedibili epifanie del Dio Profitto. Cicerone, si sa, aveva scritto (e forse anche detto, conoscendo il soggetto) che “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis”(De Oratore, II, 9,36.)[6]; ora, mettiamo da parte la questione della magistra vitae perché è a dir poco discutibile, però a Marco Tullio dobbiamo riconoscere che su un punto egli aveva ragione e cioè che la storia è comunque Testis Temporum, testimone del tempo; un tempo che cullò il nazionalismo, l’arroganza, il razzismo coloniale, tutti ingredienti della miscela che portò allo scoppio della I guerra Mondiale, ovvero della fine dell’egemonia europea. Su questo, su questa cecità, probabilmente, è lecito riflettere anche alla luce dei fatti di questi ultimi tempi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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