Cicli sfasati: i tempi della terra e quelli dell’uomo.

 

 

 

 

La tipica dimostrazione del seme di fagiolo che, nelle classi primarie, viene fatto germogliare, è sempre molto significativa. I bambini, una volta bagnato il cotone che accoglie il seme, non riescono a distogliere lo sguardo da quel vasetto, vogliono quanto prima una risposta della pianta. Attendono qualche minuto, continuano a osservare e poi si spazientiscono perché questa risposta non giunge rapida. Rivolgono allora l’attenzione ad altro e dopo un pò il vasetto sul davanzale è praticamente dimenticato.

Sarà poi l’insegnante qualche giorno dopo a esortare i bambini ad andare a osservare le tenere foglioline spuntate. Tra occhi sorpresi e sorrisi il miracolo è quindi compiuto, la vita ha avuto inizio.

Questo semplice esperimento andrebbe riproposto nella didattica molto spesso e non solo per il corso di scienze, soprattutto per quello di storia. Esso, pone i bambini di fronte al processo azione-reazione e fornisce una prima manifestazione di quei complicati e ineluttabili processi che lo scorrere del tempo comporta. Affiancandolo all’altra grande esperienza infantile, il ritrovamento dell’uccellino morto, il seme germogliato è l’allegoria del ciclo della vita, sebbene faccia anche intendere quanto il ciclo della terra sia lento e sfacciatamente sordo alle nostre aspettative più urgenti.

Il tempo. Quel contenitore così profondo da creare disagio. La coordinata sulla quale è definito il breve segmento della nostra vita e che rappresenta tutto ciò attorno a cui ruota la nostra esistenza, tra ciò che è stato, che è e che sarà. Su questi tre convogli differenti si svolge la nostra attività sul pianeta e a differenza dello spazio, che nell’ultimo secolo è stato sempre più eluso, la coordinata tempo, sembra aver gadagnato molto.

 

«Così, dunque, Phileas Fogg aveva vinto la sua scommessa. Aveva compiuto in ottanta giorni un giro completo del mondo! Per portarlo a termine aveva utilizzato tutti i mezzi di trasporto: piroscafi, ferrovie, carrozze, “yachts”, navi da carico, slitte, elefanti. L’eccentrico “gentleman” aveva svelato in questo affare le sue meravigliose qualità di sangue freddo e precisione. Ma in seguito? Che cosa aveva guadagnato con tutto quel movimento?». (Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni). Una moglie, risponde Verne, sebbene, dice, qualcuno potesse pensare: «Nulla!».

E con una moglie il gioco della procreazione e dunque della vita può proseguire e quindi ancora il tempo, quello di una storia, la storia dell’uomo, può continuare. Show must go on. Il ciclo prosegue.

In ogni momento della nostra quotidianità ci troviamo di fronte a scelte basandoci sulle nostre aspettative per il futuro e sulla coscienza sviluppata fino a quel momento. Direi che più di ogni altro agente, aspettativa e coscienza generano azioni, quindi reazioni. Così, nell’attesa di una reazione ad ogni nostra azione, ci comportiamo spesso come i bambini che pensano ad altro e solo in seguito ci stupiamo delle foglioline spuntate. A complicare le cose, come sempre è il tempo, perché quando in gioco ci sono le azioni non compiute in maniera diretta da noi stessi – piccoli segmenti di tempo nel ciclo infinito – rimaniamo ancora più sorpresi di ciò che sta accadendo attorno a noi e solo la storia, la storia dell’uomo, può venirci incontro, per svelare quale misteriosa azione passata ci sta mettendo di fronte al nostro attuale presente.

 

Mi sono commossa domenica in Piazza Carlo Alberto, quando un gruppo di musicisti africani muniti di percussioni hanno cercato di trasferire parte delle loro tradizioni a un pubblico eterogeneo sponteneamente riunitosi attorno a loro. Le donne vestite a festa con gli abiti più sgargianti intonavano cori e si lanciavano in danze tribali e al canto di ‘Mama Africa’ il musicista ha cominciato a menzionare i nomi di tutte le nazioni africane, scandite da un coro che le accomunava sotto un’unica Mama Africa, ferita, debole e incapace di sfamare i suoi figli. Ho visto lacrime di commozione rigare il volto di quelle persone.

 

I miei studenti coglieranno il parallelo tra Africa e allegoria dell’Irlanda nel dipinto di Gustave Courbet, “L’Atelier dell’artista”, in quella donna col capo chino, seduta a terra come una mendicante, col seno vuoto e un bambino affamato che piange sul suo petto. Non a caso nel triennio irlandese 1845 – 1848 sono stati stimati movimenti migratori che si aggirano attorno ai 2 milioni di persone e pensando agli Stati Uniti e al Canada, destinazioni principali di tali flussi, se aggiungiamo a essi i successivi italiani, greci ed est europei e in seguito gli asiatici, il flusso di persone giunte a rimpolpare la popolazione statunitense nel cinquantennio tra fine Ottocento e primo Novecento, si attesta attorno ai 30 milioni d’individui.

 

Chiunque conosca la storia e abbia coscienza dei suoi processi e dei suoi tempi di reazione, non si stupisce di fronte al flusso migratorio che vede ora milioni di persone provenienti dall’Africa tentare la traversata e compiere una scelta, questa determinata in base ad aspettative nutrite per il futuro e coscienza sviluppata fino a quel momento.

 

Un bel compendio da studiare e leggere con attenzione per capire ciò che sta accadendo non più solo sulle coste, ma anche nelle comunità dell’entroterra italiano con l’arrivo di decine di migliaia di migranti, è il pluristampato Geostoria dell’Africa di Manlio Dinucci. In un’Italia divisa tra chi difende e chi rigetta l’idea di accogliere questi disperati è di vitale importanza capire che cosa li stia spingendo qui. A quale azione rispondano essi con una reazione.

Il secolo che ha visto protagonisti del colonialismo gli stati europei è stato preceduto da una lenta penetrazione e in seguito da un abbandono dei territori africani, non però delle fonti primarie in situ che avrebbero consentito ‘indennizzi’ ai vari protagonisti per aver foraggiato le costose campagne di dominazione.

Oro, diamanti, minerali e pietre preziose, gas naturali e petrolio, sono stati scambiati con disordini civili, armi e rifiuti europei. Scavare nella terra somala, kenyota o nigeriana significa compiere un’opera di riscoperta archeologica sulla storia del capitalismo europeo. Tutto ciò che non abbiamo più voluto perché sorpassato dal nuovo ritrovato tecnologico, il combustibile, l’olio, lo scarto industriale tossico che ha permesso la creazione di nuovi oggetti per seguire le mode del tempo che scorre veloce, qualunque rifiuto radioattivo, lo si può trovare sotto i piedi scalzi degli africani, intossicando le loro falde acquifere, annientando la capacità vitale di quel terreno. Una povertà disastrosa a cui il mondo occidentale ha spesso cercato di dare soluzione, ma in maniera beffarda: quintali di latte in polvere donato magnanimamente per i neonati – da allungare con acque tossiche – ettolitri di coca cola e bevande alcoliche per gli assetati – provocando loro dipendenza e problemi di salute – educazioni religiose che gli permettessero una speranza, ma non in questa vita, no, solo in quella successiva, forse nei cieli. Dopo.

 

Compiono ora il viaggio inverso a quel processo che ha portato i nostri bisnonni francesi, inglesi, belgi, italiani e tedeschi a mettere piede sul suolo africano, guardandosi attorno per vedere cosa poter avere. Ma i tempi non coincidono coi nostri. La memoria storica dimenticata, il tempo lento e irriverente ha portato adesso la rezione e allora in molti si chiedono: ‘Che cosa vogliono costoro? Mica siamo noi i responsabili, perché dovremmo aiutarli? Tornateve a casa vostra!’.

Ed è proprio questo concetto di terra intesa come casa o proprietà assoluta a creare dissidi, perché appartiene all’essere umano da sempre la limitazione del proprio territorio, la difesa dello spazio vitale. Ci rassicura l’idea del nido, dell’utero, della chiusura di un luogo che non permetta invasioni. Come quei cuccioli che voracemente tentano di succhiare la mammella della madre facendosi spazio tra i fratellini. Ciscuno di loro pensa che la madre sia unicamente propria, ognuno ne vuole un pezzetto, sono pronti a maltrattarsi pur di avere ciò che vogliono.

Nella grandezza della superfice terrestre abbiamo necessità di delimitare il nostro angolino e ci illudiamo che appartenga solo a noi, come ci illudiamo che sia nostro il piccolo segmento di tempo dove concentriamo le nostre azioni. Pensare di possedere lo spazio e il tempo è paradossale. Come se una farfalla dalla vita brevissima decidesse di essere padrona di un ramo di sequoia, passando i suoi due giorni di vita a delimitare lo spazio affinché nessun’altra farfalla colonizzi il suo ramo. Decine di milioni di farfalle sono passate e passeranno prima e dopo la sua morte. All’interno del nostro continente, che si trova all’interno della nostra nazione, all’interno della nostra regione, dove si trova la nostra provincia, poi il nostro paese, forse la nostra frazione e la nostra comunità, ogni sera ci chiudiamo a chiave dentro la nostra casa, all’interno della nostra camera da letto, nel nostro letto. Lì finalmente al sicuro, fa davvero male pensare che quello spazio e quel tempo che abbiamo faticosamente difeso come nostro, non lo sia affatto, morendo infine, senza aver visto le foglie della pianta di fagiolo spuntare, perché i cicli temporali della terra non coincidono con le volontà del singolo.

E’ stato particolarmente istruttivo allargare il campo visivo di quel quadro festoso domenica, osservando il gruppo di africani cantare e danzare. Alzando poco lo sguardo sopra alle loro teste campeggiava Palazzo Carignano e della grande insegna del Museo nazionale due parole mi hanno colpito: Risorgimento italiano.



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