La Grecia e il fallimento europeo. Parte seconda: Vizi privati, pubblici debiti

1.Salvataggio di chi?

 

Negli ultimi sei anni l’espressione ‘salvataggio della Grecia’ è stata una formula reiterata sui media italiani, e, con espressioni omologhe, su quelli internazionali. Anche se nelle lingue di altri paesi le connotazioni salvifiche delle omologhe espressioni sono meno esplicite, il messaggio politico che è stato inizialmente diffuso è stato comunque simile: di fronte ad un paese europeo in grave difficoltà, le istituzioni internazionali, europee in primo luogo, si mobilitavano per aiutarlo. In questo schema interpretativo era essenziale il fatto che una nazione, la Grecia, venisse ‘salvata’ da altre nazioni, la Germania, la Francia, l’Italia, la Spagna, ecc., unite dagli oneri e onori dei trattati europei.

Quest’interpretazione è stata una distorsione consapevole, che ha aperto una pericolosa deriva nelle letture date da ciascuno paese agli eventi sul palcoscenico europeo.

Come abbiamo visto nella prima parte dell’analisi, i creditori internazionali (essenzialmente europei) hanno adottato, di fronte alla crisi finanziaria greca, una strategia con tre obiettivi primari.

In primo luogo è stata adottata per due anni la strategia del prestito internazionale (bailout), e non del taglio del debito (haircut), per dare il tempo alle banche private coinvolte (principalmente francesi e tedesche) di alleggerire la propria esposizione, trasferendone gli oneri sui bilanci pubblici dei paesi prestatori.

In secondo luogo, si è agito così per dare tempo alla BCE di mettere in piedi lo European Stability Mechanism (ESM), meglio noto come ‘Fondo salva-stati’, in modo da porre una toppa alla follia di aver creato un’Europa unita sul piano finanziario e disunita su quello politico: l’ESM appare come un tardivo e parziale passo verso l’assoggettamento delle finanze UE a decisioni politiche (secondo il vago modello della Federal Reserve americana).

In terzo luogo, si è messa in campo una strategia politica, in linea con il pensiero economico dominante in Europa da una quindicina d’anni a questa parte, secondo cui è necessario promuovere il dimagrimento delle strutture statali e l’ampliamento del ruolo del settore privato nell’industria e nei servizi.

I modi del processo di ‘salvataggio’ avviato a inizio 2010 sono perfettamente intelligibili se li si legge attraverso il convergere di queste tre istanze, mentre l’intero processo è del tutto incomprensibile se davvero la ‘salvezza’ della Grecia come nazione e come popolo fosse stata al centro dell’iniziativa.

Tale processo, tuttavia, ha richiesto un abbellimento narrativo, fornito appunto dall’immagine dell’aiuto fraterno tra popoli, che si sacrificano per i loro confratelli in difficoltà, mentre la sostanza dell’operazione è stato un colossale trasferimento di oneri dal settore privato a quello pubblico, pagato con i soldi dei contribuenti europei e con gli stenti della popolazione greca. Naturalmente, come sempre, l’unico modo per non smentire una menzogna è continuare a fornire interpretazioni coerenti con essa. Così, al peggiorare della situazione greca e a fronte di sempre più ingenti esborsi della ‘comunità internazionale’, si è accentuata la lettura ‘nazionale’ della vicenda, scrollando il capo di fronte all’insufficienza delle riforme greche ed inorridendo di fronte alla ‘ingratitudine’ del popolo greco che, dopo aver tanto ricevuto, osava votare un partito e un referendum che rigettavano in toto la generosa strategia europea. L’opinione pubblica europea (e tedesca in particolare) è imbevuta di questa lettura.

 

2. Chi sono i ‘cattivi’ in questa storia?

 

Un resoconto narrativo di vicende umane esige, per essere intelligibile, di poter indicare le responsabilità di atti ed esiti. E così è avvenuto anche per la narrazione della crisi ellenica. Qui i Greci (così come i loro cugini meridionali, Italiani, Spagnoli, Portoghesi) sono stati presentati come le proverbiali cicale della fiaba, in difficoltà per aver vissuto al di sopra dei propri mezzi, a confronto con le virtuose formiche del Nord Europa. Ciononostante, i cugini più fortunati erano disposti ad aiutare le cicale, nella fattispecie greche, purché esse promettessero di ravvedersi e mostrassero con comportamenti di austerità economica di aver capito la lezione. Questa fiaba è percolata con variazioni nei media, offrendo una chiave interpretativa all’altezza degli stereotipi culturali e delle esigenze di semplificazione dei meno accorti.

Così, troviamo il ministro delle finanze spagnolo de Guindos lamentare come la Grecia abbia ricevuto centinaia di miliardi dall’eurozona, inclusi 26 miliardi dalla generosa Spagna, in modo da “pagare i propri dottori, la propria polizia, i propri pensionati.” Oppure troviamo l’ineffabile primo ministro italiano Renzi, che bacchetta l’omologo Tsipras per “pensare di essere il più furbo, non rispettando le regole” e lamenta che “noi abbiamo fatto la riforma delle pensioni, ma non è che abbiamo tolto le baby pensioni per lasciarle ai greci.” Inutile, naturalmente, ricordare a de Guindos che solo poco più di un decimo dei soldi prestati dall’eurozona sono serviti a pagare le attività dello stato greco. O a Renzi che di riforme delle pensioni in Grecia ne hanno fatte due draconiane in tre anni, tagliando gli importi delle pensioni tra il 42 e il 48%, e consentendo la pensione anticipata solo per lavori usuranti o con penalizzazioni (il mitico baby-pensionato greco può andare sì in pensione, ad esempio, a 60 anni, ma con il 53% della pensione finale).

Il problema, qui, va al di là della scarsa lucidità di questo o quel figurante politico. Il vero tema consiste nella propensione a cadere in quella patetica versione degli eventi, all’altezza del teledipendente medio, dove ci si mette a gareggiare su chi sia stato più bravo a imporre mutilazioni alla propria cittadinanza. Questa visione, coerente con l’esegesi fornita inizialmente dai creditori internazionali, è al contempo una copertura ideologica e una bomba ad orologeria nelle relazioni europee. Infatti, questa lettura delle relazioni economiche internazionali, in termini di virtù o vizi nazionali, è proprio ciò che sta portando a tappe forzate l’Europa a schiantarsi ancora una volta sugli scogli delle ostilità nazionaliste. È dallo scoppio della crisi che questa lettura, non solo per il caso greco, è divenuta dominante. Ciò porta i cittadini greci e guardare ai tedeschi come aguzzini. Ma poi anche i cittadini tedeschi (che hanno salari calmierati da quindici anni) a guardare ai greci (o agli italiani) come fannulloni e palle al piede. E poi di seguito i finlandesi a guardare con disprezzo gli spagnoli, gli spagnoli con sufficienza i portoghesi, i portoghesi con rabbia agli irlandesi, ecc. ecc.

Questo quadro interpretativo, plastico, suggestivo, di facile comprensione e totalmente stupido può disinteressarsi facilmente dei dati di realtà. Che, come registrato da uno studio della London School of Economics di qualche anno fa, il lavoratore greco medio lavori circa seicento ore l’anno più di un lavoratore tedesco medio non si adatta alla cornice epistemica fornita, e dunque viene rimosso. L’idea da Bar Sport che la produttività del lavoro in una nazione moderna sia correlata essenzialmente allo sforzo individuale è, di nuovo, una semplificazione troppo ghiotta per metterla a repentaglio con banali dati di realtà. (Naturalmente la produttività nei sistemi industriali moderni dipende principalmente dai fattori di organizzazione della produzione e dallo sviluppo tecnologico e infrastrutturale: è per questo che i Bill Gates nascono in USA e non in Gabon).

Da tutto ciò, ovviamente, non si tratta di concludere né che i Greci siano cicale e i Tedeschi formiche, e neppure, che i Greci siano vittime e i Tedeschi carnefici. Quello che stiamo cercando di dire è che in tutta questa vicenda, come più in generale in tutti i recenti sviluppi della crisi economica, la lettura dei fatti lungo il crinale divisorio di confini, identità e caratteri nazionali è una sciocchezza, una sciocchezza molto pericolosa. Come vedremo meglio a breve, i ‘colpevoli’ non hanno una nazione preferenziale di appartenenza, ma appartengono trasversalmente alle élite economiche, strutturalmente transnazionali, di tutti i paesi, e ai loro bracci politici nazionali. Certo, esaminare le cose in quest’ultima ottica è tecnicamente più faticoso e molto meno intuitivo. Ma indugiare ancora nella linea di opposizione ‘tra nazioni’, perché più comprensibile, sarebbe fare come quell’ubriaco che, perduta la chiave lungo la via, la cerca sul marciapiede davanti casa: ‘perché almeno là c’è un po’ di luce’.

 

3. La Grecia e le lezioni sull’azzardo morale

 

I ‘Greci’ non sono innocenti. Così come non lo sono gli ‘Italiani’, o gli ‘Spagnoli’, ecc. Quando all’inizio della crisi greca venne sollevato il problema dell’azzardo morale, questo argomento, brandeggiato soprattutto dalla classe politica tedesca, sembrava poter avere un senso. È infatti sensato non lasciare impunito un abuso (come l’indebitamento fraudolento dello stato greco), altrimenti altri potrebbero essere incoraggiati a giocare di nuovo d’azzardo con le finanze del proprio paese, sapendo che poi non ne pagheranno lo scotto.

C’è qui, tuttavia, un problema non trascurabile. Una volta che cominciamo a parlare di colpe e di lezioni da impartire, se non vogliamo limitarci alla retorica, è indispensabile individuare quali colpe e quali colpevoli. Se la lezione contro l’azzardo morale è impartita ai soggetti sbagliati non può avere alcuna efficacia. Questo significa che non basta ammettere che ci sono colpe in Grecia (o in Italia, Spagna, ecc.), ma è necessario anche capire chi è colpevole in Grecia (e Italia, Spagna, ecc.).

Quando illustri commentatori ripetono ai cittadini greci (e italiani, spagnoli, ecc.) che essi avrebbero “vissuto al di sopra delle proprie possibilità” e che sarebbe dunque “venuto il momento di stringere la cinghia” o magari “di fare i compiti a casa”, credo che un congruo numero di questi cittadini, di norma pacifici, reprima a fatica impulsi violenti. Esattamente, chi sta dicendo questo a chi? Per dire, avevano vissuto al di sopra delle proprie possibilità quei greci, quasi un terzo della popolazione, che, nel 2004, l’anno di maggiore crescita e maggiore spesa statale, vivevano sulla o sotto la soglia di povertà?

Ma forse, allora, la Grecia sarebbe semplicemente un ‘paese povero’? Beh, qui la cosa si fa interessante, giacché non è facilissimo pensare ad un paese senz’altro come povero quando, per dirne una, con 11 milioni di abitanti ha la più grande flotta commerciale del mondo (più del Giappone e della Cina, rispettivamente seconda e terza).

Chi conosce la realtà greca sa che si tratta, e non da oggi, di un paese con una forte forbice sociale e con un ruolo preponderante giocato da un’oligarchia di grande potere, economico, mediatico e politico, oligarchia che si è adoperata nel tempo per bloccare sul nascere ogni tentativo di riforma che potesse toccare i propri interessi. Capita così che in Grecia, a tutt’oggi, ogni tentativo di giungere ad un’asta delle frequenze televisive tra le numerose emittenti private sia stato impedito; o che dal 1967 sia parte della Costituzione greca il principio per cui i guadagni internazionali degli armatori non pagano tasse in patria, ecc.

Naturalmente nel gioco del clientelismo e del nepotismo, funzionale a chi può giocare il ruolo del patronus, c’è sempre una controparte che si colloca nel ruolo del cliens, così come nella corruzione a fronte di un corruttore ci dev’essere qualcuno che si lascia corrompere. Dunque, in una società in cui un’oligarchia economica esercita un elevato potere in forme lontane da ogni trasparenza democratica, scarsi sono gli incentivi a liberarsi da clientelismo, corruzione e, di conseguenza, dall’inefficienza amministrativa e fiscale. In un simile paese ci devono essere molti colpevoli. Molti, ma non tutti, e soprattutto non egualmente colpevoli. Inutile sottolineare come il medesimo discorso potrebbe essere fatto per l’Italia.

Al di fuori della Grecia nomi come Yiannis Alafouzos, Vardis Vardinoyannis, George Bobolas, Stavros Psycharis, Michalis Sallas, Spiros Latsis, Dimitris Copelouzos, ecc. dicono poco, salvo che agli addetti ai lavori. Qui basti notare come questi personaggi possiedano, oltre alle rispettive ubertose attività economiche (petrolio, oro, navi, turismo) la quasi totalità dell’apparato mediatico greco. Niente si è mosso in Grecia sul piano politico fino a tempi recenti che non fosse supportato da questi oligarchi. E peraltro la natura chiusa e ‘dinastica’ del tradizionale bipartitismo greco è nota: il debito 2004-2009 è stato accumulato dal governo di Kostas Karamanlis, figlio di Kostantinos Karamanlis, già primo ministro greco per 15 anni e presidente della Repubblica per 10; al lato opposto dell’emiciclo il cerino del debito è stato rilevato nel 2009 dal governo di George Papandreou, figlio di Andreas Papandreou, già primo ministro greco per 13 anni e figlio a sua volta di Gyorgos Papandreou, capo del governo greco in esilio nel 1944.

Ma, ora, senza voler entrare nei dettagli della gestione del potere in Grecia, c’è una domanda cruciale che deve essere sollevata. A fronte di queste responsabilità e colpe, diffuse, ma certamente in proporzioni ampiamente difformi, come opera e come ha operato la ‘lezione riformatrice’ della Trojka? La risposta è drammaticamente semplice: il tipo di interventi richiesti dalle istituzioni europee non sfiorano né gli oligarchi greci, né il loro ceto politico di riferimento, esattamente come gli interventi di austerity imposti a Italia, Spagna, ecc. sono caduti sulle spalle dei ceti medi e popolari, mentre al contempo le élite hanno continuato ad accrescere la propria ricchezza, anche negli anni di peggior crisi internazionale. (Per dire, in Italia sei anni fa il 10% più ricco della popolazione aveva il 44,3% della ricchezza nazionale, oggi è il 45,9%; e limitandosi ai capitali ufficialmente registrati.) Come si ricorderà, peraltro, nei colloqui col FMI era emerso precisamente come i rappresentanti della ‘confindustria’ greca sostenessero pienamente il programma di interventi della Trojka, che venivano, giustamente, visti come un problema del settore pubblico.

Così, se cambiamo un po’ la prospettiva, e non ci lasciamo ipnotizzare dalle linee di distinzione nazionali, vediamo come le varie lezioni sull’immoralità del debito, la salubrità del rigore, e la necessità di evitare l’azzardo morale siano sfacciate distorsioni della realtà. Nessuna lezione morale o economica viene mai impartita da questo tipo di interventi, per il semplice motivo che essi non colpiscono chi ha prodotto il danno, che può serenamente riprovarci la prossima volta. Anzi, imporre politiche restrittive ai popoli (la specialità della casa del FMI) è un modo raffinato per garantire l’immunità da spiacevoli conseguenze alle oligarchie, che grazie alle caratteristiche peculiari della ricchezza finanziaria moderna non sono vincolati alle sorti di un territorio e della sua gente. Per dirla in modo semplice: in tutto il mondo, durante la crisi (innescata dalla frenetica ricerca di profitto finanziario), chi vive del proprio lavoro ha pagato il conto lasciato sulla tavola da chi vive prestando il proprio denaro. E il tutto all’insegna dell’imperativo morale che ‘bisogna pagare i propri debiti’.

 

4. Riforme, quali riforme?

 

Cominciamo così ad avvicinarci alle questioni cruciali, quelle questioni che fanno della vicenda greca un paradigma delle relazioni odierne tra stati, popoli e potere economico (finanziario). Come abbiamo detto, gli interventi richiesti dai creditori internazionali, nonostante le pretese, non colpivano i responsabili della crisi greca, scaricandosi su lavoratori e pensionati. In questi anni, in Grecia ma non solo, si è fatto un gran parlare della necessità per i paesi colpiti dalla crisi 2007-2008 di ‘fare le riforme’. E la parola ‘riforma’ è invero un’espressione che ispira un senso di rinnovamento e palingenesi. ‘Riforma’ nomina qualcosa come un ‘cambiamento nel modo di fare le cose’, dunque dovrebbe indicare modifiche prodotte seguendo le migliori pratiche internazionali, mutamenti delle tecniche organizzative, aggiornamenti infrastrutturali, tecnologici, formativi, ecc.

Già. E ora guardiamo per un momento a quale sia stato il contenuto delle ‘riforme’ condizionalmente richieste dalla Trojka alla Grecia. Si tratta, nella quasi totalità, di richieste che vanno testardamente in sole tre direzioni: 1) compressione della spesa pubblica, 2) riduzione del potere contrattuale della forza lavoro e 3) riduzione del perimetro dello stato (privatizzazioni). E tutto questo da implementare avendo come stella polare sempre soltanto certi obiettivi di budget.

Ora, anche se tutto avesse funzionato per il meglio e la Grecia avesse ripreso a crescere, ricette del genere tutto possono dirsi tranne ‘riforme’. Tali ricette (che sono più o meno le medesime ovunque nel mondo, come si vede seguendo le ‘condizionalità’ imposte dal FMI) si disinteressano nel modo più smaccato dell’unico aspetto che le renderebbe degne di chiamarsi riforme, cioè un miglioramento della funzionalità degli stati. Se prendiamo il caso greco, vediamo come le questioni, universalmente note, che avevano condotto agli attuali problemi dell’economia greca erano: una pubblica amministrazione inefficiente, un’evasione fiscale fuori controllo, un sistema oligarchico-clientelare pervasivo, e, di fondo, un sistema formativo scadente e in gran parte appaltato a privati. Questi problemi strutturali poi sfociavano in sprechi, inefficienze, prebende, bustarelle, sovrapprezzi, ecc.

Di fronte a questo quadro, certamente non ignoto ai competentissimi tecnici di BCE e FMI, gli interventi non hanno mai neppure preso in considerazione la possibilità di imporre, per dire, diversi sistemi di selezione ed organizzazione della pubblica amministrazione (che in Grecia consente ancora l’ingresso senza neppure un concorso pubblico), tecniche di tracciabilità e controllo di evasione ed elusione fiscale, riduzione delle posizioni dominanti e dei privilegi degli oligarchi, ecc.

Qualcuno, di primo acchito, potrebbe essere tentato di rispondere che richieste del genere non sarebbero ammissibili perché violano la sovranità di un paese. Ma naturalmente una tale obiezione sarebbe ridicola, visto che le ‘condizionalità’ imposte dalla Trojka sono giunte sino a livelli estremi di invasività nel dettaglio, imponendo peraltro anche violazioni di ‘diritti acquisiti’. No, la ragione di questo orientamento è al tempo stesso più semplice e più profonda: si tratta di uno specifico orientamento politico, camuffato da intervento tecnico. Nell’orientamento politico che guida queste scelte vige un’idea di fondo, di matrice liberista, per cui, molto semplicemente, una riduzione dei poteri dello stato ed un ampliamento dello spazio per relazioni di mercato deregolamentate sono sempre desiderabili e conducono alla crescita. Avendone il tempo, sarebbe interessante spiegare come buoni risultati in termini di crescita economica (PIL) non equivalgono affatto di per sé a un miglioramento complessivo delle condizioni di vita in un paese. Ma il caso greco ci consente di disinteressarci di questo argomento, giacché qui siamo di fronte ad un clamoroso fallimento anche in meri termini di PIL. Il caso greco è paradigmatico perché mostra come anche di fronte alla prova provata di un fallimento, persino secondo gli obiettivi miopi che guidano le condizionalità della Trojka, nessuna spinta ad adottare strategie diverse riesce a trovare ascolto.

Sarebbe stato bello, per dire, se nello stesso modo in cui la Trojka ha fatto ripetutamente la faccia feroce per ottenere tagli a pensioni o privatizzazioni, una volta, una volta soltanto, si fosse detto: “Dovete mettere assolutamente ordine nel vostro sistema di esazione fiscale! Avrete tutto il nostro supporto tecnico e politico, ma senza il raggiungimento di questo obiettivo non potrete giovarvi della prossima rata di prestiti!” Curiosamente niente del genere è mai accaduto.

E d’altro canto, senza voler eccedere in malizia, verrebbe da chiedersi: personaggi come Jean-Claude Juncker, che ha coperto 548 accordi segreti con aziende multinazionali in Lussemburgo in regime di agevolazione fiscale estrema (tassazione a meno dell’1%) potrebbero mai fare la voce grossa per ottenere trasparenza fiscale in Grecia? Il problema, naturalmente, è che mentre si possono colpire i lavoratori greci senza necessariamente toccare quelli lussemburghesi o italiani, è impossibile affrontare l’evasione ed elusione fiscale greca (o italiana) senza mettere sul piatto la sorveglianza internazionale sui movimenti di capitale (inclusa la gaia movimentazione finanziaria delle lobby vicine a Juncker in Lussemburgo, a Lagarde in Francia, ecc.), sorveglianza che nessuno degli oligarchi europei vuole.

Di passaggio: qualcuno forse ricorderà ancora le parole dell’allora primo ministro Mario Monti, nel novembre del 2012, quando menzionò l’opportunità di una tassa patrimoniale per affrontare la grave crisi italiana. Dopo un breve soprassalto di entusiasmo nelle fila della sinistra, il tema venne però rinviato ad un futuro indefinito, in quanto, si disse, “purtroppo, in Italia non abbiamo ancora una vera anagrafe patrimoniale”, cui però, si garantiva, “il governo sta lavorando” (??). Traduzione per i non addetti ai lavori: <Sarebbe bello e giusto far pagare la crisi anche ai grandi e grandissimi patrimoni, ma purtroppo, diversamente dal bilocale di Beppe il calzolaio, quei patrimoni sono in gran parte invisibili al fisco, e, per di più, trattandosi di patrimoni liquidi, possono essere trasferiti in un batter d’occhio. E siccome non vogliamo fare fuggire i capitali (vero?), allora non ci resta che randellare il bilocale di Beppe.>

E se qualcuno pensasse ingenuamente che questi sono maccanismi idiosincratici della realtà italiana, basterebbe qui ricordare la reazione degli armatori greci di fronte alla possibilità che i loro privilegi fiscali fossero tolti: la risposta di Theodore Veniamis, presidente dell’Unione Greca degli Armatori, ai primi cenni di tale proposta fu semplice, ricordando come esistano altri paesi che offrono condizioni fiscali competitive e che sarà sufficiente registrare le proprie navi altrove.

Il problema della competizione fiscale al ribasso, sotto il ricatto di delocalizzazioni, spostamenti di sede legale o deflusso di capitali, è uno dei problemi cruciali per l’esistenza di tutti gli stati europei. È del tutto ovvio che la tendenza costante di queste pratiche è l’erosione inesorabile della base fiscale che può consentire la sopravvivenza degli stati. Ora, una delle principali ragioni a sostegno dell’esistenza di un’Unione Europea doveva essere proprio la possibilità di disporre di un organismo politico-economico con una massa critica abbastanza grande da poter imporre limiti e condizioni a queste pratiche. In assenza di tali vincoli, la trasferibilità di capitali e aziende, ovunque le condizioni regolative e fiscali siano vantaggiose, di fatto riduce drasticamente il carico fiscale su grandi patrimoni liquidi e aziende transnazionali, scaricandolo su lavoratori e patrimoni (casa) vincolati a sedi territoriali.

Così, nel corso della crisi finanziaria, in Grecia e altrove, il ‘grande capitale’ transnazionale ha manifestato i suoi rapporti nei confronti degli stati democratici in tre forme: 1) trasferendo i propri debiti sugli erari pubblici in occasione di crisi degli istituti di credito (ricapitalizzazioni e salvataggi bancari); 2) sottraendosi ad un’equa tassazione, col ricatto agli stati per ottenere condizioni fiscali di favore; 3) esercitando il proprio potere contrattuale (la minaccia di trasferirsi) per comprimere i diritti del lavoro. In questo quadro, a fronte delle richieste moraleggianti alla popolazione greca, o italiana, spagnola, ecc. di ‘far fronte ai propri debiti’, credo esista un’unica risposta moralmente giusta. Fino a quando l’Unione Europea non porrà termine alla capacità di capitali e aziende transnazionali di sottrarsi ad un’equa tassazione e di ricattare gli stati, chiedere ai cittadini europei di onorare i propri debiti pubblici è semplicemente una richiesta indecente.

Il caso greco è paradigmatico. In questo caso (non unico, ma il più radicale in EU), il ‘free riding’ privato ha pervaso la sfera pubblica, trasformando anche parte significativa di ciò che nominalmente è un’attività pubblica in affare privato (corruzione e clientelismo sono precisamente questo: forme di privatizzazione, non ufficiale e non trasparente, del servizio pubblico). Rispetto ad un problema del genere la risposta fornita dalle condizionalità della Trojka è manifestamente insensata, chiedendo un semplice assottigliamento del settore pubblico, non una sua riforma. Se infatti è vero che l’aumento di spesa pubblica in un settore non garantisce che esso migliori i servizi che eroga, è non meno vero che, in assenza di autentiche riforme (di organizzazione, infrastrutture, selezione del personale, ecc.) una semplice riduzione della spesa peggiora la capacità di fornire i relativi servizi. In presenza di una progressiva compressione della spesa, riforme migliorative sono impossibili, perché una riforma autentica richiede la partecipazione del personale coinvolto, con collaborazione e impegno di rinnovamento, mentre la semplice prospettiva di tagli e restrizioni induce un meccanismo mors tua vita mea in cui il ricorso alle vecchie leve clientelari torna più utile che mai.

Gli interventi imposti (in altri paesi sono solamente ‘suggeriti’) dalla Trojka si disinteressano di un’autentica riforma dello stato, ma mirano solo ad una progressiva riduzione di competenze pubbliche. Tale processo è peraltro gestito fissando obiettivi di budget e non dunque adattandolo alla realtà produttiva dello specifico paese. Esemplari in questo senso alcuni processi, evidenti in Grecia, ma diffusi anche in molti altri paesi (inclusa l’Italia). Ad esempio, le privatizzazioni vengono imposte con urgenza, con l’intento di ‘fare cassa’. Ciò conduce regolarmente ad una svendita degli asset statali che sempre, senza eccezioni, rendono meno di quanto preventivato, per l’ovvia ragione che in una vendita forzata, i compratori ottengono una posizione migliore per esercitare il proprio potere contrattuale. O ancora, i processi di indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro hanno come effetto collaterale di frammentare il mercato del lavoro, rendendolo meno controllabile anche per il fisco. In Grecia la cancellazione della contrattazione collettiva e la drastica riduzione del salario minimo hanno allargato a dismisura il bacino del lavoro sommerso, abbattendo così ancora i contributi previdenziali e rendendo il sistema pensionistico insostenibile, nonostante i tagli.

 

5. La questione greca come battaglia politica europea

Nei recenti sviluppi della crisi greca un punto è emerso con chiarezza: la natura profondamente politica dei giudizi ‘tecnici’ formulati dalla Trojka. È difficile non restare perplessi pensando a come la proposta del governo Tsipras del 24-25 giugno sia stata giudicata inaccettabile, con la motivazione di “non garantire gli obiettivi di budget”, dopo che, senza eccezioni, tutti gli obiettivi di budget fissati dalla Trojka nei sei anni precedenti erano falliti. Ed è ironico che la Trojka, dopo aver trattato senza nessuna remora con i partiti che avevano portato il paese al default, truccando ripetutamente i resoconti finanziari, abbia trovato così arduo dare fiducia alla prima forza politica della recente storia greca che non fosse strutturalmente collusa con l’establishment oligarchico-clientelare.

Solo pochi ingenui possono non vedere come l’intransigenza europea degli ultimi sei mesi sia direttamente proporzionale alla portata politica (e simbolica) della piattaforma su cui Syryza aveva vinto le elezioni. Senza una genuflessione del governo greco la disponibilità politica dei paesi dell’eurozona è prossima a zero. Solo la storia ci dirà se lo scandaloso ‘accordo’ del 12 luglio sarà un punto di svolta (o in che senso lo sarà), ma la lezione che è importante trarne ha una portata più generale e duratura.

Il muro politico creatosi nei confronti del governo Tsipras non è soltanto un muro contro le ‘politiche anti-austerity’. Il vero insulto all’establishment europeo è venuto da Syryza proprio per la sua estraneità a quel mondo dei ‘gentlemen’s agreement’ alle spalle dei lavoratori europei che ha caratterizzato la politica europea degli ultimi 10-15 anni (Partito Socialista Europeo incluso). Syryza, nel nome di una tradizione socialista, neppure particolarmente radicale, ha formulato proposte che mettevano in campo la necessità di rinforzare il ruolo di una politica pubblica e democratica, in Grecia ed in Europa, a fronte di élite politico-finanziarie tanto influenti, quanto mai imputabili e sempre inafferrabili. Dunque Syryza, non senza ingenuità, ha fatto notare che ‘il re è nudo’ e che il ‘sogno europeo’ si è smarrito introiettando un modello per cui la semplice tutela dei creditori (cioè dei detentori di capitale) coinciderebbe con la buona gestione degli stati. E a ciò l’establishment europeo ha reagito con stizza, quando non con rabbia e persino con l’insulto (il linciaggio morale cui è stato sottoposto l’ex ministro Varoufakis è esemplare.) Le istituzioni internazionali, come l’FMI, non hanno mai avuto nessuna difficoltà a trattare con governi autoritari, con violatori dei diritti umani, dittatori, ecc., ma dover trattare con qualcuno che metteva in dubbio il sistema di mitologemi politico-economici su cui si è costruita la recente Europa monetarista, questo era davvero chiedere troppo. Così, sin troppo ovvio è stato il tentativo di disarcionare il governo Tsipras rifiutando una dilazione di sei giorni dei prestiti in occasione del referendum, e per quanto il tentativo sia scoppiato in faccia a chi lo aveva promosso, dovremo ricordarlo a lungo quando sentiremo le perorazioni circa i ‘valori democratici’ promossi dall’Unione Europea.

L’europeismo, di cui Syryza si è voluta fare promotrice e simbolo, nonostante la debolezza della propria posizione contrattuale, non è nulla di inedito o bizzarro. Essa corrisponde al modello originario del ruolo dell’Europa unita. L’idea di un’unione europea nasce infatti con l’idea che fosse necessario creare un aggregato politico che bilanciasse il potere contrattuale incontrastato degli USA (oggi anche della Cina). Raggiungendo una certa massa critica in termini economici e politici, un’unione di paesi europei avrebbe potuto contrattare sul piano internazionale condizioni (diritti del lavoro, difesa ambientale, ecc.) che tutelassero le condizioni di vita dei propri cittadini, condizioni che i singoli stati isolati non sarebbero stati in grado di imporre in un mercato globalizzato. Ma nel mutato panorama della politica odierna quel progetto politico non appare più alle dirigenze europee come un progetto di buon senso democratico, ma come un progetto segnato con lo stigma dello ‘statalismo’ e del ‘socialismo’, dunque qualcosa che per le nuove élite europee suona obsoleto e pericoloso allo stesso tempo. Sperare che un singolo partito, di un paese piccolo e sotto scacco, possa imporre da solo questa agenda politica all’Unione Europea è sciocco e velleitario. Ma questa potrebbe forse essere l’occasione per richiamare i cittadini europei a svegliarsi dal sonno della ragione in cui paiono caduti e a chiedere non tanto e non solo di ‘aiutare i fratelli greci’, ma di sottrarre tutti i cittadini europei al ricatto di debitori con cui ben pochi hanno mai avuto il dubbio onore di contrarre un debito.

 

Conclusione

 

Riassumendo, la vicenda greca rappresenta il test di collaudo, finito disastrosamente, dell’Unione Europea come unione monetaria. Si è costruito un modello europeo incentrato sulla sola stabilità della moneta e sulla saldezza degli ordinamenti finanziari, lasciando in tutti gli altri ambiti i paesi europei a competere su base nazionale. La responsabilità per l’adozione di questo modello ricade, a pari ‘merito’, sulle classi dirigenti tedesche, che hanno imposto una BCE come alter ego della Bundesbank, non meno che sulle classi dirigenti francesi, che hanno ostacolato in tutti i modi ogni progetto di devoluzione dei poteri nazionali al Parlamento Europeo. Il risultato è stato un’organizzazione sovranazionale forte con i deboli e debole con i forti, dove l’Europa ha presentato ai propri cittadini il solo volto di tutore del rigore finanziario, senza uno straccio di politica industriale o sociale comune, e senza mostrarsi in grado di difendere né lo stato sociale europeo, né la cultura europea.

Nella fattispecie greca, il fallimento politico europeo può essere sintetizzato in cinque passi: le istituzioni europee 1) dapprima hanno mancato di esercitare i dovuti controlli per l’ammissione della Grecia nell’unione monetaria; 2) poi hanno consentito la speculazione delle banche private internazionali senza un’adeguata regolamentazione finanziaria; 3) in seguito sono intervenute per salvare quelle stesse banche a scapito dei debiti pubblici; 4) indi hanno esercitato sotto il nome di ‘riforme’ una sorta di attività di strozzinaggio internazionale, senza mettere in campo nessun intervento anticiclico; 5) e infine alla prima seria difficoltà hanno rivelato la priorità di uno spirito competitivo tra opportunisti economici (e non collaborativo tra soggetti politici) giungendo ad una sconcertante esibizione finale di egoismi nazionali (il caso della distribuzione dei migranti ne è un sintomo palese).

Dall’Europa del Manifesto di Ventotene e degli ‘Stati Uniti d’Europa’ all’Europa rancorosa, provinciale e ottusa di Wolfgang Schäuble e Marine Le Pen, la disillusione avrebbe difficilmente potuto essere maggiore.



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