Un crocicchio di forme e di storie
Cercare di comprendere il nostro tempo instabile e i suoi prodotti culturali, il nostro tempo attraverso i suoi prodotti, può essere occasione per un’esplorazione di forme e storie, di strutture e genealogie che mostrino configurazioni emergenti e condensazioni di processi di lunga durata. Lo specchio del barocco può dunque servire a cogliere il dispiegarsi delle forme della nostra cultura, dalle scienze alle arti, dalle tecnologie alle merci. Un’ottica che ci ha insegnato ad assumere il lavoro di Omar Calabrese, L’età neobarocca (1987). Un testo che può essere considerato come esito di tutta una tradizione formalista (da Wölfflin a Sarduy): una tradizione che ha avuto l’enorme merito di cogliere una dinamica delle forme necessaria a vedere nel barocco qualcosa di più di un circoscritto periodo della storia dell’arte. Una dinamica che ha cioè permesso di costruire categorie interpretative utili a comprendere il nostro tempo: ritmo e ripetizione, limite ed eccesso, dettaglio e frammento, instabilità e metamorfosi, disordine e caos, nodo e labirinto, complessità e dissipazione, pressappoco e non-so-che, distorsione e perversione – tutti elementi rinvenibili nel barocco e parsi propri anche agli artefatti culturali contemporanei.
Questo approccio, che ha riscattato uno stile spesso oggetto di pregiudizio, rischia però una deriva, rischia cioè di assolutizzare la categoria “barocco” recidendo gli indispensabili legami con il suo contesto d’origine (e per conseguenza con ogni contesto storico). Invece, sulla scorta di Walter Benjamin, è bene tenere presente che ogni prodotto culturale è rintracciabile solo nei pressi di un crocicchio nel quale si incrociano strutture formali e processi storici: è grazie a questo crocicchio che emerge quel tal prodotto e non un altro. È perciò necessario cogliere un altro aspetto del riferimento al barocco: l’ombra lunga che l’esperienza e la cultura di un periodo storico più o meno definito continua a gettare sulla nostra storia contemporanea. In questo senso, il barocco ha offerto all’uomo moderno la possibilità di farsi carico dell’ambivalenza di quei processi che avviati nel rinascimento avrebbero avuto un pieno dispiegamento nei secoli successivi con l’illuminismo, il positivismo e la rivoluzione industriale. L’uomo barocco ha potuto osservare nello stesso tempo la costituzione degli stati nazionali e i tanti morti lasciati sul terreno per questo scopo; la scoperta e il dominio di nuove terre e la produzione su ampia scala di uomini senz’anima, gli indigeni schiavizzati e i neri deportati; la nascita di un nuovo paradigma della scienza e il crollo delle antiche e consolidate certezze; il consolidamento della Riforma e il richiamo irresistibile della Controriforma; il divertimento offerto da maestosi spettacoli e una serie ininterrotta di eventi catastrofici; la sua inclusione come protagonista nelle grandi feste e la sua messa al rogo da parte dell’Inquisizione. Insomma, rispetto all’uomo rinascimentale e a quello illuministico, l’uomo barocco ha potuto farsi carico di una modernità che non era solo magnifica e progressiva.
Entrambe le possibilità interpretative, quella attenta alle forme e quella attenta alle storie, hanno un indubbio valore euristico rispetto alle vicende contemporanee. Anzi dovrebbe essere ormai chiaro che i due approcci sono complementari e solo tenuti insieme rivelano la profondità e la fortuna del barocco e di conseguenza qualcosa del nostro tempo. Sono le vicende storiche, oltre che il disegno dei prodotti culturali, a permetterci di riconoscere che «il momento zenitale del barocco [è] il caravaggismo. Contrasto senza mediazione fra zona d’ombra e zona di luce. Soppressione di ogni transizione da un termine a un altro, con una giustapposizione aspra dei contrari» (Sarduy 1991: 34).
Feste e funerali
Questa ambivalenza del barocco, e il conseguente decentramento che essa impone all’uomo moderno, continua a riverberarsi nei nostri giorni instabili. Essa ricade sui nostri prodotti culturali espressione di un tempo che lascia-stare-insieme-dinanzi luci e ombre, vitalità e caducità, divertimenti e disperazioni. Basta osservare le prime scene de La grande bellezza di Paolo Sorrentino (2013) per cogliere questa aspra giustapposizione. Il brano yiddish I lie di David Lang (2001), quasi una litania sacra, fa da contrappunto alla tranquilla visita dei turisti giapponesi sul Gianicolo. Visita che culmina però con lo stramazzare al suolo, per un subitaneo infarto, del turista che si distacca dal gruppo per scattare fotografie della bellezza offerta dalla città eterna – letterale folgorazione, conferma piena dell’intuizione di Roland Barthes (1980) secondo la quale l’operazione propria di uno dei più importanti media della cultura visuale moderna, appunto la fotografia, è opera di morte.
Stacco netto da questa scena mattutina e ci si ritrova immersi in uno sfrenato ballo dionisiaco su una terrazza romana, riconoscibile come quella della pubblicità Martini. Ballo che è diventato una sorta di scena madre del film. Ballo il cui vitalismo è segnato da filamenti sonori e visivi capaci di riannodare quella terrazza situata nell’Urbe ai panorami della comunicazione globale. Tra questi filamenti di immaginario ne vanno segnalati almeno due: la cifra erotica di corpi che si avvinghiano, esplicitamente sessuale nelle parole che uno dei partecipanti rivolge ad una ballerina (“ti chiavasse”) e che risuonano nella canzone di Raffaela Carrà remixata da Bob Sinclair (A far l’amore comincia tu 1976, 2011); l’umanità varia che si presenta mettendo in scena figure eterogenee come i suonatori messicani o la cubista tatuata e incastonata dentro una teca. Un’umanità varia che, sulla terrazza rivolta alle stelle, ricompone le generazioni all’insegna del de-siderio (de sidera): giovani desiderati e anziani desideranti; ma nello stesso tempo un’umanità che ricorda la decadenza in agguato (si stanno pur sempre festeggiando i sessantacinque anni del disincanto protagonista, età della pensione e del preventivabile calo degli appetiti).
Tutto il film prosegue su questa cifra di giustapposizione netta tra elementi contrastanti: vita e morte, sacro e mondano, feste e funerali, fasti e rovine. Jep Gambardella, il protagonista, è inserito nel vortice della mondanità, è un mondano, il re dei mondani che non solo ha la possibilità di partecipare alle feste ma anche il potere di farle fallire. Eppure non ha il potere di ritrovarsi con Elisa de Santis, l’unico amore della sua vita. Anzi ne ha di nuovo notizie solo quando dovrà accompagnarne la salma in cimitero. Ramona svolge le sue sensuali performance da spogliarellista in un night club situato nel cuore della bella vita romana ma cela in sé un male estremo che la porterà presto alla morte. Dopo l’amorevole medico che, con gli innesti di botox, plasma corpi gloriosi, lo stravagante e malinconico Andrea, citando Proust, ci ricorda che «la morte potrebbe coglierci questo pomeriggio» e in effetti poco dopo un incidente automobilistico ne stronca la giovane vita. E proprio il suo funerale, che si svolge nella chiesa barocca dei santi Domenico e Sisto, offre l’occasione a Jep di enunciare che «il funerale è l’evento mondano par excellence»: a un funerale si va in scena e perciò è più che mai necessario scegliere il vestito giusto, mettere in gioco sorella moda. Roma stessa, cuore pulsante di un connubio paradossale tra mondanità e sacralità, rivela la sua folgorante bellezza solo come piranesiano campo di rovine messe in evidenza dalla decisa fotografia di Luca Bigazzi, come gioco di una dialettica in stasi tra luci e ombre, tra bagliori e oscurità, tra dettagli in primo piano e sfondi bui, nei suoi più bei palazzi che stupiscono e rapiscono lo sguardo di Ramona (la quale di lì a poco morirà non prima di aver scattato fotografie – ancora – alla città eterna).
In fondo è solo un trucco
È proprio questa Roma, dalla ambigua bellezza barocca, a rivelarci l’ambivalenza del nostro tempo inquieto tra feste orgiastiche e sante monastiche, tra elevazioni verso lo spirito e attrazioni verso il cibo, tra voglia di partecipare al divertimento glocale e chiusure in un presente apparentemente insensato, tra linguaggi esuberanti e horror vacui, tra immersioni nel theatrum orbis mediatico e presenza continua di memento mori. La grande bellezza è quella rappresentata da Damien Hirst in For the love of God (2007): migliaia di diamanti che acutizzano la nostra visione, ci abbagliano, nel mentre ricoprono e ci presentano un teschio.
Questa bellezza esprime e si esprime attraverso sensibilità diverse da quel soggetto moderno che ha preteso ricondurre il mondo al suo criterio di magnificenza e che molto spesso invece ha lasciato solo macerie sul suo cammino. Ne è ben consapevole Jep che, destrutturando le false certezze della scrittrice engagé, dichiara i limiti del soggetto occidentale: «certo conosciamo anche le nostre menzogne, ma proprio per questo finiamo per parlare di vacuità, sciocchezzuole, pettegolezzi, proprio perché non abbiamo nessuna intenzione di misurarci con le nostre meschinità». A nulla servono più le grandi narrazioni del Partito o il sistema dell’Arte: anche in questi casi, soprattutto in questi casi, valgono le ultime parole di Jep: «in fondo è solo un trucco». Ma proprio una così acuta consapevolezza e una così evidente sensibilità disincantata aprono una porta stretta: «siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia e pigliarci un po’ in giro». La grande bellezza delle superfici folgoranti si è sciolta nel nostro distratto vivere quotidiano e proprio in questo modo ne ha rivelato l’insondabile profondità. È sotto questo centro oscuro che, tra i corpi gloriosi di Orlan e i cadaveri scarnificati di Jake e Dinos Chapman, emergono un giorno dopo l’altro le inquiete soggettività contemporanee.