Se si volesse stilare, nel contesto intellettuale di questo inizio del XXI secolo, una classifica delle figure che più appaiono curiose e spiazzanti, forse il filosofo-sociologo-psicoanalista Slavoj Žižek non farebbe fatica a concorrere per i primi posti. Sostenendo teorie radicali e presentandosi con suoi atteggiamenti e con sua immagine anticonformisti, Žižek propone una lettura della società contemporanea, delineando orizzonti ideali e politici alternativi. Sotto l’ormai enorme produzione libresca di Žižek, al di là degli svariati tipi di interventi culturali e sociali e politici, quello che si può individuare, è, in ultima analisi, una dialettica del neoliberalismo, sviluppata certamente attraverso modalità e approcci abbastanza particolari. Infatti, da una parte, si deve rilevare che Žižek sembra incarnare molti aspetti dell’intellettuale postmoderno che utilizza citazioni cinematografiche o della pop cultura e anche della letteratura pulp, non facendosi neanche mancare la storiella o la barzelletta o il motto arguto o acuto, in molte sue trattazioni; in tal senso, egli appare molto a suo agio nel muoversi nella cultura dell’età globale dell’ultimo ventennio. D’altra parte, egli, a ben guardare, appare molto legato a tradizioni teoriche Otto-Novecentesche: è Hegel che gli fornisce la metodologia attraverso cui costruire le sue teorie, ossia la dialettica; è Marx che costituisce l’ispirazione concreta per la sua opera, che in fondo configura una critica dell’ideologia; è Lacan, infine, che gli garantisce una terminologia specifica, soprattutto tramite i concetti chiave di Immaginario, Simbolico e Reale; e, dal punto di vista sociologico, suoi punti di riferimento sembrano vicini alle prospettive della teoria critica della Scuola di Francoforte, soprattutto nelle versioni più sofisticate di Adorno e Benjamin.
Ora questo mix, indubbiamente non comune, oltre a suscitare svariate questioni sia formali che sostanziali, porta il pensiero di Žižek, nel suo insieme complessivo, ad essere, simultaneamente, una filosofia politica e una sociologia critica, che realizzano non una semplice critica del neoliberalismo, cosa che, in effetti, si può trovare abbastanza agevolmente in vari altri autori, ma appunto un quid più articolato e spregiudicato, ossia una dialettica del neoliberalismo, perché, di questa particolare prospettiva teorica, Žižek coglie l’intrinseca aporia e ambiguità e, marxianamente, si mostra portato a ritenere che il neoliberalismo debba essere necessariamente superato. La prospettiva neoliberale, di base, determina, secondo Žižek, una condizione sociale in cui la tensione esistente non è più quella tra impulsi creativi e Istituzione che vuole normalizzare: si pone, allora, la questione cruciale se la disintegrazione autorità simbolica pubblica di tipo patriarcale, che si è verificata nel corso del XX secolo, non sia stata pagata, o controbilanciata da un ancora più forte attaccamento appassionato all’assoggettamento; il problema, in quest’ottica, non sta nell’autorità patriarcale e nella lotta all’emancipazione contro di essa, ma nelle nuove forme di dipendenza che sorgono dal declino stesso dell’autorità simbolica patriarcale. La necessità di riaffermazione dell’atto, soprattutto politico, viene a costituire il nodo essenziale della dialettica del neoliberalismo proposta da Žižek: sebbene, nella società liberale tardocapitalistica, la capacità di agire venga brutalmente clinicizzata, è decidendo di “non cedere sul proprio desiderio” (come egli emblematicamente afferma ne Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Raffaello Cortina, Milano, 2003), che l’individuo può riacquistare la propria condizione, etica e politica, di soggetto. Nel sistema neoliberale, l’ordine istituzionale delle cose deve essere continuamente sottoposto a una dinamica di distruzione/ricostruzione: ciò è possibile grazie all’amplissima disponibilità di significati e dall’accresciuta mobilità, che indeboliscono qualunque ordine normativo, e all’estensione della libertà di scopo, che offre la teorica possibilità di aggiornare continuamente i propri obiettivi. L’idea di libertà del neoliberalismo è, dunque, una idea in realtà distorta, a cui Žižek, appunto dialetticamente, oppone una concezione più complessa, legata alla dimensione dell’impegno, che non si riscontra nelle prospettive che caratterizzano maggiormente il pensiero politico contemporaneo, ritenute invece responsabili di operare una “riduzione del politico”: per il filosofo sloveno, infatti, non c’è vera politica né nelle visioni degli universalisti, che fondano la politica su un a priori metodologico, né nell’interpretazione dei comunitaristi, che credono in una comunità chiusa retta da un insieme valori tradizionali, e nemmeno nelle posizioni dei postmodernisti, che denunciano il Male della politica, senza costruire un progetto alternativo. Come si può agevolmente comprendere, Žižek rappresenta un unicum nel contesto della filosofia politica contemporanea, sia metodologicamente sia teoricamente: oltre a essere ovviamente critico degli approcci di autori strettamente legati al liberalismo e alle teorie della giustizia, da Rawls ai suoi epigoni, egli è in varia misura e, di volta in volta, sotto specifici aspetti, lontano anche da numerose altre prospettive teoriche, influenti sulla riflessione socio-politica attuale, incarnate da figure come quelle di Habermas, Taylor, Beck, Giddens, Lyotard, Foucault; nel suo pensiero politico, infatti, non si esalta l’applicazione di una logica elegantemente asettica come quella della filosofia politica analitica, non c’è l’incedere rigorosamente istituzionale di Habermas o Foucault, né quell’elemento di drammaticamente tragico di Weber o dei francofortesi, né infine il riflesso pericolosamente perturbante, di una filosofia mistica-oracolare; egli si dichiara, facendo oscillare il lettore tra sacro e profano, esplicitamente e semplicemente, un pensatore di sinistra, di una sinistra da lui intesa come modello di legge e ordine e come portatrice di vera moralità.
Žižek ha una idea di cosa sia davvero pensare, che non coincide con il pensare degli esperti in grado di risolvere i problemi, quelli definiti come tali dalla società, dallo Stato e dalle imprese. Egli ci vuole ricordare che il “vero” pensare non è tanto risolvere problemi, ma piuttosto, vedere i problemi da una prospettiva globale, ridefinendo i limiti del possibile e dell’impossibile. In definitiva, il suo pensiero, imperniandosi appunto sulla dialettica, è orientato a evitare la decentralizzazione della politica, che si verifica nel neoliberalismo. Se non si riabilita questa dimensione della politica, gli uomini di oggi, secolarizzati e post ideologici, si troveranno sempre in una condizione di deficit di senso, che compenseranno nella banale attività di consumo. Žižek coglie a tal proposito due processi preoccupanti, uno collettivo e socio-politico, l’altro individuale. Da una parte, infatti, la politica sembra aver perso ogni riferimento ideale per ridursi a mera pratica di governance, accanto a forme di spettacolarizzazione e derive populiste; dall’altra, gli individui sembrano muoversi in una completa assenza di senso, travolti da relativismo e nichilismo, in un “deserto del reale”( espressione ad effetto che Žižek utilizza), in cui le coordinate simboliche stesse di ciò che sperimentiamo come realtà risultano sconvolte. La dialettica del neoliberalismo in Žižek assume, dunque, una portata rivoluzionaria (anche se va osservato che per i critici di Žižek non è chiaro in cosa consista esattamente il piano rivoluzionario che egli propone) e anticonservatrice, poiché è, nel suo insieme, interpretabile come un attacco alla pseudo-attività politica di certe correnti progressiste comunque incapsulate in logiche di potere, che favoriscono un “modello interpassivo” in cui “siamo sempre attivi affinchè nulla realmente cambi” (Cfr. Žižek, S., Chiedere l’impossibile, Ombre corte, Verona, 2013, p. 132). Il suo discorso sul neoliberalismo è intrinsecamente anche un discorso etico-politico, perché insiste su un punto fondamentale, ossia sulla responsabilità non solo di compiere il nostro dovere o di lavorare per il bene, ma di decidere cos’è il bene.
Si deve rilevare che posizioni critiche a questo pensiero hanno osservato che, in fondo, la visione di Žižek si amalgama bene a un’economia basata sulla produzione continua di nuovi beni ed esperienze, ciascuna diversa da tutte le precedenti: la dialettica del neoliberalismo di Žižek si adatterebbe idealmente a una cultura penetrata dallo spettacolo della propria fragilità. In tal senso, il ruolo di intellettuale pubblico globale in cui Žižek si esibisce, mentre parla di politica e filosofia, cinema e cultura, economia e società, è emerso insieme a un apparato mediatico integrante del sistema neoliberale. Queste osservazioni contribuiscono, forse, a rendere più problematica una valutazione univoca della riflessione politica di Žižek, anche in virtù di certe venature ideologiche e iperboliche che in essa si possono individuare. Tuttavia, non si può sfuggire alla tentazione che resterebbe interessante discutere sulle aporie della dialettica del neoliberalismo che lo studioso sloveno ha delineato, non solo nella prospettiva della filosofia politica, ma anche in quella più sottintesa e oggi certamente meno praticata, della tradizione della sociologia della conoscenza, che coglieva il rapporto tra costruzioni intellettuali e contesti sociali e politici. Allora, per chi volesse cimentarsi, si aprirebbero, forse, sentieri e prospettive cruciali su cui interrogarsi, che l’epoca attuale da tempo ha deciso di rimuovere, adagiandosi sui funzionalismi assortiti di un ordine senza progetto, ossia di un ordine sostanzialmente depoliticizzato.