Se lo stato di salute di una forma di sapere o di cultura si misura anche (seppur non solo, è chiaro) dalla quantità e, soprattutto, qualità di occasioni in cui essa ha modo di esprimersi in maniera concreta, convincente e viva, nonché dalle pubblicazioni a essa riservate, allora si può dire che il jazz in Italia goda da ormai diversi anni di buona salute. Forma espressiva ibrida per sua stessa natura, prodotto della civiltà musicale afroamericana che però, nel corso del tempo, ha saputo intrecciarsi e contaminarsi proficuamente con altre tradizioni e culture, in primo luogo musicali ma non solo (tanto da esser stato definito da Luca Cerchiari, ad esempio, come il “prodotto di una poetica bianca e di un’estetica nera”, per studiare il quale occorrerebbe tener presenti sia “le fonti africane” che “le fonti europee, ‘colte’ e ‘popolari’”, sia “le fonti nordamericane e poi statunitensi” che “la teoria specifica”, sia “le relazioni con la musica popular e colta del Novecento” che “il contributo alla musicologia”), il jazz, nei suoi vari linguaggi, viene oggi studiato nei Conservatori, approfondito in insegnamenti presso diversi corsi di laurea, discusso in varie riviste specialistiche, presentato al vasto pubblico tramite lavori di carattere divulgativo, analizzato in articoli e libri sia quanto alla sua storia che quanto alle sue molteplici pratiche e tecniche, e infine (e soprattutto, ovviamente) suonato.
A testimonianza di tutto ciò è possibile citare, sul piano della scrittura, la proficua tendenza, che sembra caratterizzare il nostro Paese negli ultimi anni, alla pubblicazione di lavori di un certo rilievo dedicati al jazz, tanto in forma di testi originali quanto in forma di traduzioni di testi stranieri. A questo proposito, è possibile citare opere come quelle di Ted Gioia (L’arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea, 2007; Storia del jazz, 2013; Gli standard del jazz. Una guida al repertorio, 2015), Alyn Shipton (Nuova storia del jazz, 2011), Nat Hentoff e Nat Shapiro (Hear Me Talkin’ to Ya. La storia del jazz raccontata dagli uomini che l’hanno fatta, 2011), Stefano Zenni (Storia del jazz. Una prospettiva globale, 2012), Eric J. Hobsbawm (Storia sociale del jazz. Una rivoluzione di suoni, 2013)o Joachim E. Berendt e Günther Huesmann (Il libro del jazz. Dal ragtime al XXI secolo, 2015). Ciò, naturalmente, giusto per limitarsi qui ad alcuni esempi e tacendo, fra gli altri, sui lavori interessanti dedicati a singole figure del mondo jazz, sia sotto forma di biografie o autobiografie, sia sotto forma di studi monografici a carattere ricostruttivo e/o interpretativo. Il quadro che ne emerge è chiaramente quello di un approccio al jazz molto variegato, molteplice, versatile, plurale ma, comunque, impostato in modo serio e competente, basato su un background scientifico e dotato di obiettivi chiari e precisi. Particolarmente preziosi, sotto questo punto di vista, possono essere alcuni testi volti a far luce sulla rilevanza anche teorica, per così dire, che la pratica del jazz può avere, in particolare (ma non solo) per il chiarimento della nozione centrale per la comprensione di questa specifica forma espressiva, cioè quella di improvvisazione, sulla quale si vedano ad esempio i contributi di Davide Sparti (Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, 2005), Vincenzo Caporaletti (I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale, 2007), Giovanni Guaccero (L’improvvisazione nelle avanguardie musicali, 2013) e Alessandro Sbordoni (Improvvisazione oggi, 2014).
Sul piano del jazz “suonato”, poi, il quadro d’insieme che si può ricavare anche solo da un rapido sguardo è non meno ricco e promettente. Com’è noto, infatti, da molti anni il panorama concertistico italiano appare caratterizzato da un notevole grado di vivacità, intraprendenza e varietà di proposte, capaci di coprire pressoché tutte le aree del multiforme orizzonte musicale riconducibile alla semplice categoria (o, se si vuole, etichetta) denominata “jazz”. Accanto alle normali occasioni rappresentate dai singoli concerti all’interno della programmazione dei diversi locali, non c’è dubbio che a spiccare nella scena concertistica siano i Festival, tanto quelli grandi, ormai consolidati e dotati di grande capacità attrattiva verso il pubblico, quanto quelli più piccoli, talvolta ancora giovani e in fase di sperimentazione, ma proprio per questo caratterizzati spesso da notevoli capacità ricettive verso quanto di più nuovo, originale e “frizzante” viene proposto sulla scena jazz italiana e anche internazionale. Un Festival che sembra corrispondere appieno a quest’ultima descrizione è il Paradiso Jazz Festival, svoltosi nel periodo 13 aprile/18 maggio presso il Circolo Arci di San Lazzaro di Savena (Bologna). Istituzione relativamente recente, nata e sviluppatasi anche in collaborazione con il Bologna Jazz Festival, dopo alcune stagioni di avvio caratterizzate comunque dalla presenza di qualche grande nome (Archie Shepp ed Eddie Gomez nel 2008; Miroslav Vitous e Kenny Barron nel 2009; Mike Mainieri nel 2010 e Mike Stern nel 2011; Randy Brecker e Oz Noy nel 2012; Wallace Roney nel 2012 e Avishai Cohen nel 2014) accanto a figure magari meno note ma in ogni caso interessanti, il Paradiso Jazz Festival sembra aver raggiunto quest’anno lo stadio della piena maturità, grazie a un programma composto da cinque concerti di prima grandezza e improntato alla filosofia, nelle parole dei suoi stessi organizzatori, dell’attenzione “alla tradizione jazzistica storica” coniugata all’apertura “nei confronti delle novità del linguaggio jazzistico contemporaneo e delle sue derivazioni”.
L’apertura del Festival è stata affidata a The Bad Plus, trio statunitense originario di Minneapolis che, coadiuvato per l’occasione da un terzetto di ospiti d’eccezione come Tim Berne al sax contralto, Sam Newsome al sax soprano e Ron Miles alla tromba, aveva messo in programma una rilettura di Science Fiction, un lavoro del 1971 di Ornette Coleman. I Bad Plus rappresentano una formazione stimolante e, per così dire, anticonformista, pur nell’apparente classicità della line-up: pianoforte, contrabbasso e batteria. Per certi versi, è forse possibile accostarli ad altre formazioni – come ad esempio E.S.T. (il trio del compianto pianista svedese Esbjörn Svensson), il Brad Mehldau Trio, il Vijay Iyer Trio, il Craig Taborn Trio o il Matthew Shipp Trio – che, seppure in maniere diverse e ciascuna seguendo la propria via e la propria autonoma poetica, si sono impegnate nel medesimo compito, cioè quello di ripensare e, per così dire, contaminare e attualizzare (ossia rielaborare anche alla luce di stimoli che scenari attuali, contemporanei, e non necessariamente jazzistici, possono fornire) una “istituzione” come la line-up del trio, fra le più tradizionali e consolidate nel campo del jazz. Nel caso dei Bad Plus ciò si traduce, fra le altre cose, in un’inesausta volontà di sperimentare nuove combinazioni fra jazz moderno ed elementi tratti da altri linguaggi musicali, come testimoniato da un lato da alcune riletture decisamente efficaci di brani pop-rock e, dall’altro, dall’ambizioso progetto di reinterpretazione della stravinskijana Sagra della Primavera commissionato dalla Duke University di Durham (North Carolina).
Al concerto dei Bad Plus è seguito, nella data del 20 aprile, quello di una formazione ormai storica come gli Oregon, con i consueti Ralph Towner alla chitarra acustica e alle tastiere, Paul McCandless all’oboe e al sax soprano, e Mark Walker alla batteria e alle percussioni (nel ruolo che, in passato, era stato gloriosamente ricoperto già da Collin Walcott e Trilok Gurtu), e con Paolino Dalla Porta al contrabbasso in sostituzione di Glen Moore, membro storico della band recentemente dimissionario. Formatisi nel 1970 e mantenutisi costantemente in attività da allora (con l’eccezione di una breve pausa di riflessione successiva alla tragica scomparsa di Walcott nel 1984 in un incidente d’auto durante un tour), pionieri di quella che avrebbe preso successivamente il nome di world music e capaci di declinare in maniera estremamente intelligente e mai banale (a differenza di altri…) questa formula fondata sulla fusione tra materiali e stilemi musicali desunti da jazz, folk, musica classica, avanguardie e, soprattutto, culture musicali non occidentali, gli Oregon hanno letteralmente incantato il pubblico con un’esibizione estremamente elegante ma per nulla manieristica, bensì ricca di calore e passione musicale. Da segnalare, in particolare, nel repertorio proposto dalla band agli ascoltatori bolognesi, le versioni molto efficaci di Beppo, composizione di Ralph Towner originariamente contenuta nell’album del 1992 Always, Never and Forever, e di Witchi Tai To, celebre brano del sassofonista statunitense di origini nativo-americane Jim Pepper, già oggetto di rilettura da parte di Jan Garbarek e altri ancora, che gli Oregon hanno scelto come brano conclusivo nel bis e di cui hanno offerto una reinterpretazione molto sentita.
Senza nulla togliere agli altri eventi in programma, il terzo concerto ha rappresentato forse il momento più alto del Festival, con l’esibizione di Prism, una delle ultime formazioni capitanate dal leggendario contrabbassista e compositore Dave Holland (già membro del gruppo di Miles Davis alla fine degli anni Sessanta e, quindi, passato nel corso dei decenni attraverso qualsiasi tipo di esperienza musicale: dal free alla fusion a formazioni jazz in duo, trio, quartetto, quintetto, sestetto, ottetto e big band). I Prism, che oltre a Holland comprendono anche Kevin Eubanks (chitarra elettrica), Craig Taborn (Fender Rhodes e pianoforte) ed Eric Harland (batteria), hanno proposto alcuni brani tratti dal loro acclamato album omonimo del 2013, insieme ad altre composizioni che, dato il loro elevato livello, ci si augura possano costituire il materiale per il secondo disco della band. Tra i brani pubblicati nel lavoro d’esordio di due anni fa, hanno spiccato una quanto mai intensa e ricca di pathos The Empty Chair, composizione lenta, lunga e dinamicamente in crescendo di Holland, e le versioni quanto mai energiche (persino più che su disco, dove già questi brani risaltavano per il loro vigore jazz-rock) di The Watcher ed Evolution, arricchite da interventi estremamente incisivi di Taborn e Eubanks, anche in dialogo fra loro, e dal drumming di Harland, incalzante e poderoso ma al contempo ben strutturato e capace di autolimitarsi, quando necessario, per porsi al servizio delle esigenze della composizione (capacità di cui Harland ha dato spesso e magistralmente prova, del resto, anche nella band di Charles Lloyd in cui milita da alcuni anni, rilevandosi come uno dei batteristi più versatili dei nostri giorni). Il leader si è prodotto, come di consueto del resto, in almeno un paio di assolo da antologia, oltre a ribadire la sua straordinaria capacità di “reggere” l’intera band, perennemente “in movimento”, grazie alla precisissima ma mai statica o banale pulsazione del suo basso anche su strutture metriche dispari di notevole complessità. In generale, si può forse dire che Prism raccolga ottimamente l’eredità di un certo tipo di discorso jazz elettrico, molto robusto ma al contempo sofisticato, già sperimentato da Holland con formazioni come il trio Gateway (con altri due maestri come John Abercrombie e Jack DeJohnette) o il suo quartetto responsabile dell’eccellente Extensions del 1990, declinando però tale eredità in maniera originale e seducente, vista anche l’autonomia e la grande personalità dei partner che affiancano Holland in tale progetto.
Dopo l’esuberanza armonica, ritmica e timbrica di Prism il programma del Festival prevedeva il concerto di un duo ormai consolidato e caratterizzato da un mood molto lirico, introspettivo e meditativo: ovvero, il duo composto da Paolo Fresu (tromba, flicorno, effetti) e Daniele Di Bonaventura (bandoneon). Responsabili degli album Mistico Mediterraneo e In maggiore, entrambi usciti su etichetta ECM (rispettivamente nel 2010 e 2015), i due jazzisti italiani sanno dare vita insieme a un affascinante itinerario capace di fondere in maniera equilibrata suggestioni diverse, mostrando di saper valorizzare gli apporti provenienti dalla musica jazz, etnica ed elettronica, ed evidenziando un gusto e un livello di interplay assolutamente di rilievo. Il Festival, infine, si è chiuso con il concerto di una formazione guidata da Dave Weckl, batterista straordinario, degno erede di strumentisti leggendari come Steve Gadd o Peter Erskine per l’assoluta precisione e la grandissima versatilità del suo drumming, e ormai da molti anni assurto egli stesso al ruolo di vero e proprio maestro. Nonostante ciò, va detto che il concerto della Dave Weckl Acoustic Band (composta, oltre che dal leader, da Gary Meek al sassofono, Makoto Ozone al pianoforte e all’organo Hammond B3, e Tom Kennedy al contrabbasso anziché, come gli è più comune, al basso elettrico) è stato forse il meno riuscito dell’intero programma del Festival. Ciò, naturalmente, non per quanto riguarda le capacità tecnico-strumentali dei singoli musicisti, che non possono essere definite in altro modo se non “eccellenti”, bensì semmai per il livello dell’interplay nel quartetto (che, pur essendo apparso complessivamente ben affiatato e rodato, non ha saputo spingersi tuttavia oltre questa soglia, suscitando talvolta nell’ascoltatore l’impressione che i musicisti, tutti grandi virtuosi dei propri strumenti, si muovessero per così dire ciascuno nella propria sfera isolata, più che ascoltarsi e coinvolgersi reciprocamente nell’evento sonoro in atto) e, più in generale, per la proposta musicale stessa. Una proposta musicale incapace di andare oltre un certo modo di “giocare” col rimescolamento di jazz, blues, pop, latin e altre fonti musicali, che il leader sembra aver fatto proprio fin dai tempi della sua giovanile militanza come batterista delle Akoustic Band ed Elektric Band di Chick Corea e che però, oggi, appare a tratti un po’ manieristico e tendente a una sorta di easy listening sofisticato, certamente gradevole, ma scarsamente incisivo e, per così dire, privo di rischi – la capacità di correre rischi essendo forse la componente alla base della buona musica di ogni ordine e grado.