Il colonialismo non è una macchina pensante,
non è un corpo dotato di ragione.
È la violenza allo stato di natura e non può piegarsi
se non davanti a una violenza ancora maggiore.
Frantz Fanon
Perché Fanon? Perché ora? Domande di delicata intensità, quasi supplica vertiginosa, già poste da Stuart Hall quasi vent’anni fa e ancora oggi attuali e necessarie. Perché leggere e pensare con Fanon, confrontarsi con il suo pensiero?
Frantz Fanon, psichiatra, filosofo e scrittore nato nel 1925 in Martinica sotto dominazione francese, muore il 6 dicembre del 1961 a soli 36 anni negli Stati Uniti d’America. Nel 1953, dopo essere stato assegnato a un ospedale in Algeria, inizia la sua pratica ‘rivoluzionaria’, prima all’interno della sua stessa disciplina, studiando le malattie mentali del colonizzato in relazione alle dinamiche disumane dell’alienazione colonialista; in seguito, nel 1956, accusato di relazioni con il Fronte di Liberazione Nazionale d’Algeria, dovrà lasciare il territorio algerino e si rifugerà a Tunisi dove inizierà ad elaborare un modello teorico-politico tenendo corsi all’Università di Tunisi e collaborando con il Governo Provvisorio della Repubblica Algerina. Una settimana dopo la sua morte, la sua opera più radicale e influente, I dannati della terra, è data alle stampe e immediatamente confiscata e vietata in Francia. In questo libro, punto di riferimento imprescindibile del pensiero postcoloniale, Fanon esamina il fenomeno storico della decolonizzazione a partire da un’attenta analisi della violenza come discorso sulla modernità. Il non-rapporto colonizzatore/colonizzato viene impugnato da Fanon come ostacolo primario alla creazione di uomini nuovi, al di fuori di qualsivoglia legittimazione; Fanon mostra la necessità di configurare un nuovo umanesimo universale che si stagli furiosamente contro il paesaggio iniquo e inumano delle violenze coloniali. Violenze legalizzate e imperialistiche, imperniate su quel rapporto servo-padrone che ha denaturalizzato e addomesticato gli uomini e le donne indigene trasformandoli in corpi passivi, senza valore e senza storia.
L’urgenza del pensiero critico di Fanon è stata restituita e riattualizzata di recente dal regista svedese Göran Hugo Olsson (già autore del documentario The Black Power Mixtape 1967-1975, 2011), nel film-saggio Concerning Violence: Nine Scenes from the Anti-Imperialistic Self-Defense. Presentato in premiere mondiale nel World Cinema Documentary Competition del Sundance Film Festival nel 2014, Concerning Violence è narrato, nella versione in inglese, dalla cantante, rapper e attrice americana Ms. Lauryn Hill e si apre con una ‘prefazione’ della studiosa indiana Gayatri Chakravorty Spivak, già autrice di Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza e conosciuta per saggi critici importanti come ‘Can the Subaltern speak?’ e per la traduzione in inglese e l’introduzione di De la grammatologie di Jacques Derrida.
Göran Olsson, in una intervista al Guardian, ammette di aver concepito il film per un pubblico europeo e nord-americano, con l’intento di riaccendere l’interesse per il pensiero di Fanon attraverso una trasposizione cinematografica de I dannati della terra. Attraverso un metodo che il regista definisce ironicamente karaoke-style, le parole di Fanon, lette da Lauryn Hill, appaiono in sovrimpressione alle immagini scelte da Olsson. Il film si sviluppa in nove scene o capitoli (indipendenti rispetto alla struttura del libro) che indagano il processo di decolonizzazione modulando un viaggio febbrile nell’Africa continentale (specialmente in territori lusofoni come Angola e Mozambico, ma anche in paesi a dominazione britannica come la Rhodesia) e mettendo a nudo un passato ingombrante ed ignobile attraverso un montaggio feroce, a volte clinico. Il film inizia con una brevissima sequenza di un ragazzo africano intento a pulire le scarpe di un soldato, seguita da una brevissima scena in cui soldati occidentali sorseggiano birra e poi un taglio su elicotteri in volo sopra un paesaggio tropicale; tra rimandi iconografici quasi diretti a Full Metal Jacket e Apocalypse Now, dal punto di vista aereo (coloniale) il film si sposta a terra, in mezzo alla foresta pluviale, con la camera che segue i gruppi armati del MPLA in Angola nel 1974. Olsson alterna filmati d’archivio che non fungono solamente da materiali complementari alle riflessioni di Fanon, ma ne espandono la criticità aumentando gli strati di significato; come ad esempio nel capitolo quarto ‘A World Cut in Two’, dove il conflitto tra colonizzatore e colonizzato viene affrontato a livello urbano e spaziale, giustapponendo in maniera dialettica luoghi, volti e condizioni sociali opposte e che si conclude con un’intervista a Robert Mugabe, che afferma la convinzione di una società integrata, in cui i privilegi dei bianchi vengano annullati e parificati a quelli degli abitanti indigeni (Mugabe dal 1980 in poi diventerà presidente e dittatore assoluto dello Zimbabwe, già Rhodesia). Nel capitolo successivo, ‘Lamco. Liberia 1966’, i lavoratori indigeni che scioperano nella miniera della compagnia Lamco di proprietà svedese-americana sono contrapposti ai soldati indigeni dell’esercito del presidente Liberiano William Tubman, disposto a usare la forza per difendere gli interessi e i privilegi dei colonizzatori. Olsson, quasi con metodo benjaminiano, crea immagini dialettiche in cui la Storia si frantuma a contatto con la realtà filmica, mostrando le dinamiche e le contraddizioni di quel non-rapporto colonizzatore/colonizzato attraverso una concatenazione scrupolosa, attuando un vero e proprio esperimento di riscrittura del testo di Fanon.
Anche se il film non concede allo spettatore informazioni o contestualizzazioni storiche precise, l’effetto principale ottenuto da Olsson è quello di disorientare lo spettatore, soprattutto in quei capitoli dove la banalità del male emerge in tutto il suo senso di repulsione; nel terzo capitolo intitolato ‘Rhodesia’, ad esempio, un normalissimo e banalissimo cittadino britannico insiste con disarmante naivetè sul fatto che i grooks (termine spregiativo usato dai coloni nei confronti dei nativi) abbiano subito una trasformazione e pongano richieste ai padroni bianchi. O, nel sesto capitolo ‘That Poverty of Spirit’, lo spettatore subisce attonito l’intervista di una coppia di svedesi felicemente fiera della propria missione cristiana e di come essa abbia, come obiettivo principale, quello di costruire e fondare innanzitutto una chiesa, più che opere chiaramente più utili come scuole od ospedali. Le parole di Fanon qui risuonano in maniera definitiva: il colonialismo è un corpo irrazionale che impone violenza (fisica, sociale, psicologica). Nelle parole e nei visi di questi uomini comuni, abituati all’impossibilità di riconoscere la dimensione storica in cui vivono, la violenza non è solo catastrofe. Essa è, ancora una volta, la fine dell’uomo che si ripete all’infinito come in un girone infernale dantesco. Olsson presenta anche l’altra faccia della violenza dei coloni: non come eccezione ma come regola di un abominio ordinario, comune, sempre in potenza, sempre pronto a riaffiorare.
Olsson, con Fanon, invoca l’urgenza di ripensare la decolonizzazione come processo inverso, un processo che ci ri-guarda da vicino, che riguarda noi europei in primis (basterebbero le vicende politiche europee e della Grecia di questi giorni come esempio rilevante). Per spiegare questo punto, vorrei soffermarmi sulla fine del film di Olsson e, di conseguenza, sulle parole di Fanon. Quest’ultimo infatti chiude la sua riflessione nel capitolo ‘Della violenza’, con una sorta di appello e chiamata nei confronti non dei governi, ma dei popoli europei:
Agitando il Terzo Mondo come una marea che minaccerebbe di ingoiare tutta l’Europa, non si arriverà a dividere le forze progressive che intendono condurre gli uomini verso la felicità. Il Terzo Mondo non intende organizzare una immensa crociata della fame contro tutta l’Europa. Ciò che esso si attende da quelli che l’han mantenuto in schiavitù per secoli, è che lo aiutino a riabilitare l’uomo, a far trionfar l’uomo dovunque, una volta per tutte. Ma è chiaro che noi non spingiamo l’ingenuità fino a credere che ciò si farà con la cooperazione e la buona volontà dei governi europei. Questo lavoro colossale che è quello di reintrodurre l’uomo nel mondo, l’uomo totale, si farà con l’aiuto decisivo delle masse europee che, devono riconoscerlo, si sono spesso allineate circa i problemi coloniali sulle posizioni dei nostri comuni padroni. Per questo, bisognerebbe anzitutto che le masse europee decidessero di svegliarsi, si scuotessero il cervello e cessassero di giocare al gioco irresponsabile della bella addormentata nel bosco. (I dannati della terra, Einaudi, 2007)
Eccolo, il lavoro colossale e radicale invocato da Fanon, matrice complessa del suo pensiero (spesso ridotto, in maniera semplicistica, a pura apologia della violenza): reintrodurre l’uomo nel mondo, un uomo totale che proclama un universalismo anti-imperialistico e anti-capitalistico. È chiaro come questo lavoro, come ci ricorda Giacomo Marramao a proposito del pensiero critico postcoloniale nel suo La passione del presente, debba tendere a ‘ricostruire il grande disegno dell’universalismo moderno, a partire, non dalla logica dell’identità, ma dal criterio della differenza’. Ciò significa riallineare i popoli attraverso una pratica di solidarietà chiasmatiche, singolare e prezioso concetto coniato dallo stesso Marramao, che si proietti al di là di un’ibridazione interculturale e un’accumulazione di politiche della tolleranza, in quanto l’identità non sussiste se non come relazione a ciò che è altro, diverso. Il risveglio della bella addormentata nel bosco è un risveglio brusco ed improvviso da quel sonno della ragione che coincide con le strategie imperialistiche del colonialismo nelle forme del passato ma anche nelle forme attuali del presente. Il colonialismo, ci ricorda Fanon, non è una macchina pensante, è una macchina che produce un ordine di esclusione e separazione, è management, gestione inumana delle risorse umane, contabilità dei corpi, amministrazione della violenza.
[Si noti, en passant, come il Pasolini terzomondista avesse già accolto il pensiero di Fanon col suo metodo di contaminazione temporale. Nei suoi Appunti per un’Orestiade Africana (1968), Pasolini traccia un continuum paradossale per puntare al cuore della tradizione umanistica europea identificata con la tragedia greca e la nascita della democrazia come forza progressiva, sovrapponendola alle lotte del processo di decolonizzazione in Africa. Il tutto non come pastiche o gioco postmoderno ma con l’intento di decostruire la rappresentazione dell’Occidente stesso. Con gli Appunti, Pasolini tenta l’impossibile, attraverso una poetica trasfigurante, fallendo à la Beckett in maniera esemplare ma offrendoci, in uno squarcio di non-finito, un modus operandi straordinario.]
Il tentativo di riscrittura da parte di Olsson opera anche su livelli non contemplati nel testo stesso di Fanon; come sottolinea Spivak nella prefazione, il film di Olsson delinea il compito di ripensare la decolonizzazione a partire dalla criticità del pensiero gender e della differenza sessuale. Nel capitolo 7 infatti, seguiamo un gruppo di donne ribelli del FRELIMO (Fronte di Liberazione del Mozambico) e ascoltiamo le loro canzoni e le loro speranze, il loro ruolo nella lotta di liberazione per l’indipendenza dalla dominazione portoghese del proprio paese. In questa prospettiva, una delle immagini più intense del film, è la silenziosa sequenza della black Venus (così denominata da Spivak): una giovane donna con un braccio amputato, che rimanda all’immagine della Venere di Milo ma, allo stesso tempo, mentre allatta il proprio figlio, anche all’immagine di una Black Madonna. Donna-come-madre e donna-come-oggetto, concezioni appartenenti a quella ‘cultura dello stupro e della violenza’, non circoscritta solo ai tempi di guerra, ma che è sempre dolorosamente presente anche in tempo di pace.
Il processo invocato da Fanon per la creazione di nuovi esseri umani è purtroppo tuttora in totale divenire; non si è estinto con il fenomeno storico della decolonizzazione. Al contrario, si è radicalmente trasformato: (ri)leggere Fanon, sulla scia di Olsson, significa anche ripensare i meccanismi di narrazione dell’euro-logocentrismo, contestarli e, in ultima istanza, decolonizzarli.