“Bisogna che la memoria sia una forza, non un fardello” (Hannah Arendt)
A prescindere dal ruolo dell’improvvisazione, sembra che per suonare jazz sia necessaria una buona memoria. Questa è indispensabile per ricordare frasi, schemi, “patterns”, forme grammaticali e sintattiche che governano l’organizzazione del discorso musicale, modelli, stili e musicisti scelti come riferimento. E che per suonare jazz sia necessario ricordare molte cose e bene è sostenuto non solo dagli studenti delle sempre più numerose scuole e università dove il jazz viene insegnato, desiderosi di certezze e rassicurazioni, ma anche da molti jazzisti, orgogliosi delle conoscenze e del mestiere acquisito. Ora, senza disconoscere il ruolo della memoria, è proprio sicuro che le cose debbano stare così? Non c’è il rischio che l’improvvisazione, imbrigliata in schemi, forme e strutture precostituiti, perda fin dall’inizio la sua libertà, apparendo come vuota e manieristica riproposizione di formule appartenenti al passato?
Contro l’idea di jazz come pura e semplice “conservazione” del passato, suffragata oggi da Wynton Marsalis e da tutta una schiera di jazzisti “conservatori”, vorrei suggerire un’idea differente di memoria. Non, si badi bene, l’abolizione di ogni memoria. Ma una memoria diversamente orientata. Non al passato ma al futuro. Perché questo avvenga bisogna innanzitutto destrutturare il passato, fare riferimento non a strutture preesistenti ma a nuclei di esperienza, immagini, atmosfere appartenenti all’area del vissuto pre-musicale. Il passato che così emerge non si compone di oggetti e relazioni strutturate, ma di punti-esperienza costantemente trasformabili e rivedibili, in una sorta di dimensione fluida, indefinita, suscettibile di infiniti sviluppi. Questa dimensione ha in sé straordinarie potenzialità generative, in grado di “spingere” e far muovere la musica verso direzioni impensate. Compito dell’improvvisazione sarà quello di esplorare queste potenzialità, interpretando la materia fluida ed esplosiva del vissuto e incanalandola in forme e strutture. E, dal momento che sarebbe ingenuo pensare a una improvvisazione senza memoria, è qui che si chiarisce una nuova natura dell’improvvisazione (e della memoria): improvvisazione come memoria in atto, ricostruzione libera e intenzionale del passato a partire da un’esperienza ancora informe. Un’idea di improvvisazione che serve, tra l’altro, a conferirle importanza e dignità: non più semplice riempimento e integrazione di strutture preesistenti, ma re-invenzione e ri-costituzione di quel passato a partire dall’esperienza vissuta. E anche una idea che aiuta a superare la vecchia e annosa disputa fra sostenitori dell’avanguardia e della tradizione. In questa maniera di concepire l’improvvisazione come memoria attiva, come ricostruzione e ricreazione del passato a partire da cellule di esperienza, è difficile infatti distinguere il nuovo dal vecchio in improvvisazioni che riflettono comunque e sempre la gioia e l’emozione della scoperta.
Prendiamo una forma musicale come il blues. Il blues può essere inteso come una forma codificata di 12 battute con una ben definita struttura armonica e una scala di riferimento (la scala blues). Ma può anche essere inteso come un particolare “mood” o modo di sentire, legato all’ambivalenza di modo maggiore e minore. Si può provare ad improvvisare su quel particolare clima non obbedendo alla struttura classica del blues ma ricostruendola, per così dire, a memoria. Potrebbero venire fuori dei risultati interessanti anche se difficilmente classificabili, strani innesti o combinazioni con altre forme musicali… Prendiamo ancora il jazz-waltz. Nel corso della storia del jazz l’improvvisazione sul ritmo di tre quarti si è affermata abbastanza tardi, con Sidney Bechet, ma si è poi codificata secondo tre o quattro modalità ritmiche prevalenti. Possiamo aderire a una di queste modalità o tornare alla matrice originaria del valzer, quella di una danza in tre tempi con l’accento forte sul primo seguito da due accenti deboli. Se quello che conta è il clima, l’impulso di una danza ternaria, non è più necessario rispettare i codici del jazz-waltz, al limite neppure il tempo ternario. Basta un accenno, una strizzata d’occhi e il clima del valzer è creato. Non per girare in tondo sul ritmo di valzer, ma per suggerire e sviluppare chissà quali misteriosi sviluppi. La memoria che entra in gioco qui non è memoria del jazz-waltz come forma specifica, come non era prima memoria specifica del blues, ma memoria fluida, aperta, nella quale può entrare di tutto. E allora da questa memoria possono emergere forme, sviluppi, commistioni le più ardite e impensate.
Il blues e il jazz-waltz sono ancora forme musicali, anche se memorizzate secondo un codice pre-musicale. La loro capacità di generare altre forme è proprio legata a questa apertura del codice. Se ricordassimo tutte le regole che governano queste forme, sarebbe difficile allontanarsi realmente da esse e l’improvvisazione non prenderebbe mai il volo. Ma possiamo considerare anche immagini, forme, emozioni extra-musicali e vedere qual è la loro capacità di generare improvvisazione, di s-muovere la memoria ricombinandone i frammenti in modo nuovo. Non tutte sono adatte al jazz. Si potrebbe addirittura ipotizzare un catalogo di esperienze appropriate fra le quali, per esempio: 1) sospensione ed attesa (respiro trattenuto); 2) proiezione in avanti (treno in corsa); 3) sviluppo (marea che monta); 4) apertura (ventaglio che si apre), ecc. Altre esperienze, più statiche o ripetitive, vanno scartate invece in quanto non compatibili col jazz. Una volta individuate quelle esperienze e le immagini e i vissuti corrispondenti, esse potranno essere interpretate in modi differenti o contradditori.
Una situazione di sospensione ed attesa, ad esempio, potrà generare una serie di frasi cromatiche in stile “bop” interrotte da silenzi, oppure un’esplosione prolungata e quasi intollerabile di energia come
in certi assolo di Cecil Taylor e, per quanto riguarda il tempo, potrà appoggiarsi a un metro costante o aver luogo su tempo “free” o rubato. Ma questi sono solo alcuni dei molti modi in cui interpretarla. Si potrebbe prendere la struttura armonica di uno standard, dove la consuetudine e la tradizione ci porterebbero a suonare “sul tempo” e prolungare all’infinito l’improvvisazione su un accordo o singoli blocchi di accordi, alternando frammenti tonali ad altri del tutto atonali. A sua volta, l’esperienza denominata come “apertura” può essere interpretata cinestesicamente come graduale apertura degli intervalli melodici o accordali, timbricamente come realizzazione di un suono via via più pulito ed aperto, tematicamente come l’apparire di un tema dal caos degli inizi. Tutte queste situazioni sono stimolate dall’esperienza assunta come base di partenza, che ha l’unica funzione di favorire e stimolare la memoria. Quest’ultima, non più incanalata in regole, schemi, strutture predefinite, esplode letteralmente senza curarsi, nel corso di questa esplosione, del rispetto di stili e convenzioni.
Naturalmente, è difficile stabilire in anticipo dove andremo. Non si può prevedere come agirà la memoria inconscia. Questa potrebbe anche riportarci nell’ambito della tradizione, ritrovata come qualcosa di nuovo. Ma il caso più probabile è che ci porti a contaminazioni, innesti, sintesi che solo il meccanismo inconscio delle libere associazioni può giustificare. Tanghi in chiave blues, valzer free, standard atonali, musica klezmer in salsa free, musica libanese, araba, indiana in salsa jazz… Di tante cose oggi è piena la memoria del musicista in un mondo globalizzato che sintesi un tempo giudicate kitsch o improbabili possono diventare legittime. Dobbiamo solo toglierle limiti e condizionamenti e, soprattutto, individuare la chiave. La chiave è nella nostra esperienza, passata e presente. Ogni memoria ha una chiave. Spetta a noi, o a chi a volte ci conosce meglio di noi stessi, aiutarci a trovarla e, allora, la memoria non sarà solo fonte di nostalgia e ricordi, ma reinvenzione del passato e stimolo per il futuro.