Il quinto Vangelo

 

 

Come parlare di Friedrich Nietzsche – oggi, nell’anno 2000, nel centesimo anniversario della sua morte fi sica, agli albori dei primi del millennio che, come lui aveva affermato, sarebbero dovuti essere datati dopo di lui? Dovremmo dire che lui antistà a noi, sofferente e grande, come il secolo a cui appartenne la sua intera esistenza e da cui lui irruppe nell’eternità della gloria autoriale? Dovremmo seguirlo nel suo giudizio, secondo cui lui non era un uomo, bensì dinamite? Dovremmo evidenziare ancora una volta la peculiarità della sua «storia effettiva»: il fatto che mai un autore avesse enfatizzato così tanto la distinzione e attratto la volgarità? Dovremmo diagnosticare, che con lui si costituì l’era del narcisismo, inizialmente manifestatosi come «insurrezione delle masse», poi come «grande politica» collettivistica ed infine come dittatura del mercato globale? Dovremmo riconoscere che con lui la storia della filosofi a accademica finì e la storia dell’arte del pensiero iniziò? O dovremmo desistere dal fare commenti e leggere, e rileggere, Nietzsche? Io vorrei, signore e signori, descrivere l’evento-Nietzsche come una catastrofe nella storia del linguaggio e fornire la prova alla tesi secondo cui il suo intervento come nuovo-evangelista letterario costituisce una spaccatura nei rapporti d’intesa della vecchia Europa. Assieme a Marshall McLuhan, avanzo l’ipotesi che i compromessi comunicativi tra persone nelle società – soprattutto, ciò che sono e ciò che di solito provocano – hanno un significato autoplastico. Essi danno ai gruppi la ridondanza in cui possono risuonare. Imprimono loro il ritmo e il modello in base a cui riconoscersi e attraverso cui reiterarsi quasi perfettamente. Generano consenso inscenando il perpetuo ritorno del medesimo, come in una litania. Le lingue sono strumenti del narcisismo di gruppo, che vengono suonate in modo tale da sintonizzarsi e risintonizzarsi sul musicista; esse lasciano risuonare i loro parlanti nella caratteristica tonalità dell’auto-eccitazione. Sono sistemi di melodie per il riconoscimento, che illustrano già gran parte dell’intero programma. Non sono usate primariamente per ciò che oggi è chiamato passaggio di informazioni, bensì servono alla formazione di gruppi di corpi comunicanti. Le persone possiedono il linguaggio così da poter parlare dei loro pregi – e, non da ultimo, dell’ineguagliabile merito di essere capaci di parlare dei propri pregi nella propria lingua. In primo luogo, e per lo più, sono le genti a non preoccuparsi di attirare la reciproca attenzione sullo stato dei fatti, anzi, incorporano lo stato dei fatti in una gloria. I differenti gruppi storici di parlanti, tribù e popoli, sono entità auto-elogiative che praticano il loro inconfondibile idioma come se fosse una competizione psicosociale per ottenere vantaggi a proprio favore. In questo senso, prima di diventare tecnico, tutto il parlare serve all’auto-innalzarsi e all’auto-onorarsi dei parlanti; persino i discorsi tecnici, seppur in maniera indiretta, sono tenuti a dare lustro al tecnico. Le lingue dell’auto-critica sono supportate anch’esse da una funzione di auto-innalzamento. Il masochismo stesso proclama le lodi dei tormentati. Quando è utilizzato conformemente al suo narcisismo primario costitutivo, il linguaggio dice solo e sempre una cosa: che al parlante non poteva accadere nulla di meglio al mondo che essere proprio se stesso, e testimoniare in questa lingua, da questo luogo, il privilegio di essere nella propria pelle. A tal proposito v’è da notare, in una prospettiva storica, che il narcisismo primario diviene osservabile inizialmente solo in gruppi etnici e regni, e solo più tardi, con l’alba dell’età moderna, diventa il segno distintivo di quelle nazioni che abbondano di classici e di armi. Per quanto riguarda l’individuo, questi ha dovuto attendere più a lungo prima di poter far emergere dall’ombra dei peccati la propria autoaffermazione – nelle vesti di amour-propre nel XVIII secolo, come santo egoismo nel XIX secolo, come narcisismo nel XX e come auto- par excellence progettazione nel XXI. Nietzsche è stato probabilmente il solo teorico del linguaggio dei tempi moderni ad avere ben in mente queste condizioni di base; egli sosteneva che la preghiera derivasse dall’euforia di un popolo consapevole di sé: «proietta il suo piacere di sé […] in un essere al quale possa rendere grazie per questo. […] Si è riconoscenti per se stessi: perciò si ha bisogno di un Dio». (F. Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi Milano 1988, p. 18) E, più in generale, in una precedente occasione, possiamo leggere nel suo principale testo: «Il parlare è una follia bella: con esso l’uomo danza su tutte le cose». (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 2000, p. 255). Nella ricostruzione del sentimento religioso dalla gratitudine auto-referenziale, è il linguaggio a essere determinato come un medium, permettendo ai parlanti di dire ad alta voce le ragioni del loro essere superiori. Di conseguenza la professione di fede al proprio modus vivendi è il più nobile atto linguistico. È il gesto eulogistico. In quanto derivate dal distinguere, le azioni del parlare e del silenzio vengono intese come modalità di un’esaltazione esilarante che professa se stessa. In entrambe, si diffonde la volontaria auto-dichiarazione di successo nel perseguimento dell’Essere – nel parlare, come manifestazione del diritto e del potere; e nel silenzio, come quiete consentita dal presupposto secondo cui non si necessiterebbe di alcuna difesa.

Risulta piuttosto chiaramente, signore e signori, che già questo rudimentale rimando ad una linguistica del giubilo o dell’autoaffermazione è in netta contrapposizione con tutto ciò che è stato detto e pensato dalla communis opinio teorizzante del XX secolo in merito ai linguaggi, incurante di mostrarsi come critica ideologica o come filosofia analitica, come teoria del discorso o come psicoanalisi, come dottrina dell’incontro o come decostruzione. Nel primo caso, sono state smascherate tutte le illusorie generalizzazioni dei linguaggi della borghesia; nel secondo, è stata restituita la precedenza alle locuzioni del linguaggio ordinario rispetto alle inversioni metafisiche; nel terzo, è stato connesso il gioco linguistico del sapere con le routine del potere; nel quarto caso, è stato scalzato il segno per mezzo del contenuto inconscio dell’espressione; nel penultimo caso l’evento linguistico è stato descritto come risposta che, attraverso la chiamata che altri bisognosi rivolgono a me, viene suscitata o rifiutata; invece l’ultimo caso ha condotto alla prova che, ad imporre la piena presenza del significato in ciò che è detto, si fallisce sempre. In tutti questi casi la lingua viene intesa come un medium del fallimento e del travisamento, magari anche come organo dell’ipersensibilità e della compensazione, del disbrigo di problemi e della terapia. La lingua e il parlato appaiono ovunque come sintomo e problema. Quasi mai sono concepite come supporto di affermazioni e promesse, a meno che non si voglia mantenere l’indole inautentica e fallimentare dei toni festanti e profetizzanti. Chiunque parli con le modalità consentite – borghesi, politiche, accademiche, giuridiche, psicologiche – è sempre in difetto, e corre, invano e senza meta, nello spazio delle ragioni alla ricerca dei mezzi per rimborsare e ridisporre le affermazioni scoperte. Chiunque parli, fa debiti; chi continua a parlare, dice, cercando di estinguerli. L’orecchio viene inoltre educato a non dare credito e ad interpretare la propria avarizia come consapevolezza critica. In quanto seguirà, mi cimenterò nel tentativo di ricapitolare l’idea nietzscheana di linguaggio, della quale Nietzsche stesso abbozzò solamente i princìpi, per poi estenderla, da un punto di vista contemporaneo, nel futuro – per cui mi arrischierò nell’argomentare che la massima di Nietzsche secondo cui «tutta la nostra filosofia è la correzione dell’uso del linguaggio» è carica di significati che vanno oltre tutte le concezioni critiche.

 

Questo tetso costituisce l’introduzione a P. Sloterdijk, il quinto vangelo di Nietzsche, Mimesis, Milano 2015.



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