«Chi avrà mai visto il vento? Né io né tu lo vediamo. Eppure se le foglie di quest’albero sono fatte vibrare, il vento le sta attraversando». Miyazaki lascia trasparire uno dei motivi ispiratori di tutto il suo cinema in queste parole di Jirō, protagonista di Kaze tachinu 風立ちぬ(Si alza il vento, 2013), interrogandosi su ciò che transita nelle infinite forme del vivere senza mai lasciarsi afferrare o trattenere. La presenza invisibile eppure viva ed efficace del vento è anche una potente idea cinematografica che Miyazaki si porta dietro da tempo – l’intera sua opera è intessuta d’aria, di velivoli, di brezze, di una “leggerezza” che è tutto il contrario di ogni frivolo divertimento cartoonesco. L’ultimo film di Miyazaki – ultimo in senso cronologico, ma forse anche in senso definitivo se il regista manterrà la volontà di non realizzarne altri – appare dunque come una condensazione della sua poetica incentrata sul librarsi nel vento; questa volta l’occasione è data nella forma inedita di una storia che si basa sulla vita di un individuo storico, Horikoshi Jirō (1903-1982), creatore del famoso aereo Mitsubishi A6M Zero.
In un’epoca in cui tutto sembra crollare, dalle speranze di progresso civile alla possibilità di costruzione di una società, dai sogni giovanili ai desideri di vivere un lungo e sereno rapporto d’amore, la dimensione del sogno assume una valenza fondamentale, al tempo stesso ricompositiva e critica. Jirō non sogna per fuggire dalla realtà, ma piuttosto per integrarla e costruire in essa qualcosa di importante per sé e per gli altri. Non si abbandona alla dimensione onirica per trovare in essa un luogo isolato, che per qualche istante almeno lo conforti dai dolori del mondo. Il sogno è piuttosto un ritrovarsi, un sapersi insieme nel tempo e fuori dal tempo; è un incontro con se stesso, con la propria voce interiore e con il proprio desiderio, che assume il volto e lo stile del progettista italiano Giovanni Battista Caproni (1886-1957). Nel confronto a distanza con l’ingegnere italiano Jirō si sente implicato in una passione e in una tradizione che lo precede e lo avvolge, e a cui desidera essere iniziato. Fin da piccolo coltiva la passione del volo e degli aerei, contempla e studia riviste di aviazione anche in lingua straniera; presagisce che la vera iniziazione a una tradizione di ricerca e di lavoro coincide con l’aderire al proprio desiderio e alla propria verità. Caproni è la figura dell’Altro, del Maestro che indica la strada, il correlato oggettivo di un percorso interiore che è un cammino verso di sé proprio perché è anche un cammino verso l’Altro, attraverso l’Altro; il sé più intimo si dà sempre nella relazione con l’alterità e nella pluralità degli incontri. Il progettista italiano svela a Jirō l’essenza profonda della sua vocazione – non pilotare, ma progettare aerei. La formazione di Jirō si compie attraverso l’incontro immaginario con Caproni, vedendo in lui una figura ideale di Maestro che costituisce tanto l’essenza del lavoro a cui ci si dedica quanto l’immagine di sé che si cerca di plasmare. Per questo motivo nella dimensione onirica passato e futuro si intrecciano e convergono; le esperienze e i collaudi talvolta rocamboleschi di Caproni si alternano a premonizioni agghiaccianti, legate alle vicende belliche che si profilano all’orizzonte. Il il ritmo delle epoche, delle stagioni della vita, intreccia le vicende esistenziali, le aspirazioni e le paure delle persone, il farsi della Storia come progresso.
La scena iniziale del film contiene già in nuce i temi fondamentali che verranno poi sviluppati nella diegesi. Un respiro, un sogno: il lieve inspirare ed espirare di Jirō bambino, mentre dorme, rimanda all’aria sottile in cui si librano gli aerei e la mente svincolata dalla realtà quotidiana. Quel respiro, quel vento sono entrambi manifestazioni di una medesima energia vitale, il ki 氣 – l’atmosfera, il soffio che anima tutte le cose, che si concentra in esse o si disperde, che genera la vita e infine la riassorbe nel processo naturale di crescita ed estinzione. L’incipit onirico e la colonna sonora che lo accompagna conferiscono alle prime sequenze un’aura vagamente felliniana e imprimono nello spettatore la sensazione che la continua intersezione dei piani di realtà – tra la vita concreta, l’immaginazione e il sogno – non sia affatto un pretesto narrativo ma esprima un aspetto fondamentale dell’esistenza.
I protagonisti delle storie raccontate da Miyazaki sono in genere figure d’azione, personaggi operativi più che contemplativi. Con la figura di Jirō assistiamo invece allo sviluppo di un carattere che trova l’azione nel pensiero, nell’arte di progettare, nella creazione di un futuro possibile attraverso il disegno di velivoli innovativi. La miopia che impedisce a Jirō di volare diviene, da difetto e svantaggio, l’occasione per trovare la propria strada. Da quella mancanza, dall’impossibilità di essere un pilota, saprà trarre la propria vocazione; proprio in virtù del difetto degli occhi saprà affinare un altro tipo di sguardo, una vista ulteriore, una sensibilità per ciò che esiste ancora soltanto in potenza. Il non veder bene con gli occhi diviene l’opportunità per apprendere a vedere “oltre”. Durante il sogno con cui si apre il film è presente già un accenno all’altra dimensione fondamentale della vita di Jirō: quando il suo aereo va in pezzi e inizia la caduta si vede in basso, sullo sfondo, un treno: presenza discreta del mezzo di locomozione su cui Jirō farà l’altro incontro decisivo della sua vita, quello con la giovane Nahoko. La parabola esistenziale e la vocazione di Jirō coincidono con il tentativo di custodire il proprio desiderio, espresso nei sogni, e di proteggerlo dal tumulto delle epoche, dai disastri della guerra, dagli accadimenti storici che travolgono le singole vite. È proprio in questo tentativo estremo, che sembra votato allo scacco, che Jirō trova un valido alleato nella figura quasi leggendaria di Caproni, immagine del Sé con cui Jirō riesce a entrare in contatto e con cui dialoga per poter accedere a se stesso. Jirō e Caproni si ritrovano spesso e volentieri in sogno, entrano l’uno nel sogno dell’altro, ma senza invaderlo; ciò che conta per entrambi è la possibilità – che a loro, progettisti e non piloti, accade solo in sogno – di osservare la terra da quella posizione del tutto particolare offerta dall’aereo in volo, quando ci si stacca dalla propria ombra. È come se il pensiero di Miyazaki sul volo, un pensiero coltivato fin dall’infanzia, trovasse sulle tracce di Jirō un nuovo grado di limpidezza e di forza: nella scia di un aereo, nella curva di un profilo alare, si dà vede la possibilità di vedere meglio questo mondo, così contraddittorio e agitato. Solo nella distanza è dato di accedere al cuore dell’esistere, solo sollevandosi dalla terra essa si dona allo sguardo; il librarsi della fantasia, lo scorrere nel vento, sono preludio alla capacità di rimettere poi piede a terra con un cuore rinnovato.
Non solo: in questo paradossale rapporto di prossimità e distanza con le cose del mondo si scopre un intreccio esistenziale che lega il volo all’infanzia. Innalzandosi tra le nuvole anche un adulto riesce a ritrovare insieme la semplicità e la profondità dello sguardo che un bambino sa posare sul mondo e sulla vita, mantenendo però la consapevolezza che la maturità reca con sé. Forse, ancor più che all’infanzia, il riferimento è a quella stagione indefinita della vita che si colloca tra infanzia e adolescenza, quando nella personalità e nell’immaginazione di un essere umano si concentrano potenzialità indefinite e molteplici, quando insieme alla capacità di concentrazione resiste uno sguardo incantato, innamorato delle cose. Quell’età è indefinita, è una soglia impercettibile, come l’istante del decollo in cui un aereo, non più vettura che accelera sulla terra, non è si ancora librato del tutto. Tra la pesantezza che riporta al suolo e la capacità di staccarsi da terra si gioca l’esistenza umana e si snoda la vicenda di Jirō e di ogni essere umano. L’esperienza narrata nel film è così anche una meditazione sul mistero della vita, che eccede ogni concetto che pretenda di fissarla. Jirō e Nahoko sono testimonianze vibranti di un impegno etico a vivere appieno il presente, ad essere nel proprio tempo fino in fondo senza però identificarsi del tutto con esso, senza appiattirsi su di esso. Invitano a non passare accanto alla vita, a non lasciarsi sfuggire ciò che di essenziale si dispiega in essa, nelle sue pieghe, nei suoi ritmi. Non è che si debba resistere al tempo in cui si vive: sarebbe uno sforzo inutile e insensato. Si tratta piuttosto di resistere nel tempo, imparando nella quotidianità ad esistere nel presente, ad accogliere ciò che viene, ad essere in comunione con ciò che accade. Nel ritmo dell’esperienza si dà il tempo, si dispiega ciò che gli esseri umani misurano e chiamano tempo. Corrispondendo alla propria vocazione, alla chiamata a divenire se stessi, si dischiude il movimento, il soffio della vita; si accede propriamente all’ek-sistere, si rompe cioè ogni ripiegamento o chiusura che inibisce lo sviluppo di sé e ci si apre, si esce (ek-) dalla privatezza dell’individualità e ci si confronta con il mondo – con le ferite che esso provoca, ma anche con le scoperte preziose che esso consente.