È la notte tra il sabato e la domenica, quella tradizionalmente consacrata al riposo. Mi sveglio. Faccio per sapere l’ora e ovviamente guardo il telefonino, che mi dice che sono le tre. Ma, contemporaneamente, vedo che è arrivata una mail. Non resisto alla curiosità o meglio all’ansia (la mail riguarda una questione di lavoro), ed è fatta: leggo e rispondo. Sto lavorando – o forse più esattamente sto eseguendo un ordine – nella notte tra il sabato e la domenica, ovunque io sia.
La chiamata (ronzio del telefonino, tintinnio molesto, o anche solo, come nel mio caso, notifica di una mail) è una chiamata alle armi nel cuore della notte e nel pieno della vita civile, come nella mobilitazione totale di cui parlava Ernst Jünger negli anni Trenta. Ma non ci sono, apparentemente, delle guerre in corso, almeno alle latitudini in cui sto combattendo la mia solitaria battaglia armato di telefonino. E ho il sospetto di non essere l’unico in questa condizione. Un messaggio arriva e ci mobilita. Ci mobilita tanto più e tanto meglio in quanto, trovandosi su un supporto mobile, è un Diktat che ci raggiunge dovunque e che raggiunge miliardi di esseri umani.
Oggi infatti il numero degli abbonamenti ai dispositivi mobili supera il numero delle persone esistenti sulla faccia della terra. Chi lo avrebbe immaginato anche solo vent’anni fa? Ogni giorno tre miliardi e mezzo di utenti della rete, cioè la metà della popolazione mondiale, scrive (e, più gravemente, riceve) sessantaquattro miliardi di e.mail, lancia ventidue milioni di tweet, pubblica un milione di post. Che cosa si chiedono? Che cosa si dicono? Tantissime cose, ovviamente, e in larghissima parte qualcosa come “Sono io, esisto, eccomi qui!”. Ma questa – per dirla burocraticamente – autocertificazione di esistenza in vita sembra già essere la risposta a una domanda fondamentale: “Dove sei? Presentati, agisci!”. Cioè alla chiamata che mi mobilita nella notte, e che viene, prima che da un qualunque utente umano, da ciò che analizzerò sotto il nome, minaccioso ma credo appropriato, di Apparato.
Nelle armi (propongo questo acronimo per il nome generico dei terminali della mobilitazione: Apparecchi di Registrazione e di Mobilitazione dell’Intenzionalità) non è difficile cogliere il tono tra l’indiscreto e l’autoritario della domanda fondamentale che si rivolge quando si chiama qualcuno al telefonino. “Dove sei?” è una domanda che si arroga l’autorità di sapere dove siamo, quasi preludendo a una infrazione dell’habeas corpus, e insieme ha l’aria vagamente minacciosa del “Dov’è tuo fratello?” con cui Dio si rivolge a Caino.
Ecco il tono di fondo, il basso continuo, che, al di là di qualunque contenuto della comunicazione, costituisce la sostanza militare della chiamata. Nel rispondere, io sono me stesso (o almeno credo di esserlo, ed è quanto basta), eseguo il comandamento di una religione di cui sono, in ultima analisi, un credente, in una situazione che è tutt’altra rispetto a quella vigente in una catena di montaggio. Ovviamente qualcuno potrebbe obiettarmi che l’alienazione è proprio questo: credere di seguire qualcosa di nostro mentre ci si perde in interessi e azioni che sono programmate da altri. Ma, non meno ovviamente, potrei obiettargli che, per quello che ne sappiamo lui e io, lui potrebbe essere uno zombie programmato per postare compulsivamente sui social media messaggi di critica dell’ideologia. Una ritorsione inevitabile e non troppo arguta, ma vera: anche il più implacabile critico del sistema, il blogger più nervoso e intrattabile, l’intellettuale più dissidente, accetterebbe, nella sua dissidenza, il sistema che sta criticando attraverso petulantissimi post e tweet.
Ciò che è più inquietante è l’imperio militare che viene esercitato dalla chiamata. L’apparecchio che funge da terminale dell’apparato sembra ordinare qualcosa, diversamente da quello che avrebbe fatto un medium del secolo scorso, una radio o un televisore, dediti all’intrattenimento, all’informazione, e certo alla persuasione. Attività un tempo biasimatissime dalla critica della cultura, e spesso con ottimi motivi, ma tutto sommato bonarie e soprattutto pacifiche rispetto alla Chiamata. Certo, io avrei potuto limitarmi a guardare l’ora e a bere un bicchier d’acqua, rimandando all’indomani la risposta. È ciò che in effetti avviene tante volte. Ma il fatto che talvolta possa aver luogo questa reazione compulsiva, che trasforma i dispositivi mobili in apparecchi di mobilitazione, ci porta a delle questioni che non hanno nulla a che fare con le peculiarità dei vecchi o dei nuovi media. Piuttosto, i nuovi media portano alla luce qualcosa di antichissimo, che sta al centro del nostro essere umani, e del nostro essere sociali.
Si ha torto a vedere nella tecnica qualcosa di moderno e, soprattutto, di cosciente. La tecnica, proprio come il mito, è una rivelazione in cui progressivamente si fanno avanti pezzi di un immane inconscio collettivo che non è stato programmato da nessuno. I romantici, due secoli fa, auspicavano l’avvento di una nuova mitologia: eccola qui. Ed è verosimile che, per la velocità delle innovazioni tecnologiche, negli anni a venire emergeranno molti altri frammenti di questa mitologia, nuovissima nei suoi apparecchi ma, lo vedremo, antichissima nell’apparato che li governa. Il tema di questo libro è proprio questo arcaico, e in buona parte questo inconscio. Più precisamente, la domanda a cui vorrei cercare di dare una risposta è una parente povera dei grandi interrogativi kantiani (su che cosa posso sapere, fare, sperare): chi me lo fa fare? Qual è la forza che mi muove con la perentorietà di un imperativo categorico? Non si tratta, credo, di un interrogativo psicologico e puramente individuale, risolvibile magari con una terapia o con una presa di coscienza. La presa di coscienza deve esserci, ma riguarda la natura dell’apparato (diverso dall’apparecchio, sia esso un computer, uno smartphone, un tablet, ma impensabile senza di esso) che ha potuto produrre questa militarizzazione della vita civile.
Una precisazione, prima di andare avanti. Diversamente da miei lavori precedenti, in questo libro non sto descrivendo una ontologia sociale, ma una antropologia del nostro essere nel mondo sociale. In parole povere: che cosa è l’uomo nel momento in cui la struttura fondamentale della realtà sociale sembra offerta, in modo crescente, dal web come manifestazione contemporanea delle strutture di fondo della realtà sociale. Questa antropologia si ricollega idealmente alle numerosissime trattazioni che nel secolo scorso hanno affrontato il tema dell’incidenza della tecnica sulla natura umana. Rispetto a quegli studi, la mia impostazione si contraddistingue semplicemente per il fatto che la tecnologia è ora diversa, e appare molto più vicina al mondo sociale di quanto non fosse in precedenza. Questa circostanza ha il vantaggio di rendere ancora più evidente come non esista un grado zero della natura umana (considerazione che d’altra parte si potrebbe estendere a varie forme di vita animale), e come questa sia costitutivamente determinata (sino al livello più alto, quello della motivazione) da elementi che in senso ampio si possono definire “culturali”.
Riconoscere queste forme di motivazione (cioè appunto rispondere all’interrogativo “Chi me lo fa fare?”) costituisce l’obiettivo fondamentale delle pagine che seguono, e a questo fine ho dovuto introdurre un certo numero di termini tecnici, nuovi, seminuovi, o vecchi, anche se spesso adoperati in un senso un po’ diverso dall’usuale. Sono, per così dire, una versione aggiornata degli “esistenziali” heideggeriani. Mi scuso anticipatamente per l’abuso di espressioni idiomatiche, non mi è riuscito di fare altrimenti (però avrei potuto far peggio e metterle in maiuscolo: sarebbe stato forse più chiaro, ma insopportabile). Per rendere il tutto, se non meno pesante, almeno più chiaro, al fondo del volume ho posto un glossario delle parole chiave, che si potrà anche adoperare come sinossi delle tesi fondamentali che difendo in questo libro.
Questo testo costruisce l’introduzione di Mobilitazione Totale, Laterza, Roma 2015.