A Baricco piacciono i videogiochi (ma la scuola non si sente tanto bene)

 

 

 

Qualche tempo fa ho scritto su Scenari del declino del classico e dell’ascesa della pop antiquity. Inevitabilmente il tema toccava il modo in cui il dibattito sulla cultura e l’educazione in Italia prenda troppo spesso la forma di contrapposizioni radicali o di sparate eclatanti tra difensori delle tradizioni e paladini dell’innovazione. Per gli uni la formazione tradizionale era il baluardo contro la barbarie della modernità, per gli altri un relitto arcaico di un’epoca passata. Un recente intervento di Alessandro Baricco offre la chance per proseguire il discorso in senso più ampio. Baricco paragona scuola e videogiochi, la prima obsoleta e i secondi progressisti, come modelli di formazione e di apprendimento, ricavandone che la scuola dovrebbe re-imparare a insegnare proprio dai giochi. Quale contrapposizione più generalista, quale spazio di dibattito più ampio per la platea della Repubblica delle idee? In questo articolo evito i grandi sistemi e mi limito a un’interpretazione del perché siano arrivate a Baricco certe voci sui videogiochi e su come la sua comprensione del medium abbia dei larghi margini di miglioramento. Con qualche proposta per quelli a cui potrebbe interessare pensarci su, superando le guerriglie pedagogiche in cui scuola e videogiochi vengono inevitabilmente usati come opposti campi di battaglia.

 

Per Baricco (riporto da Repubblica, citato sopra) “c’è una rottura tra il nostro modo di fare scuola e il mondo di fuori”, ben esemplificato dalla “povertà” di risorse metodologiche offerti in classe e la “ricchezza” e complessità dei videogame. Mentre “i bambini di otto anni giocano ai videogame, immaginano mondi e li edificano ad una velocità mostruosa”, a scuola si limitano a moltiplicare mele. Non hanno più gli esami, che sono stati rimossi perché li traumatizzerebbero, eppure nei videogiochi ne superano di ben più complessi e salutari per il cervello. Fast forward al Liceo classico: i ragazzi del Ginnasio imparano latino e greco “senza sapere il perché”. La scuola non insegna la cultura digitale e l’inglese, separa la storia e la geografia e anche l’educazione dalla matematica, anche se i pitagorici erano “fissati” con il culto del corpo. In linea generale, i ragazzi di oggi “sono profondamente diversi da come eravamo noi, vanno a una diversa velocità”, e la scuola non offre loro un metodo capace di premiarli e stimolarli. I migliori ai videogiochi diventano gli ultimi della classe. La soluzione? Ripensare la scuola a partire dai videogiochi perché il “mondo del lavoro” apprezza chi sa raccontare, chi sa seguire un flusso di informazioni, mescolandole come quando si consultano i link, senza un percorso lineare, ma con un inizio e una fine, a più livelli, come un videogame”.

 

Come tutte le grandi contrapposizioni assolute, l’analisi di Baricco confina con il regno delle generalizzazioni. Nell’intervento Baricco non offre un’analisi del sistema scolastico, o di un suo aspetto, dal punto di vista economico e sociale. Radicalizzare le solite false dicotomie tra nuovo e antico, attivo e passivo, polveroso e dinamico e via dicendo non pare un buon punto di partenza per ripensare la scuola in assenza di uno straccio di considerazione per i tanti aspetti implicati nella vicenda. Qualcuno potrebbe trovarvi contraddizioni e non sequitur. Alcuni insegnanti si sono già mobilitati per fare notare varie cose a Baricco. Per esempio, il fatto che ha capito male il senso della lezione “perfetta” registrata dagli insegnanti anglosassoni su video per gli studenti, e che tale pratica non ha alcun evidente legame coi videogiochi. Non si capisce poi in che senso differirebbero il percorso “lineare” della scuola e quello “a inizio e fine” dei videogame.

 

Chiaro è che Baricco ha una percezione per certi versi limitata del videogioco. È interessante vedere come faccia esempi stereotipati di giochi “virtuosi”: Sim City, una celebre simulazione di città, è forse il gioco-manifesto di una certa corrente di tesi tecno-entusiastiche sui videogiochi che si è auto convinta di riconoscere in questa forma espressiva un medium “positivo”. Queste tesi presentano una visione unilaterale e acritica del mezzo. Sono nate prevalentemente nell’accademia statunitense, sulla scia di discorsi importanti sul potenziale rivoluzionario della rete, e come comprensibili reazioni alle caccie alle streghe subite dai videogiochi e alla loro scarsa considerazione nel sistema delle arti e delle cattedre dominanti. Ma sono presto (indicativamente: tra Marc Prenski e Jane McGonigal) degenerate in una sorta di escatologia tecno-mediata in cui i videogiochi educheranno i bambini, risolveranno i nostri problemi, informeranno generazioni di geniali e democratici creativi e, infine, salveranno il mondo. Questo mito, imparentato con le retoriche della creative class, ha contagiato tutti quelli che sgomitano, in modo più o meno convincente, affinché i videogiochi siano considerati arte, cultura e innovazione, e loro stessi i loro interpreti, vati e beneficiari. Passare dalla condanna all’esaltazione dei videogiochi ha aiutato qualcuno a vendere meglio il proprio lavoro (cedendo lo spirito critico al marketing), o a sentirsi parte di un mondo in cambiamento.

 

Ovviamente, i videogiochi non salveranno il mondo. Non sono intrinsecamente buoni o cattivi, progressisti o reazionari. Sono delle forme espressive e mediatiche. Il loro utilizzo e la loro produzione vanno sempre considerati contestualmente all’interno di precisi processi culturali. Chi scrive (insieme a Paolo Ruffino) ha provato a illustrare la traiettoria di questo passaggio dei videogiochi dalle mani degli apocalittici a quelle degli integrati. Baricco avrà orecchiato di recente le sole tesi per cui i giochi “ora sono buoni”, agendo da cassa di risonanza per il rinfocolarsi delle solite contrapposizioni. Qualche insegnante gli ha replicato giustamente che “non tutti i videogiochi sono uguali”, intuendo che i ragazzini giocano più spesso a spaccare teste ai passanti inermi a Grand Theft Auto o a mitragliare i militari cattivi di Call of Duty che a immaginarsi dei futuri politici in Sim City. Quasi sempre, vorrei aggiungere. Da ragazzino Mortal Kombat mi piaceva solo un po’ di più di Populous, ma solo se era la versione non censurata. Chiaramente però la rappresentazione della violenza non ha un rapporto diretto con la violenza reale: chi gioca a GTA ha le stesse possibilità di diventare un assassino o un urbanista di chi gioca a Sim City, predisposto all’uno o all’altro esito da ben altre variabili sociali e culturali (a meno che non si dimostri che le seconde determinano il tipo di gioco a cui si ha accesso!). In ogni caso, l’intervento di Baricco basta a rinfocolare le solite antitesi. Un’opinionista arriva a polemizzare contro quella che le sembra la “estrema difesa dall’iperstimolazione sinestetica superficiale digitale assurta a totem dei nostri tempi” di Baricco. Una frase la cui esegesi potrebbe rivelare un’ironia estrema, oppure una sorta di neo-puritanesimo luddista in cui la contestazione politica diventa una guerra tra generazioni o civiltà (altro che giochi violenti!).

Baricco non pensa cose cattive dei videogiochi. Ha sentito dire, anzi, che “fanno bene”. Ma la realtà è che i videogiochi e i loro usi sono troppi perché chiunque sia in grado di sintetizzare in termini assoluti cosa siano e cosa facciano. Non sorprende che chi non li comprende possa liquidarli come il sintomo della modernità barbara e che chi ci lavori sia tentato dal fare crescere la loro rispettabilità accademica e culturale. Ma questa tirannia strutturale tra antico e moderno, vecchio e nuovo, passivo e attivo impedisce qualunque ricerca sensata. Nulla dice che i videogiochi non possano essere “utili”, ma chi definisce questo concetto di utilità? Chi dice che giocare a Sim City non comporti il rischio di diventare un palazzinaro senza scrupoli, un control freak del profitto o uno studioso hipster che pensa di combattere ilcapitalismosharando dei tweet con il suo iPhone dalla terra del Biscione? Chi intende affrontare l’istruzione attraverso il videogioco da qualunque prospettiva dovrebbe evitare l’arretramento perpetuo in questa dicotomia in cui i videogiochi devono essere o dei feticci alienanti, che allontanano dalla cultura vera o persino istigano alle stragi o, viceversa, degli strumenti salvifici e positivi, simboli del progresso e di quello che è “utile”. Perché non iniziare da una discussione su come insegnanti e ragazzi possano intraprendere forme di dialogo sul mondo che li circonda, videogiochi inclusi, e su programmi ministeriali che riconoscano un ruolo più attivo sia agli insegnanti che agli alunni?

 

L’intervento di Baricco andrebbe letto forse in chiave politica. Da questo punto di vista, non offre un’interpretazione delle vere dinamiche di potere nella gestione della scuola. Non è che il suo intervento non contenga spunti interessanti. In fondo videogiochi e scuola vengono usati come termini corrispondenti a complessità e linearità o attività e passività, ma viene poi suggerita una sintesi propositiva tra innovazione e tradizione. Inoltre Baricco parte proprio dal dialogo con i figli. Infine, Baricco ha ragione a riconoscere nelle nuove tecnologie dei mezzi dall’enorme potenziale espressivo e pedagogico. Il problema, però, è che alla fin fine non si preoccupa del perché gli insegnanti e la scuola viaggino a velocità ridotta rispetto agli alunni. Non è solo un fenomeno fisiologico (i bambini continueranno a essere più veloci), ma anche il risultato di investimenti, programmi, decreti, inquadramenti professionali che limitano l’accesso alla professione e il suo esercizio in una forma progressiva. Invece di limitarsi a vedere uno scontro tra mondi, Baricco avrebbe potuto spendere qualche parola sulla sistematica umiliazione della pratica scolastica e degli insegnanti nell’agenda politica del nostro paese. Da qui potrebbe partire un discorso troppo lungo e doloroso, al di fuori della portata di questo articolo. Tuttavia, per non tacere del tutto di come venga trattata la ricerca accademica in Italia, e offrire anzi un esempio positivo, mi limito a una proposta: la rivista GAME – Games as Art, Media, Entertainment potrebbe fornire una piattaforma per chiunque voglia evitare di convincersi che i videogiochi rovineranno/ salveranno il mondo e voglia invece domandarsi come, contestualmente, potrebbero essere impiegati e discussi. Senza che per questo si spalanchino i cancelli infernali del modernismo, ma anche senza rompere le scatole con l’edutainment paternalista: qualunque ragazzino sano lo eviterebbe come la peste e preferirebbe offrire la sua visione delle cose a un insegnante in grado di ascoltare.

 

 

(Le opinioni espresse in questo appartengono esclusivamente all’autore e non riflettono necessariamente quelle di GAME e dei suoi redattori).



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