L’ultimo libro di Pietro Montani, filosofo e docente di Estetica presso la “Sapienza” di Roma, segna il punto di un discorso avviato dall’autore nel 2007 con la pubblicazione di Bioestetica (Carocci). Con questo libro Montani rimetteva in discussione l’immagine tradizionale dell’estetica come “filosofia dell’arte”. Ciò non deve suonare strano se si pensa che l’autore si è formato a Roma con Emilio Garroni, il quale, partendo dalla terza Critica kantiana, ha fatto dell’estetica intesa come “filosofia non speciale” che non si occupa di una classe definita di oggetti, le opere d’arte, ma si interroga sullo statuto dell’esperienza in genere avendo (nella modernità e forse non per sempre) nell’arte il referente esemplare di questa interrogazione. Con il prefisso “bio” Montani chiariva che un’estetica così pensata – non branca specialistica di un sistema filosofico, ma riflessione filosofica tout court – deve aprirsi a un’investigazione sulle forme di vita, che sempre più sono ibridate da protesi tecniche.
L’interesse dell’autore per il nesso tra estetica e tecnica rimanda a una lunga frequentazione dei testi di Heidegger e al confronto con alcuni interlocutori contemporanei, i quali hanno pure posto al centro delle loro riflessioni il ruolo della tecnica in età moderna. Mi sembra però che con Tecnologie della sensibilità Montani si ponga in una prospettiva post-heideggeriana, con non trascurabili conseguenze per la ridefinizione del quadro entro cui è possibile comprendere la tecnica. A differenza di quanto accade in Heidegger, l’opzione estetica è pienamente rivalutata e non è più considerata come un esito della “metafisica del soggetto”. L’estetica è concepita da Montani come una riflessione sulla “qualità e le prestazioni della aisthesis umana”. L’autore ricorre al termine greco aisthesis per non schiacciare la sua concezione della sensibilità umana solo sull’aspetto della sensorialità o solo su quello della percezione, che implica già un livello di interpretazione del percetto. I due aspetti vanno tenuti insieme perché nel commercio sensibile dell’uomo con il mondo, in linea con l’ispirazione kantiana di questa prospettiva estetologica, l’elemento della ricettività convive con un elemento di produttività. È nel trammezzo tra queste due prestazioni che il soggetto si forma la sua “immagine del mondo” (da intendersi non in senso heideggeriano) ed esercita appieno la sua aisthesis.
Per Montani l’intreccio di ricettività e produttività tipico della sensibilità umana è costitutivamente collegato al fatto che questa sensibilità – ma segnatamente non quella degli animali non umani – è illimitatamente aperta allo stimolo. In altre parole, mentre gli animali non umani sono largamente programmati a livello genetico per selezionare solo gli stimoli che si presentano come segnali utili (vantaggiosi o di pericolo) in termini di sopravvivenza e di adattamento all’ambiente, nell’animale umano questa selezione è una prestazione ampiamente autonoma. Contro una lunga tradizione filosofica l’autore sostiene che l’aisthesis non rimanda a uno stato passivo di affezione, ma è un’elaborazione. Questa idea rimanda a teorie, filosofiche e scientifiche, che mettono in collegamento l’indeterminatezza tipica dell’esperienza umana con il problema, che ha solo l’animale umano, di elaborare strategie di sopravvivenza e adattamento, caratterizzate da spiccati tratti di cooperazione tra gli individui della specie; si pensi all’ipotesi di Michael Tomasello.
Facendo incontrare questo ampio paradigma teorico con l’estetica, Montani introduce un elemento di novità. Stando così le cose, se l’animale umano, unico tra tutte le specie animali, deve creare da sé le modalità di selezione e organizzazione dell’informazione, ne consegue che il processo dell’aisthesis umana può realizzarsi solo mediante un’interfaccia con l’immaginazione. È l’immaginazione che mette in opera le strategie di selezione, organizzazione e ricostruzione necessarie per elaborare i dati sensibili allo scopo di farne gli elementi della forma di vita umana. In Tecnologie della sensibilità acquista perciò pieno significato l’ipotesi di ripensare l’estetica come bioestetica. Non solo. Se l’immaginazione gioca un ruolo così centrale nel costituirsi delle forme di vita umana, se ne deve trarre la conclusione che tali forme di vita sono fortemente segnate dai meccanismi, tipici dell’immaginazione, dell’anticipazione dell’esperienza (e quindi della sua potenziale manipolazione creativa). Questo lavoro dell’immaginazione sull’esperienza è visto da Montani in diretto collegamento con la tecnica. La bioestetica è allora – rifacendoci a una celebre lettera del 1982 scritta da Gilbert Simondon a Jacques Derrida – già una “tecnoestetica”, la quale dà conto del fatto che nell’uomo prestazione tecnica e sentimento estetico non rinviano a due distinti modi di sentire, ma rimandano a un più originario “sentimento tecno-estetico”. È tipico delle forme di vita umane il fatto di esercitare l’aisthesis in un collegamento (più o meno distanziato) con prestazioni e protesi tecniche; ed è altrettanto vero che, quando agiamo tecnicamente, sentiamo nella prestazione tecnica una gamma di possibilità, oltre la sua finalizzazione diretta.
Questo fenomeno può dare luogo a un eccesso di delega tecnica, che produce l’anestetizzazione già indagata da Montani in Bioestetica. Ma può anche aprire la strada allo sviluppo nell’animale umano di una formidabile disposizione creativa. Questa tesi consente di fare due ordini di considerazioni. Da una parte l’autore dà in Tecnologie della sensibilità una risposta compiuta a una domanda che aveva posto nei suoi precedenti libri, in particolare L’immaginazione intermediale (Laterza 2010): qual è lo statuto dell’arte dopo il ripiegamento autoreferenziale del mondo dell’arte contemporanea? Montani qui salva la nozione di arte a patto di intenderla come “esperienza tecnica”. L’arte, in altre parole, dopo aver smesso di essere il “referente esemplare” dell’esperienza in genere, sembra riscoprire la natura di techne: un sapere esperto che verifica, sperimenta e anticipa le possibilità delle tecnologie sensibili. Non ha più senso allora introdurre distinzioni tra arte e non-arte; non ha più senso interrogarsi sull’autonomia dell’arte, se ciò comporta una separazione di principio dell’arte dal mondo della vita. Nella prospettiva aperta da Montani l’analisi di una wearable technology come Google Glass ha lo stesso statuto teorico dell’interpretazione dell’installazione interattiva Portatori di storie realizzata da Studio Azzurro per il Museo della Mente di Roma. Occorre semmai interrogarsi in base a quali negoziazioni, e verso quali direzioni, avviene l’incontro tra le tecnologie interattive e le arti visive, in particolare quelle aperte al ricorso di linguaggi intermediali.
La seconda questione che si apre a partire dalle riflessioni di Montani riguarda lo statuto di questa immaginazione coinvolta nelle prestazioni tecnoestetiche. Kant distingue due modalità immaginative principali: quella ascrivibile all’immaginazione “riproduttiva” e quella ascrivibile all’immaginazione “produttiva”. La prima ha a che fare con il formarsi della cognizione a partire da schemi già disponibili all’intelletto; la seconda rimanda alla necessità di produrre tali schemi allo scopo di acquisire nuova conoscenza (e quest’ultima è perciò da collegare anche alla creatività artistica, così come l’ha intesa l’estetica moderna). Nessuna delle due – nemmeno la seconda, che presenta rilevanti tratti creativi – dà conto però propriamente della prestazione tecnoestetica.
Occorre pensare una immaginazione interattiva: un’immaginazione, cioè, che garantisce la funzione di interfaccia con la sensibilità e con i suoi innesti tecnici. L’immaginazione interattiva non si riferisce in modo particolare all’oggetto, sia esso l’oggetto reale nel mondo o quell’oggetto ampiamente determinato dalla sua riconfigurazione immaginativa che è l’opera d’arte. Essa si riferisce piuttosto all’ambiente richiesto dall’interazione tra soggetto e oggetto. Simondon definisce questo ambiente come un milieu associé attraverso cui l’oggetto tecnico si apre ai suoi molteplici e in parte imprevedibili sviluppi. Il modello di questo genere di ambiente è la rete ferroviaria: senza questa rete l’invenzione della macchina a vapore sarebbe rimasta un puro prototipo privo di applicazioni (e sviluppi). Ma l’impiantarsi di simili ambienti modifica anche l’ambiente naturale e il modo in cui gli uomini fanno esperienza di esso. Montani fa notare che allora il milieu tecnoestetico funge per questa ragione anche da medium in una duplice modalità: esso sta tra gli individui e li mette in comunicazione reciproca; ma questi sono anche immersi in esso, modificando così le loro stesse forme di vita. Di qui l’autore apre la prospettiva politica della tecnoestetica: questi milieux interattivi si candidano a essere gli spazi pubblici del futuro, nei quali la logica sensibile dell’interscambio con il mondo convive con la logica mediale dell’immersione in una rete. È il caso di Zuccotti Park, di Piazza Tahrir o di Gezi Park, dove la messa in rete di fotografie e filmati che documentavano la protesta acquistava la stessa importanza della presenza fisica nei luoghi del conflitto.
È possibile pensare un ulteriore sviluppo della riflessione sulla natura ‘ambientale’ delle tecnologie della sensibilità, che dia risalto al loro radicamento antropologico. Rispetto ad altre posizioni, che identificano la dimensione antropologica della protesi tecnica nel suo carattere di “esonero” (Gehlen) o di “supplemento” (Derrida), l’ipotesi secondo cui le protesi tecniche obbediscono alla logica della delega non può chiudersi in linea di principio al carattere circolare del rapporto tra sensibilità e tecnica. Tale assunto comporta il fatto che gli ambienti associati della tecnica sono il mondo dell’uomo. Ciò significa – ma occorrerebbe tornare a interrogare le note pagine di Jakob von Uexküll – che non si dà propriamente un ambiente umano: l’uomo può abitare una pluralità di ambienti, tanti quanti sono gli ambienti tecnici che è capace di creare. Ma si vede bene che un simile esito non interroga solo l’estetica o la politica, ma costituisce una fondamentale questione etica.