L’allungamento della vita umana procede, da dieci, quindici anni a questa parte, con ritmo vertiginoso se commisurato sulla scala della storia demografica della specie; non parlo di crescita della vita media, fenomeno pure vistoso, quanto del procrastinarsidel momento della morte in tarda età.
È cambiato il modo di invecchiare ed è cambiato il modo di morire: non si muore quasi più nella propria casa, ma in ospedale o in casa di riposo. Le morti di una volta sono sempre più difficili poiché il sistema medico sanitario e l’atteggiamento mentale interiorizzato dei più reclama l’ospedalizzazione, l’intervento attivamente terapeutico e, di fatto, spesso autorizza o subisce forme di accanimento terapeutico.
Tutto ciò lo possiamo toccare con mano entrando in una casa di riposo, dove la medicalizzazione della vecchiaia appare particolarmente evidente e spesso rappresent forse la causa principale di procrastinazione sine die della durata della vita, anche in condizioni di degrado e di perdita della dignità.
Lo sviluppo tecnico-scientifico e il senso comune che ne è seguito sembra esaltare, nella valutazione dei fenomeni sociali e umani, una sorta “principio della quantità”, che è diventato per il senso comune l’unico, o comunque il prioritario criterio di giudizio sul mondo.
Per tale principio, quanto più si ha e tanto più si è; in beni, in averi, e anche in anni di età. Così quanto più si vive tanto meglio è, indipendentemente dalla qualità del proprio vivere.
Leonardo Ancona, psicoanalista e autore di ispirazione cattolica, ha espresso richiami «al fatto che non solo la vita sta progressivamente aumentando di durata, ma che è naturalmente possibile raggiungere i 100 anni e tra poco i 120; quasi sempre senza alcuna preoccupazione che questo fatto porterebbe inevitabilmente a drammatici problemi di sovrappopolazione, di ineliminabile noia, di lotta per la sopravvivenza e per il diritto lavorativo, di insopportabili carichi pensionistici e di invecchiamento generale della popolazione».
Se l’allungamento della vita è un fenomeno vistoso e sotto gli occhi di tutti, non lo è altrettanto un fenomeno che voglio sottoporre alla vostra attenzione.
Aumenta la durata della vita, ma non aumenta in modo corrispondente il protrarsi, anche in stato condizioni di senilità avanzata, di condizioni di autonomia e buona salute.
Da alcuni anni, le riviste scientifiche e la pratica medica segnalano un aumento delle sindromi neurodegenerative, che negli USA aggrediscono ormai il 46% delle persone al di sopra dei 85 anni.. Commentando tali dati George Brown (nel 2008) scrive: «se la tendenza si confermerà, chi nasce oggi ha una probabilità su 3 di morire affetto da demenza! Immaginate le conseguenze se questo incubo divenisse realtà? Immaginate le ricadute economiche di fornire un’assistenza personalizzata, 24 ore su 24, a milioni di persone dementi o disabili per lunghi anni? Immaginate gli esiti sociali?»
Dunque, ed è un fenomeno suffragato da dati statistici, ad un aumento quantitativo della durata della vita corrisponde una sua “minor qualità” (misurata con criteri oggettivabili di ordine medico sanitario).. Il numero di anni di buona salute di cui ciascuno mediamente dispone sta diminuendo a partire dal 1998. Oggi un ventenne dovrà mediamente trascorrere un anno in più, nel corso della sua vita futura, da malato cronico, rispetto ad un ventenne di 10 anni fa. E sono anche diminuiti, e ad un ritmo ancora maggiore, gli anni di autonomia fisica. Un ventenne di oggi è destinato a vivere in media 5,8 anni con difficoltà motorie, contro un 3,8 di un ventenne di 10 anni fa. Ne consegue che la capacità medico-scientifica di procrastinare la morte in età avanzata procede più rapidamente della capacità di protrarre in età avanzata condizioni di vita autonoma.
È possibile quindiimmaginare che nei prossimi decenni tenderà a strutturarsi un nuovo ciclo di vita, in cui gli ultimi anni, sempre più comunemente oltre il secolo di vita, vedranno il soggetto umano, tranne rare eccezioni, allettato, privo di autonomia, mentalmente decaduto, necessitante di un accudimento totale. La fetalizzazione degli individui (in un mio libro sulla vecchiaia e sulla morte ho infatti parlato di società fetalizzata) conoscerebbe una sua piena realizzazione anche concreta: dall’iniziale condizione fetale dei nascituri alla condizione rifetalizzata di vegliardi il cui processo di morte potrà essere procrastinato per lunghi anni.
Quanto ho finora detto riguarda l’insieme delle società occidentali. C’è da chiedersi se il fenomeno caratterizzi in modo più specifico e rilevante il mondo italiano. È mia impressione che la fetalizzazione della vecchiaia rappresenti uno scenario esistenziale che da noi più che altrove appare in sintonia con atteggiamenti psichici e antropologici profondi così diffusi da organizzare l’atteggiamento e il senso comune di fronte alla vecchiaia e alla morte.
Oltre 30 anni fa Franco Fornari elaborò una “teoria dei codici affettivi primari”, in base alla quale ipotizzava che il tortuoso percorso evolutivo avesse prodotto la fissazione nella nostra mente profonda di metastrutture cognitive, affettive e simboliche deputate a orientare il comportamento sociale e soprattutto, le dinamiche affettive intrinseche alla famiglia umana.. Secondo Fornari tali codici, da lui collocati nell’inconscio filogenetico, proietterebbero le loro dinamiche e ideologie affettive nella vita sociale anche esterna alla famiglia. La società italiana, in particolare, appariva a Fornari caratteristicamente inflazionata dai valori affettivi del Codice Materno. La sensibilità del costume, mentale e politico-culturale, della società italiana verso una vecchiaia fetalizzata potrebbe trovare le sue radici intrapsichiche proprio in una particolare rispondenza profonda di tale società ai valori affettivi della cultura materna.
La mia disamina riguarda il dato macrosociale, cioè quella grande maggioranza delle famiglie italiane, che, meno protette rispetto alle famiglie più abbienti e più direttamente investite dalla disarticolazione dello stato sociale prodotta dalla crisi, ma anche da vicende politiche note, sono coinvolte in modo più drammatico dal fenomeno. L’allungarsi della vita e della vecchiaia stanno dunque ridisegnando la famiglia, la sua quotidianità e la sua vita psichica. Ècondizione sempre più abituale la presenza in famiglia, anche per anni, di un anziano allettato o semi-allettato, privo di autonomia motoria e, talora, in stato di decadimento mentale. Tale scenario impone una riorganizzazione degli spazi abitativi ma anche degli scambi interpersonali. La nuova famiglia deve mettere in conto risorse economiche da destinare al ricovero del proprio caro in strutture istituzionali (le case di riposo) oppure da destinare alla presa in carico di una figura di accudimento (in Italia la badante, una figura sociale nuova che riorganizza le famiglie anche nei loro assetti affettivi), e le cui funzioni non possono per lo più essere espletate, in alternativa, da membri della famiglia o da uno di essi che dovrebbero ritirarsi, almeno in parte, dal circuito lavorativo.. La scomparsa della famiglia estesa di un tempo, inoltre, non consente la distribuzione dei compiti sull’ampia rete delle antiche relazioni socio famigliari, che una volta erano in grado di farsi carico dell’accudimento e dell’allevamento dei bambini oltre che dei vecchi privi di autonomia (che un tempo peraltro erano esigua minoranza).
C’è poi anche, e soprattutto, l’aspetto psicologico di questa situazione, quello forse più penoso: prendersi cura per anni di un vecchio genitore privo di autonomia espone a esperienze emotive di difficile contenimento. La stanchezza, il contatto quotidiano con la realtà cruda di un corpo e di una mente in decadimento e, su di un piano più profondo, quella sorta di inversione dei ruoli affettivi primari per cui si diventa genitori dei propri genitori, a loro volta trasformati in bambini inermi, può sconvolgere e destabilizzare. Può riemergere in forma acuta l’ambivalenza, sempre presente nelle relazioni di affetto più significative ma per lo più silente e ben integrata, almeno nelle relazioni più mature; un’ambivalenza però che nella relazione figli-genitori anziani spesso si riattiva in una forma che rende difficile l’integrazione. Si alternano stati d’animo profondamente contrastanti: pena e insopportazione, compassione e insofferenza, coinvolgimento e distanziamento. Di qui senso di confusione e di colpa. Il vecchio può addirittura essere vissuto come un oggetto persecutorio, come una figura avida che prosciuga energie, che attiva fantasie mortifere inconfessabili, che generano a loro volta conflitto interno e, di nuovo, senso di colpa. L’interazione a sua volta alterna momenti di scambio affettuoso a rabbiosa ripulsa. Il vecchio stesso ne è turbato; a sua volta si paranoizza o esaspera le sue modalità di attaccamento ansioso.
Da alcuni anni mi capita sempre più frequentemente di accogliere la richiesta di aiuto clinico di figli di genitori anziani, alcuni già a loro volta anziani, alle prese con difficoltà interne difficili e, in alcuni casi, destabilizzanti, per i quali la vecchiaia protratta e invalidante dei genitori rappresenta una fase inedita del loro ciclo di vita e che non sanno in che modo affrontare. Non posso entrare nel merito della trattamento clinico di tali situazioni. Certo, un primo passo importante, ma difficile, consiste nell’aiutare queste persone a legittimare pienamente i propri sentimenti negativi e la violenta ambivalenza che li lacera. L’appello ai buoni sentimenti e l’astratto moralismo, peraltro estranei allo spirito della clinica psicoanalitica, in questi casi sarebbe quanto mai inopportuno. Solo l’incontro con i propri pensieri e con i propri affetti profondi, può consentire l’elaborazione del conflitto e, attraverso di esso, ricostruire e riconciliare la relazione lesa e alterata su basi più autentiche e ricche.