Lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo è un fatto indubitabilmente ignobile e esecrabile. Ma se invece del concetto di ”sfruttamento” adoperiamo il concetto di “utilizzazione” e accompagniamo questo secondo concetto con le necessarie precisazioni e delimitazioni, le cose cambiano. E cambiano non perché il termine “utilizzazione” diventi un modo furbesco di evitare di affrontare la questione essenziale dello sfruttamento e dell’alienazione, ma perché sembra consentire di guardare utilmente al lavoro da un punto di vista diverso da quelli più consueti. Non dimentichiamo che fin dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 la critica del lavoro che Marx compie è critica del lavoro alienato, non critica del lavoro in quanto tale – posto che esista -, del lavoro libero, che non produce alienazione, o del lavoro quale potrebbe essere. In ogni caso, non intendiamo, ora, riproporre, neppure se fossimo in grado di aggiungere qualche novità, il discorso sull’alienazione. Non perché esso non ci interessi, ma perché ci preme proporre qualche riflessione forse non inutile sull’utilizzazione delle risorse umane. Diamo per scontato che tale utilizzazione produce quasi sempre alienazione; ma non fermiamoci su questo punto, proviamo a interrogarci su alcuni aspetti di quella utilizzazione che, pur essendo noti, non suscitano l’attenzione che meriterebbero. Sappiamo tutti che l’essere umano, per i motivi più diversi, è spesso capace delle peggiori nequizie: violenze, torture, stupri, omicidi, stragi. Non riflettiamo forse abbastanza sul fatto che quello stesso essere umano – che proprio perché è umano non è mai angelico – è un immenso anche se non inesauribile deposito di energie e di risorse fisiche, psichiche e mentali. Che tali energie e tali risorse siano spesso messe al servizio di cause nefaste e criminali non toglie minimamente importanza al fatto che esse sono fondamentali, essenziali alla vita dell’essere umano. Ciò può sembrare banale, intuitivo, risaputo: al contrario, è ciò su cui non si riflette abbastanza, ciò che, nell’azione, troppo spesso si esclude, a volte volendolo, più spesso non volendolo. Non si riflette abbastanza, per esempio, su certe cause e certi modi di inutilizzazione delle risorse umane. Queste risorse sono numerose e molteplici e si rinnovano di continuo con il rinnovarsi delle generazioni. Tranne che per il verificarsi di circostanze eccezionali e non facilmente prevedibili, non esiste pertanto il rischio di un loro esaurirsi al di là del naturale deperimento individuale. Il problema sta invece in una loro equa, intelligente, compiuta e proficua utilizzazione. Quanto a chi non è messo nella condizione di prestare la propria opera, e segnatamente ai giovani, la massiccia disoccupazione è certo la principale causa di una altrettanto massiccia inutilizzazione delle risorse. Ma non si tratta soltanto della disoccupazione prodotta dalle dinamiche economiche e sociali. Egoismo, superbia, arroganza, presunzione, indifferenza, imbecillità di molti individui hanno una parte notevole nella inutilizzazione.
Veniamo al nocciolo della questione. L’homo faber non è meno importante dell’homo gaudens. Ma parliamo pure, per iniziare il discorso, dell’homo gaudens. Dobbiamo esserne persuasi, occorre fondare un’etica del piacere. Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, ha scritto pagine fondamentali sul piacere, che ne fanno un autentico filosofo. Ed è un vero peccato che lo ignorino coloro che, nella modernità, sono stati i fondatori di una filosofia del corpo, Husserl, Sartre, Merleau-Ponty. La liberazione dell’essere umano, a cui molti di noi aspirano, non potrà essere una liberazione totale e compiuta se non lo libererà innanzitutto da ciò che gli impedisce di godere di tutto quello di cui può godere. Godere liberamente, approfonditamente. Godere con liberi sensi e libera mente. Occorre, per prima cosa, restituire libertà e dignità al piacere sessuale. Si obbietterà che esso è ovunque liberamente praticato. Non è vero, c’è troppo spesso qualcosa di furtivo in questa pratica, il pensiero inconscio, il sentimento oscuro, che abita troppi esseri umani, di compiere, praticando il sesso, e praticandolo, è ovvio, senza violenza, qualcosa di illecito, qualcosa di proibito, che va contro le norme e i costumi, che ferisce la moralità. L’essere umano – diceva in sostanza Leopardi – è nato per la felicità, è fatto per essere felice, anche se non può mai esserlo compiutamente. Non parlava mai esplicitamente del piacere sessuale, perché la sua formazione culturale glielo impediva, ma in certe pagine, in certe analisi, in certe osservazioni, è evidente che è soprattutto quel piacere che aveva in mente.
Quanto all’homo faber, si può anche pensare, interpretando Marx non marxianamente, che il suo lavoro, il suo fare, siano per lui una condanna da cui non potrà mai liberarsi, o marxianamente, da cui si libererà solo con la lotta di classe. Ma, al di là della necessità, dell’alienazione, e della fatica che esso comporta, c’è, nel fare dell’essere umano, una sorta di vocazione profonda e irreprimibile. In certe condizioni, il piacere è nel fare. Pur nei limiti di una libertà non assoluta, anzi, spesso ferocemente repressa e negata, poter assecondare quella vocazione, esercitare pienamente le proprie facoltà, le proprie risorse, le proprie capacità, soddisfa un bisogno radicato profondamente nella vita psichica e nella vita corporale dell’essere umano e dunque dona un piacere altrettanto profondo. Non è in questione – è appena il caso di notarlo – un agire generico, indeterminato, indifferenziato. Si tratta, al contrario, di un fare diverso da persona a persona, determinato da precise competenze e procedure, razionalmente finalizzato e organizzato. Né si tratta, banalmente, di “rendersi utile”, anche se il “rendersi utile”, e il piacere che ne deriva, possono certo accompagnare il fare. Ma è questo, il fare, il pieno esercizio delle proprie capacità e delle proprie competenze, tanto più se queste sono rare, che adempie compiutamente l’umanità dell’essere umano, si tratti del lavoro manuale del muratore o del lavoro intellettuale del filosofo. Un tempo si parlava di “peccato contro lo spirito” quando si voleva indicare una colpa di particolare gravità dal punto di vista morale. Oggi possiamo parlare di uno dei più gravi peccati contro il corpo e contro lo spirito tutte le volte che, qualunque ne sia la causa, qualcuno ignora, o impedisce, o umilia, o reprime la vocazione fabbrile dell’essere umano. Posto che non sia un’utopia, la liberazione totale dell’uomo non potrà prescindere da quella vocazione.