La filosofia è il più radicale dei saperi, perché va alle radici ultime delle questioni. Al loro «fondamento». La radicalità e il rigore sono le sue caratteristiche essenziali.
Proprio perché un pensiero è filosofico solo se possiede quelle caratteristiche e non semplicemente perché si definisce tale, ci soffermiamo sul sedicente “discorso filosofico” del nuovo realista Markus Gabriel, a cui in questo ultimo periodo il Corriere della Sera ha offerto ampio spazio sia in risposta ad alcuni interventi della professoressa Donatella Di Cesare sia con una corposa video-intervista rilasciata il 18 maggio scorso in occasione del 28° Salone Internazionale del Libro di Torino. In quella video-intervista Gabriel liquida i grandi temi della filosofia con poche battute e rivolge a Heidegger la critica seguente: «Heidegger mi ha insegnato che c’è una domanda rispetto al senso dell’essere. Ma nella mia interpretazione non si tratta dell’essere. Secondo me “essere” non ha senso: essere è niente [risata]. Heidegger riconosce l’esistenza del mondo, per Heidegger il mondo è una proprietà dell’essere umano cioè io non sono in nessun senso heideggeriano. C’è qualcosa di valido in Heidegger, ma in generale la sua filosofia, che è antifilosofia, è una serie di scemenze».
Se Heidegger dice «scemenze», allora sentiamo cosa dice Gabriel. Ecco il fulcro della sua posizione: «Esistere vuol dire apparire in un campo di senso, cioè far parte di un contesto, di un contesto reale. Non c’è nessun contesto, per così dire, nessun contesto di tutti i contesti. C’è una pluralità di contesti, di campi di senso come dico io, ma questi campi di senso non sono unificati in una totalità onnicomprensiva. In questo senso il mondo non esiste».
L’affermazione che esistono contesti o campi di senso è presentata come una scoperta, in realtà è tanto nuova in filosofia quanto nella scienza l’affermazione dell’esistenza degli atomi. Ma ciò non stupisce, perché la tesi sostenuta da Gabriel è l’esito dell’unificazione di diverse posizioni filosofiche all’insegna della semplificazione. Dicendo «semplificazione» non si dà un giudizio, ma si indica uno dei tratti essenziali del nuovo realismo, per lo meno così come è fondato e proposto da Maurizio Ferraris nel suo «Manifesto del nuovo realismo»: «l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che lo si sappia sia che non lo si sappia. […] Posso sapere o non sapere che l’acqua è H2O, mi bagnerò comunque, e non potrò asciugarmi con il solo pensiero che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati. E questo… avverrebbe anche per un cane, dotato di schemi concettuali diversi dai miei, o per un verme, o addirittura per un essere inanimato come il mio computer, che, sebbene ignaro della composizione chimica dell’acqua, potrebbe subire danni irreparabili nel caso sciagurato in cui un bicchier d’acqua si rovesciasse sulla tastiera».
Le parole di Ferraris sono espressione di quel realismo «ingenuo» (diverso dal realismo «critico») che fonda il senso comune. Il che spiegherebbe il giudizio di «antifilosofia» che Gabriel dà al pensiero di Heidegger: se anche il “nuovorealista” Gabriel ritiene che la «filosofia» debba tenere fermo il «realismo ingenuo» (quel realismo ingenuo che fonda il senso comune), allora il pensiero che mette in discussione e nega il senso comune è certamente «antifilosofia».
Poniamo allora una domanda «antifilosofica» a Gabriel: l’affermazione che dice che esistono solo campi di sensi vale solo all’interno del campo a cui appartiene? Ovviamente no: se intende valere in modo assoluto, cioè per ogni esistente, è necessario che sia meta- o iper-contestuale. Ma la “metacontestualità” è solo una delle condizioni che tale affermazione deve rispettare per non contraddirsi. L’altra è che tale affermazione non sia inclusa in ciò che afferma, cioè che non sia investita dalla portata del suo dire. Infatti, se si lasciasse così includere, si chiuderebbe nel noto paradosso del mentitore di derivazione stoica. Facciamo un esempio. C’è una frase scritta su un foglio bianco che afferma: «su questo foglio non c’è scritto niente». Per non contraddirsi, l’affermazione deve presupporre che il contenuto del proprio dire valga per tutto tranne che per lei. Si pensi ai cartelli affissi con la scritta «divieto di affissione»: essi sono affissi solo in quanto presuppongono che il contenuto del divieto valga per tutti tranne che per loro. Nel caso di Gabriel l’impasse del paradosso del mentitore si presenterebbe così: se l’affermazione che «ogni cosa esiste solo in un campo semantico» vale per ogni «cosa esistente», allora vale anche per quella affermazione; ma se vale anche per quest’ultima, allora anche lei è chiusa in un contesto e non può dire cosa vale al di fuori. Se a quel punto, per valere per ogni contesto, pretendesse di non essere chiusa in un contesto, essa negherebbe ciò che afferma: che ogni cosa è chiusa in un contesto o campo semantico. Per evitare l’impasse, l’affermazione di Gabriel è perciò costretta a presupporre due cose: 1 di avere valore meta-contestuale; 2. che il suo contenuto valga per tutti tranne che per lei. Ma se in questo modo quella affermazione evita la contraddizione, non può evitare di affrontare il compito filosofico per definizione: mostrare il fondamento per cui il suo contenuto è «verità».
«Mostrare il fondamento». Questa è la differenza tra la filosofia e il senso comune. Al discorso di Gabriel, come a quello di Ferraris, manca appunto questo «mostrare». E infatti, invece di mostrare il fondamento per cui «tutto» è campo di senso, Gabriel fa il contrario e afferma che il «tutto» (cioè il «mondo», la «totalità onnicomprensiva», il «contesto dei contesti») non esiste. Invece di rivolgersi al tutto, lo elimina. Questa conclusione, di cui mi pare si fregi con non poca soddisfazione, contraddice le premesse e rende completamente inconsistente l’intero discorso. Se infatti il suo discorso vuole avere valore meta-contestuale – e si è visto che senza questo assunto non ha nulla da dire -, deve riconoscere che la condizione trascendentale dell’esistenza è l’accadere-apparire all’interno di un campo di senso: l’accadere entro un campo di senso è la legge che tutto accomuna, l’identità delle differenze, il contesto dei contesti, il «mondo» come «orizzonte onnicomprensivo» che abbraccia, accoglie e struttura tutto ciò che esiste. Invece di affermare questo senso della totalità, quale “legge” dell’esistenza vincolante per ogni cosa, il discorso di Gabriel nega l’esistenza della totalità.
A nulla varrebbe l’eventuale precisazione di Gabriel per cui l’affermazione «il mondo non esiste» indicherebbe una totalità ulteriore a quella consistente nell’essere un campo di senso. Se intendesse questo, infatti, Gabriel non farebbe altro che dire che non esiste nessuna totalità tranne la totalità. Dunque non direbbe affatto che «non esiste il mondo» come totalità onnicomprensiva: direbbe solo che oltre al mondo non esiste il mondo. Cioè direbbe, usiamo il linguaggio di Gabriel per capirci meglio, una «scemenza». Infatti che ha senso ha dire che c’è un’altra totalità oltre alla totalità? La totalità non è forse necessariamente una? La filosofia nasce quando si pensa che la «verità» è assoluta innegabilità e che ciò significa totalità: se non lo fosse, lascerebbe come non negata la sua negazione. Mostrando che la verità è necessariamente totalità, la filosofia mostra che la totalità è necessariamente UNA. E in quanto la totalità è necessariamente una, non si capisce cosa significhi dire che oltre alla totalità non esistono altre totalità.
Il tratto essenziale di questo pensiero è la mancanza del tratto essenziale della filosofia: la radicalità, il rigore, l’attenzione alla “fondatezza”. In questo senso è essenzialmente «antifilosofico». Assenza che inficia anche l’altra affermazione basilare, quella per cui esistere significa «apparire» in un campo semantico. Anche in questo caso Gabriel dà per scontato cosa significhi apparire. Gli chiediamo perciò: cos’è l’apparire? Atto? Coscienza trascendentale? Purezza fenomenologica? E poiché per lui «l’essere non ha senso: essere è niente», la risata con cui aveva liquidato la questione dell’essere gli si ritorce contro di fronte alla domanda inevitabile: l’esistere-apparire in un campo di senso è «essere-niente» oppure è «essere» in quanto non è «niente» nel senso del nihil absolutum? Anche Heidegger diceva che «essere è niente», ma affermandolo sapeva bene di dover innanzitutto chiarire che quel «niente» (Nichts), che è lo stesso «essere» (Sein), non è affatto «etwas Nichtiges» («qualcosa di nullo»). A differenza di Gabriel, Heidegger sa di doversi rivolgere al «fondamento» di ciò di cui parla. Anche se poi in vari modi si contraddice. E per questo va criticato: filosoficamente, mettendone in luce le eventuali contraddizioni.
La filosofia insegna che spesso si crede di dire qualcosa perché si rimane alla superficie di ciò che si dice; andando in profondità, alle famose radici di cui si parlava all’inizio, ci si accorge che il contenuto manifesto e intenzionale è in contraddizione con quello fondante ma nascosto. È quanto accade a coloro che intendono la filosofia come esercizio di superficie e di rapidità. Poco più che
uno slogan. Come l’affermazione di Gabriel che «il mondo non esiste». Una conclusione questa che mi pare incontri quanto ipotizzato sulle pagine delle Corriere della Sera (20/05/2015) da Donatella Di Cesare: che si sia di fronte a una «operazione di marketing» che ha davvero poco a che fare con la filosofia.