Negli ultimi anni, nel campo della critica cinematografica internazionale e soprattutto negli ambienti accademici anglosassoni, una ricca serie di pubblicazioni ha iniziato ad esaminare l’emergere teorico e pratico di un genere cinematografico alquanto difficile da categorizzare, quello del film-saggio (o essay film). Due volumi in particolare hanno cercato di istituire e collocare storicamente il film-saggio a partire dal contesto del cinema documentario: The Personal Camera: subjective cinema and the essay film (2009) di Laura Rascaroli e The Essay Film: From Montaigne, after Marker (2011) di Timothy Corrigan. Di recente, la prima edizione dell’Essay Film Festival, organizzata dal Birkbeck Institute for the Moving Image (Birkbeck, University of London) dal 24 al 29 Marzo 2015, e la conferenza internazionale ‘World Cinema and the Essay Film’, organizzata dal Centre for Film Aesthetics and Cultures (University of Reading) dal 30 Aprile al 2 Maggio 2015, hanno rifocalizzato l’attenzione sul film-saggio principalmente in ambito accademico ma con incursioni molto interessanti nelle pratiche contemporanee, in un’ottica di internazionalizzazione della pratica stessa.
Se il canone, ormai delineato sia da Rascaroli che da Corrigan, identifica il film-saggio come un non-genere filmico in bilico tra cinema documentario e cinema sperimentale attraverso le opere di diversi autori come, tra gli altri, Chris Marker, Agnés Varda, Alain Resnais, Harun Farocki e Jean-Luc Godard, oggi, con l’avvento delle tecnologie digitali e internet, il film-saggio potrebbe configurarsi come pratica riflessiva, non solo nel campo circoscritto dei film studies, ma, a mio parere, in un ambito allargato anche alle visual cultures, alla film-philosophy e agli studi sulla società digitale. Infatti, il film-saggio, se posizionato nel contesto contemporaneo della saturazione visiva e di quell’ossessiva tendenza implicita alla modernità di visualizzare la realtà in toto (Nicholas Mirzoeff), si presta congruamente come strumento critico nel pensare il potere delle immagini. Il film-saggio sembra addirittura mettere in pratica quella nozione di double consciousness, invocata dallo studioso americano W. T. J. Mitchell in What Do Pictures Want?: The Lives and Loves of Images. Mitchell afferma che le immagini siano ‘organismi viventi’ e desideranti dotate di vita autonoma e che la nostra relazione con esse sia sempre in bilico su una sorta di doppia coscienza tra un credo magico semi-ancestrale e naive e un approccio critico e razionale che tenta di scoprirne significati reconditi. Questa doppia coscienza come pratica critica, sostiene Mitchell, dovrebbe guidarci a colpire le immagini (to struck the images) non per andare oltre la rappresentazione ma per coltivare il paradosso insito nelle immagini stesse: il fatto cioè, che le immagini “sono vive – ma anche morte: potenti – ma anche deboli; portatici di significato – ma anche insignificanti” (Mitchell 2005; 10). Prendiamo come esempio uno dei primi film-saggio del secondo dopo-guerra: Les statues meurent aussi, co-diretto da Alain Resnais e Chris Marker (1953), in cui i due registi francesi, a partire dalla trasformazione attuata dal colonialismo francese nei confronti dell’arte africana, esplorano l’ingiunzione di questo snaturamento, proprio come veicolo di quel paradosso delineato da Mitchell. Dall’arte africana nei musei francesi alla sua commercializzazione come feticcio consumistico che neutralizza la cultura d’origine, il film-saggio di Resnais e Marker si articola innanzitutto come discorso sull’uso e abuso delle immagini e su come, in una molteplicità di significati, vivano di vita propria e chiedano, continuamente, di essere ‘colpite’, ri-attualizzate e ri-mobilitate contro il rischio di una loro totale atrofizzazione nella società dello spettacolo.
Il film-saggio, a livello narrativo, è solitamente identificabile per l’uso della voce fuori campo che guida lo spettatore attraverso riflessioni più o meno collegate alle immagini e che colloca in primo piano la figura dell’autore e la sua autorialità. Nel film-saggio, l’Io dell’autore-regista, come afferma Timothy Corrigan, si articola tra espressività ed esperienza, destrutturandosi in maniera differenziale al contatto con la sfera pubblica, provocando un corto circuito tra Storia e memoria e depotenziando qualsivoglia oggettività inerente all’immagine documentaria, finalmente liberata da quella ‘tirannia del significato’ invocata già trent’anni fa dalla regista e accademica di origini vietnamite Trin Minh-Ha. È assolutamente efficace inoltre l’analisi e la suddivisione tematica che Laura Rascaroli compie nei confronti del film-saggio attraverso il lavoro dei tre maestri che più hanno contribuito alla sua diffusione: Harun Farocki e il suo utilizzo della voce fuori campo come strumento meta-critico nei confronti dell’autorità/autorialità del regista; Chris Marker e il cuore pulsante del suo fare cinema dove memoria, archivio e soggettività criticano quella ‘musealizzazione dell’esperienza’ (come abbiamo appena visto in Les statues meurent aussi) e sua conseguente neutralizzazione durante la modernità; ed infine il lavoro di Jean-Luc Godard, dove l’atto comunicativo si trasforma in atto performativo e i confini tra finzione e cinema del reale si assottigliano in una molteplicità di modi di presentazione (dal dialogo al monologo, dall’intervista alla lezione frontale). Rascaroli inoltre contribuisce in maniera determinante a stabilire cosa può essere interpretato come film-saggio e cosa non, delineando una distinzione basata essenzialmente sul rapporto tra cinema e spettatore. Nel film-saggio, come afferma la studiosa, lo spettatore è embodied, cioè parte costituente del presunto dialogo autore-spettatore, rapporto riassumibile con le seguenti parole: “Io, l’autore, sto riflettendo su un problema e condivido i miei pensieri con te, lo spettatore”. Al contrario, nei film in prima persona, a cui Rascaroli dedica la seconda parte della monografia (dai diari di Sokurov agli Appunti pasoliniani fino all’auto-ritratto filmico di Antonioni in Lo Sguardo di Michelangelo), il patto tra la presenza autoriale del regista e lo spettatore si interrompe in un discorso prettamente più autobiografico ed individuale che non intende coinvolgere o connettersi con lo spettatore in maniera così diretta.
Come ricorda la stessa Rascaroli citando André Bazin a proposito di Lettre de Sibérie di Chris Marker, il concetto di saggio, al di là della varie suddivisioni tecniche, rimane il presupposto più importante di questa pratica, perché la configura come ipotesi filmica per scrivere e pensare il cinema attraverso quella doppia coscienza proposta da Mitchell. Un film-saggio, come ogni film d’altronde, si scrive, letteralmente. Con l’ausilio delle immagini, certamente, ma l’atto di scrivere o riscrivere la realtà si affianca nel caso del film-saggio ad una ridefinizione dello sguardo come atto significante di negoziazione della realtà filmica in sè, tra immagine come organismo autonomo e lo spostamento semantico dell’immagine del reale attraverso le nuove frontiere dei media contemporanei. Il film-saggio coincide probabilmente con quell’idea di cinema impuro, riesaminata recentemente, a partire dalla famosa difesa dell’impurità di bazininiana memoria, da Lucia Nagib e Anne Jerslev nel volume collettivo Impure Cinema: Intermedial and Intercultural Approaches to Film, per descrivere quei contesti di ricerca visiva ibridi ed intermediali presenti nella società contemporanea.
In altre parole, il fattore ‘saggistico’ del film-saggio presuppone la volontà innanzitutto concettuale di usare le immagini in movimento per pensare sia la realtà in quanto tale sia la realtà filmica; da questo punto di vista, potrebbe essere utile e avvincente configurare lo studio del film-saggio anche in relazione a quella ‘ritenzione terziaria’ o ‘memoria esteriorizzata’ che il filosofo francese Bernard Stiegler impiega nell’articolare la sua filosofia del tempo e della tecnologia della memoria epigenetica (somatica e nervosa). Stiegler, a partire da Husserl, distingue tre tipi di ritenzioni o processi legati alla memoria: le ritenzioni primarie (cioè nostre percezioni del vissuto), le ritenzioni secondarie (la memoria umana e i nostri recordi), e le ritenzioni terziarie (la memoria epigenetica prodotta dalla grammatizzazione). Quest’ultime, che trovano nelle immagini del cinema e dei media un luogo di elaborazione e riproduzione instancabile perchè rappresentano le forme oggettive e pubbliche della memoria umana odierna, diventano delle protesi fondamentali nel pensare la questione stessa dell’eredità (culturale) e della sua trasmissione, cioè in sostanza il rapporto che intercorre tra Storia e memoria, soggettività e individuazione. Se le immagini, secondo Mitchell, devono essere considerate organismi viventi, sarebbe interessante capire ed esplorare in che modo e su quali livelli le immagini siano in grado di generare una propria memoria collettiva da ri-immettere nel circolo totalizzante della nostra società contemporanea ossessionata dall’immagine (sulla scia, senza dubbio, delle ways of seeing di John Berger). Affrontare le particolarità del film-saggio nei vari contesti dove viene prodotto e distribuito, significherebbe dunque ponderare come e in che termini, come forma meta-cinematografica, esso sia in grado di indagare il paradosso dell’immagine come organismo vivente (in grado quindi di produrre una memoria di sé in un ipotetico archivio infinito di immagini). Il compito del film-saggio, nelle dinamiche di produzione, distribuzione e ricezione, diventerebbe quello di ri-costruire un terreno fertile di sperimentazione, dove teorie e pratiche delle culture visuali contemporanee possano ricongiungersi in maniera creativa.