Thomas Piketty pur ponendo una seria questione intorno alle crescenti disparità nei redditi e al conseguente all’allargamento della forbice fra ricchi e poveri in molti paesi occidentali – e non solo – non ha nulla a che fare con Marx. Utilizza molti strumenti teorici, ma non “il meglio di Marx” (Flavio Pressasco Qualche aggiunta ai commenti sul libro di Piketty in www.scenari.mimesis.it), visto che, come ho già sottolineato, ha più volte ammesso di non averlo letto.
Intendo sostenere con forza, e spero argomentazioni, che le tesi di Piketty non hanno nulla a che fare con le categorie analitiche marxiane e che alcuni presupposti teorici utilizzati appartengono in modo sostanziale agli strumenti utilizzati dagli economisti mainstream e non all’economia critica.
Non sono l’unica ad avere questa posizione, ma sono pressoché la sola a sostenerlo nel panorama di quel che leggo sull’argomento nel nostro Paese e forse questo capita perché il libro di Piketty è rimasto sottotraccia nel dibattito economico italiano.
Solo entrando nel merito delle categorie concettuali, entro le quali racchiude i dati che fornisce, è possibile argomentare la sua distanza da Marx. Ma perché è rilevante ribadire questa distanza? Ne va del merito, del contenuto e delle cause della crisi, e soprattutto delle soluzioni e della natura del conflitto sociale. Quest’ultimo è infatti attualmente relegato a dinamiche e valutazioni morali.
Non intendo sostenere che non sia una questione dirimente quella della disparità del reddito. Come ho già scritto qui, Piketty non è il primo – precedentemente se ne sono occupati Amartya Sen e Joseph Stiglitz, solo per citare due premi Nobel – che negli ultimi anni ha messo al centro della riflessione quest’ordine di problemi, cercato di individuarne cause e responsabilità, formulato proposte per rimediare alle conseguenze, considerate nefaste per l’intero sistema economico, in quanto quando le disparità di reddito si allargano in modo considerevole mettono in discussione la democrazia – così come fino a oggi è stata pensata – e le sue dinamiche.
Indubbiamente l’economista francese affronta la questione con una gran massa di dati storici che rappresentano un’importante fonte di lavoro e che documentano dettagliatamente l’evoluzione nel corso degli ultimi due secoli delle disuguaglianze sociali rispetto sia alla ricchezza che al reddito. Ed è altrettanto inequivocabile che la teoria “trickle down”, secondo la quale la redistribuzione avverrebbe a partire dall’alto, non ha funzionato, il che ha posto la drammatica questione della domanda interna, a cui si è risposto con lo sviluppo del sistema finanziario e in specifico con la crescita dei prodotti finanziari. Due questioni del tutto assenti nel testo di Piketty.
Il suo non è affatto un libro sul capitale, infatti fa coincidere ricchezza e capitale sul piano concettuale, una distinzione che è invece propria di Marx. L’analisi di quest’ultimo è focalizzata sul processo che genera, crea, la produzione di valore, su quali ne sono i soggetti portatori e su come parte di questo valore viene riconosciuto come “salario”. Attenzione, come salario, non come reddito. La distinzione non è trascurabile bensì centrale. Marx in più punti del Capitale, nel capitolo sulle macchine e nel Frammento sulle macchine riconosce proprio al progresso tecnologico la possibilità di essere durevole e di generare una costante crescita della produttività e in questo vede il limite contro il quale il lavoratore si trova a dover fare i conti.
Per Piketty il capitale è una cosa e non un processo, come è invece per Marx, secondo il quale è il processo di valorizzazione insito nel processo di produzione che lo genera. Denaro, terreni, immobili, fabbriche e macchinari non utilizzati in modo produttivo, non sono capitale. Piketty definisce invece il capitale come lo stock di tutti i beni detenuti da privati, aziende e governi (terreni, immobili, opere d’arte, gioielli, diritti di proprietà intellettuale), beni che possono essere intermediati. “Capitale” e “patrimonio” sono per lui termini intercambiabili, anzi “perfetti sinonimi” (p. 84). Piketty fonde i beni strumentali fisici insieme a tutte le forme di denaro, compreso terreni e abitazioni, sia che siano coinvolte in un processo produttivo sia no, considerandole tutte nel computo della “ricchezza”. L’unica esclusione che compie riguarda il “capitale umano”, perché a suo avviso non può essere comprato o venduto (p. 77).
Come determinare il valore di questo stock è un problema tecnico complicato che non ha una soluzione condivisa e che ha visto un lungo dibattito fra economisti, in particolare negli anni ’70, dove due italiani ne sono stati fra i protagonisti principali: Pierangelo Garegnani e Luigi Pasinetti.
A partire dai suoi dati Piketty ricava una legge: la progressiva accumulazione di ricchezza sarebbe dovuta al semplice fatto che il tasso di rendimento del capitale (r) supera sempre il tasso di crescita del reddito (g) e il rapporto capitale/reddito sarebbe costantemente aumentato dalla fine degli anni ’70 a oggi. La formula r>g indica che il rendimento del capitale cresce più di quanto faccia il PIL. Individua, inoltre, la regola α = r x β (“redditi da capitale nella composizione del reddito nazionale totale” è uguale al “tasso di rendimento del capitale” per “indice capitale/reddito”) e la regola β = s/g (“s” è il tasso di risparmio e “g” il tasso di crescita). Quindi l’indice capitale/reddito (cioè il grado di patrimonializzazione di una società) dipenderebbe dal suo tasso di risparmio diviso il suo tasso di crescita. La conseguenza di queste formule è che un Paese che risparmia molto e cresce lentamente – come l’Italia – accumulerebbe nel tempo un enorme stock di capitale.
Proprio queste categorie e il modo di trattarle sono elementi riconducibili alla teorie mainstream e ben lontane dall’apparato teorico di Marx. Per poter calcolare il tasso di rendimento (r) è necessario avere a disposizione una modalità per valorizzare il capitale iniziale. Purtroppo non c’è modo per valorizzarlo indipendentemente dal valore dei beni e dei servizi utilizzati, o dal prezzo al quale può essere venduto sul mercato. L’intero pensiero economico neoclassico si fonda infatti proprio su questa tautologia, ben nota agli economisti perché messa in luce da Piero Sraffa negli scritti del 1925 e 1926 e che Piketty sembra ignorare. Non si possono sommare i valori dei diversi oggetti di capitale per ottenere un quantitativo comune senza una metrica, che deve rinvenirsi nel mondo fisico e non essere di natura finanziaria.
Quando Piketty parla di rendimento del capitale assume invece in toto i presupposti della teoria neoclassica più classica, che ha appunto riformulato il capitale come un elemento fisico, che lavora in simbiosi con il lavoro per produrre un output. Questa nozione di capitale ha permesso l’espressione matematica della “funzione di produzione”, cosicché i salari e profitti vengono collegati ai rispettivi prodotti “marginali”. Questa struttura teorica individua il valore nel prezzo di mercato. Il rapporto capitale/reddito è di conseguenza fortemente influenzato dai prezzi di mercato. Ma i prezzi oscillano per i più diversi motivi, e in modo non sempre correlato con la crescita effettiva dei fattori produttivi.
La coincidenza fra capitale e patrimonio, cardine delle tesi di Piketty, non consente di leggere la meccanica della formazione delle bolle finanziarie, cioè la dinamica dell’espansione nominale dei prezzi dovuta all’impiego sovrabbondante di capitale in beni posizionali scarsi con l’obiettivo di ingrossare il patrimonio nominale. Una dinamica che sottrae risorse alla crescita dei fattori produttivi e alla espansione della domanda, che ne è il presupposto operativo. La “crescita strutturale del rapporto capitale/reddito, insieme alla enorme espansione degli investimenti finanziari” (p.456) come elemento rilevante della crisi iniziata nel 2007, rimane in tal modo trascurata e inspiegata.
Il tasso di rendimento del capitale dipende, invece, in modo cruciale dal tasso di crescita del sistema perché il capitale si valorizza attraverso cosa produce, e non attraverso ciò che serve alla produzione. Inoltre, il valore del capitale è fortemente influenzato dalle condizioni speculative e può essere seriamente modificato dall’ “esuberanza irrazionale”, caratteristica dei mercati immobiliari e finanziari. Se sottraiamo dalla definizione di capitale – per esempio – abitazioni, immobili e titoli mobiliari, allora la spiegazione di Piketty per le crescenti disparità di ricchezza e reddito mostra la sua debolezza, benché rimangano inalterate le evidenze sulla crescita delle disuguaglianze di reddito.
Un’obiezione che ha preso consistenza grazie al lavoro di Matthew Rognlie, il quale ha presentato la sua critica a Piketty alla prestigiosa Brookings Institution con uno studio poi ripreso da testate come il Financial Times, l’Economist, Bloomberg e il Washington Post. Secondo Rognlie non è affatto detto che il rendimento del capitale sia destinato a rimanere così alto, anzi, per la legge dei rendimenti marginali decrescenti, quanto più il capitale si accumula tanto più il tasso di ritorno sul capitale è destinato a ridursi. Un’obiezione che è stata mossa anche da Deirdre N. McCloskey in “Measured, Unmeasured, Mismeasured, and Unjustified Pessimism: A Review Essay of Thomas Piketty’s Capital in the Twenty-First Century”.
Utilizzando i dati delle sette principali economie occidentali, Rognlie ha mostrato come l’aumento della quota di reddito prodotta dal capitale in realtà è dovuto sostanzialmente al settore immobiliare, mentre per tutti gli altri settori la quota di reddito da capitale è rimasta costante, addirittura in leggero calo. In pratica è l’aumento dei prezzi e dei valori delle costruzioni il fattore interamente responsabile della crescente preponderanza del capitale nell’economia. Erravano quindi, sia Nicholas Kaldor quando argomentava che nel lungo periodo la quota di reddito da capitale tenderebbe a equilibrarsi rispetto ai redditi da lavoro; sia Simon Kuznets che riteneva che la disuguaglianza sarebbe diminuita nelle economie mature. Kuznets costruisce un’argomentazione secondo la quale la distribuzione del reddito tenderebbe a peggiorare nella prima fase dello sviluppo, migliorando invece in maniera costante con la transizione a un’economia di tipo industriale: maggiore è lo sviluppo economico di una nazione, minore sarebbe il divario fra ricchi e poveri.
In tempi recenti Daron Acemoglu e James Robinson (2012) hanno invece posto l’accento sul ruolo svolto dalle istituzioni politiche per stabilizzare il sistema economico. Essi sostengono che, a una maggiore instabilità politica, spesso e volentieri, corrisponde un livello più alto di disuguaglianza fra i cittadini di una nazione.
Ben prima di Matthew Rognlie, Debraj Ray (2014), professore di sviluppo economico presso la New York University, ha sostenuto che le leggi di Piketty non spiegano nulla riguardo la crescente disuguaglianza economica. Una posizione accademica analoga è stata argomentata da Odran Bonnet, della Parigi Science Po, da Per Krusell, dell’Università di Stoccolma e da Tony Smith, dell’Università di Yale. A loro avviso se si sottraggono per esempio i prezzi delle abitazioni dal calcolo del capitale, si può vedere come, in pratica, il rapporto capitale/reddito sia sceso negli Stati Uniti fin dai primi anni ‘80 e sia rimasto più o meno costante in molti dei principali paesi europei nel corso degli ultimi 30 anni. Le stime pubblicate da Chirinko e Mallick (2014) e Thwaites (2014) dimostrano anche come il rapporto capitale/reddito (β) sia rimasto stabile negli ultimi decenni e che l’aumento identificato da Piketty sia dovuto principalmente al cosiddetto “valuation effect “dovuto allo sproporzionato aumento in valore di alcuni assets, appunto, come le abitazioni.
Al fine di mettere in relazione il costante aumento del rapporto capitale/reddito (β) e l’aumento della quota di capitale nel reddito nazionale (α), Piketty va oltre e cerca di dimostrare che questa correlazione positiva è dovuta a una elasticità di sostituzione fra capitale e lavoro (σ) maggiore di uno (pp. 220-221). Ma il costante calo della quota di lavoro nel reddito nazionale dal 1970, in tutti i paesi presi in esame dall’economista francese è dovuto soprattutto al calo di potere politico ed economico del lavoro, poiché sono state messe in campo tecnologie, delocalizzazioni e politiche del lavoro che hanno favorito la crescita di (r) rispetto a (g). Quindi la centralità dell’analisi dovrebbe essere posta su questo conflitto e non sulla sola distribuzione del reddito, perché questa è unicamente una conseguenza. Ineluttabile.
Il lavoro di Piketty lo conduce inevitabilmente a formulare proposte “palliativo” e ad argomentare sia in favore della tassazione progressiva, sia di una tassa sul patrimonio globale quale unica soluzione per contrastare la tendenza verso la creazione di una forma “patrimoniale” di capitalismo, sia difende le tasse di successione. Sarebbero questi gli antidoti a un’ulteriore concentrazione di ricchezza e potere, in modo da modificare il più possibile il r>g nel rapporto r=g.
I suoi dati e i suoi presupposti teorici lo conducono ad auspicare consistenti interventi redistributivi da parte dello Stato, poiché il libero mercato non sarebbe in grado di distribuire ricchezza. Questa tesi è di gran lunga meglio argomentata dai lavori di Mariana Mazzucato (2014).
Infine, il testo di Piketty non offre argomentazioni sulla differenza nei tassi di crescita fra Stati Uniti e Cina, e soprattutto sulle ragioni per cui l’Europa è un continente in preda alla stagnazione.
In sostanza per Piketty è la rendita il principale problema, perché inibisce la meritocrazia e disincentiva l’investimento individuale nella competenza (p. 653), e non è una imperfezione del capitale, semmai il contrario.
Il dibattito intorno alla diseguaglianza sta prendendo anche strade in parte molto vecchie, ma in chiave rinnovata. Ne è un esempio il lavoro di Angus Deaton La grande fuga. Un testo, altrettanto significativo per la mole dei dati e degli esempi di quello di Piketty, dove si sostiene che alcuni soggetti, e alcuni Paesi si trovato a essere più avanzati di altri sul piano economico e su quello sociale proprio per le disuguaglianze e questo perché la crescita, in linea di principio, sarebbe alla portata di tutti. È sufficiente che esistano le condizioni che la fanno aspirare. Pertanto le disuguaglianze sarebbero necessarie alla crescita e allo sviluppo, anche se nel caso in cui venga meno la crescita, e con essa l’aumento delle risorse necessarie da erogare ai meno fortunati, le disuguaglianze possono diventare insostenibili sul piano sociale. La singolarità della tesi di Deaton è tanto più significativa in quanto il suo pensiero è orientato a dimostrare l’importanza dell’eliminazione delle disuguaglianze, al fine di garantire la stabilità sociale necessaria alla crescita economica a livello individuale e collettivo.
La questione continua, anche perché le disparità di reddito seguitano a crescere e prendono forme diverse nello spazio e nel tempo, come dimostra il dibattito sulle pensioni, sulla previdenza e sull’assistenza nel nostro Paese.