Nel congedarsi da un pubblico di architetti in occasione del convegno “The Urban Landscape” svoltosi nella città di Tokyo il 12 ottobre 1991, Wim Wenders li esortava a considerare il loro lavoro come «creazione di luoghi futuri per i bambini», che «andranno a forgiare il loro mondo di immagini e desideri». Asserzione poi ribadita dall’autore di Paris Texas oltre due decenni più tardi in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Architettura da parte dell’Università degli Studi di Catania, quando ricorda come «le nuove città e i nuovi edifici devono ancora aiutare la gente a migliorare la propria vita e, sì, a rendere l’umanità migliore».
Non deve pertanto stupire che gli spazi architettonici o, meglio ancora, urbani, siano un soggetto privilegiato della filmografia e della letterarietà di Wim Wenders – per il quale il cinema è «una cultura urbana», essendo il cinema e le città «cresciute e diventate adulte insieme». Entrambe le arti, muovendo dal principio dell’atto del vedere, si interrogano sul “come vivere”; nell’indagare il “senso del luogo”, devono pertanto essere in grado di confrontarsi con il vuoto, «affinché la sovrabbondanza [di immagini ed episodi architettonici] non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro».
Da questo profondo interesse ai temi architettonici – che porterà il regista ad affermare che la pianificazione urbana «troppo spesso ha cancellato l’essenziale dalle città, al punto che spesso la qualità di una metropoli è direttamente proporzionale all’assenza di pianificazione» – deriva la centralità conferita nelle produzioni del realizzatore tedesco al contesto paesaggistico che fa da sfondo alle sue storie; nei suoi lavori, il luogo non è più semplice supporto narrativo o medium metaforico, bensì esso diviene, come sostiene Filippo D’Angelo in Wim Wenders, «paritetico al personaggio, presenza concreta e impenetrabile che acuisce la crisi e l’isolamento dell’individuo». «Una strada, una fila di case, una montagna, un ponte, un fiume», ricorda Wenders in L’atto di vedere, «sono più di un semplice sfondo. Possiedono infatti una storia, una personalità, un’identità che deve essere presa sul serio; e influenzano il carattere degli uomini che vivono in quell’ambiente, evocano un’atmosfera, un sentimento del tempo, una particolare emozione».
Attraverso un sapiente racconto per immagini e un uso parsimonioso di dialoghi e voce narrante, le sue pellicole si snodano intorno a una struttura narrativa che è, per Giorgio Tinazzi in L’insaziabilità dello sguardo, essa stessa “itinerario”, e ospitano, come nota Bernardo Valli in Lo sguardo empatico. Wenders e il cinema nella tarda modernità, personaggi che diventano «gli eroi di una nuova navigazione e gli esploratori di un territorio che, oltre la superficie, nasconde uno spazio-tempo […] che non è facile scoprire». I suoi film, infatti, rappresentano un invito a indagare quel mondo-della-vita di husserliana memoria (contrapposto al mondo-vero-in-sé), a osservarlo con sguardo empirico, puerile, e parteciparvi con un atto di empatia, consentendo molteplici mutevoli interpretazioni.
Sembra rappresentare l’apice di questa ricerca l’ultimo progetto 3D wendersiano, Cathedrals of Culture, quasi un’esplorazione “sensibile” merleau-pontiana in tre dimensioni tra le mura di sei edifici – la Filarmonica di Berlino, la Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo, il Carcere di Halden, il Salk Institute a La Jolla, l’Opera House di Oslo, il Centre Pompidou di Parigi – messa in scena da sei acclamati registi. Esperimento già avviato nel 2010 in occasione della XII Biennale di Venezia – magistralmente diretta dall’architetto giapponese Kazuyo Sejima e avente per tema “People meet in architecture” –, con il cortometraggio If buildings could talk, avente per oggetto il Rolex Learning Center di Losanna dello studio giapponese SANAA, dopo il felice tributo al tanztheater di Pina Bausch, Pina, in cui sperimenta le potenzialità del 3D, il cineasta di Düsseldorfporta al confronto diretto registi e architetti, questi ultimi impersonati dalle loro opere.
Le Cattedrali, vere e proprie eterotopie, per Michel Foucault «una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura, vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti», non rappresentano un semplice supporto narrativo, ma diventano l’oggetto privilegiato di un racconto volto a evidenziare l’impatto che l’opera architettonica produce nel contesto socio-politico in cui si inserisce – «noi edifici abbiamo molta più importanza di quanto possiate pensare», dirà la Filarmonica di Berlino. Attraverso una «narrazione “descrittiva” la cui lentezza è la conseguenza di una rispettosa fedeltà alla dimensione spazio-temporale del reale», come ricorda Filippo D’Angelo, il produttore esecutivo di Cattedrali della Cultura, padre di un cinema di evidenza in cui, secondo Bernardo Valli, «il divenire e la vita sembrano essere gli elementi più forti», prova a esprimere – tentativo, bisogna riconoscerlo, non sempre riuscito – «cosa direbbero questi ultimi se potessero parlare», attraverso quello che lui definisce «un progetto 3D sull’anima degli edifici». E lo fa raccontando attraverso un “viaggio” a sei tappe, grazie all’aiuto di cinque autorevoli colleghi (nell’ordine, Michael Glawogger, Michael Madsen, Robert Redford, Margreth Olin e Karim Aïnouz), des autres espaces, «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica» – sostiene Foucault in occasione della conferenza tunisina del 1967 – «di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sottendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi designano, riflettono o rispecchiano».
La Philharmonie Berlin, «icona della modernità», opera dell’architetto tedesco Hans Sharoun inaugurata nel 1963, rappresenta per Wenders «un edificio rivoluzionario», il primo dell’era moderna in cui il podio dell’orchestra occupa la sezione centrale della sala pentagonale, «simbolo di speranza e di emancipazione, in netto contrasto con la simbologia drammatica del Muro». Un edificio che diventa esso stesso strumento musicale, in cui la musica apre al visitatore la stessa esperienza immersiva che la tecnologia del 3D offre allo spettatore.
La Российская национальная библиотека, Biblioteca Nazionale Russa, «impero silenzioso delle idee» realizzato nel 1814 su progetto di Yegor Sokolov, viene interpretata nel secondo cortometraggio da Michael Glawogger come un monumento testimone dell’inesorabile scorrere del tempo, un libro su cui si imprimono indelebili le pagine della storia nazionale, anche quella del cloud computing, destinata a fare di questa un semplice simulacro del passato.
L’Halden fengsel, opera dello studio danese EMA definita dalla rivista Time «la prigione più umana del mondo», rappresenta per Michael Madsen l’occasione per indagare il confine tra gli ideali umanisti di riabilitazione al pensiero e alla vita e la volontà di vendetta e punizione della società che si materializza in un’istituzione totale, l’asylum di cui parla Erving Goffman, attraverso un edificio in cui «l’espressione della potenza è l’umanità».
Robert Redford, regista del quarto episodio, esplora poi il modo in cui il Salk Institute for Biological Studies, «monastero della scienza» commissionato nel 1959 all’architetto di origini ebraiche Louis Kahn nel 1959 dal virologo Jonas Salk, ispira il lavoro degli scienziati. Nel tentativo di infondere l’arte nella scienza – a suo avviso intenzione dello stesso batteriologo al momento in cui aveva concepito l’edificio –, il corto esplora il legame “spirituale” tra scienziati ed edificio, vero e proprio luogo di ispirazione per i ricercatori.
L’Operahuset, penultimo capitolo, opera del 2007 dello studio Snøhetta,«simbiosi futurista di arte e vita», diventa per Margreth Olin la lastra di vetro, il dentro-fuori tramite cui osservare «la gente, i loro visi, i loro corpi e le loro relazioni con l’edificio».
A segnare la tappa conclusiva dell’”itinerario” wendersiano è il Beaubourg, «macchina della cultura moderna» realizzata da Renzo Piano e Richard Rogers nel 1977, che rappresenta per Karim Aïnouz«un luogo che ci porta costantemente avanti, sia nello spazio che nel tempo», pulsante crocevia di flussi di visitatori trepidanti.
Un “viaggio per edifici”, dunque, quello pensato dall’ideatore de Il cielo sopra Berlino, costruzioni “vissute” rappresentative del mondo-della-vita, «sintesi di una giustapposizione di spazi normalmente incompatibili in un luogo reale», che diventano oggetto di osservazione e di riflessione di uno spettatore flâneur, protagonista di quell’architettura dell’ascolto auspicata da Paolo Portoghesi in cui«ogni cosa sia insieme interrogazione, possibilità di avvicinamento ad altre cose, possibilità di metamorfosi».