Il linguaggio della cultura nell’Italia degli ultimi anni

 

 

Nessun posto forse del mondo occidentale come l’Italia degli ultimi quattro-cinque anni ha conosciuto un dibattito pubblico così intenso e variegato sui temi della cultura. Ricchezza delle posizioni, e spettro molto ampio: dalla conservazione tout court all’orientamento della privatizzazione più estrema. Il problema è che gli stessi termini arrivano a significare cose e concetti diversissimi, anche opposti a seconda di chi li pronuncia, e delle posizioni culturali, politiche, sociali da cui essi vengono pronunciati. Occorre provare a fare un minimo di chiarezza, o quantomeno cimentarsi in un’interpretazione che dia conto e che si inserisca consapevolmente in una cornice storica di riferimento, in un sistema di valori. Il sottotitolo di questo intervento recita: “versioni, interpretazioni, travisamenti”; ma avrebbe potuto benissimo essere anche: “scorie, incrostazioni, sovrapposizioni”.

 

CULTURA. Occorre intendersi prima di tutto, naturalmente, su che cos’è e che cosa significa “cultura”. Distorsione principale: quasi sempre cultura in Italia è sinonimo di ‘cultura del passato’, prodotta nel passato – più o meno lontano. Manca qualunque relazione attiva tra questo passato e la produzione (oltre che la fruizione) contemporanea. A quanto pare, proviamo un’attrazione fortissima per l’idea di trasformarci nei custodi mesti delle tombe di famiglia, e di puntare su questo la volontà di invertire la rotta di un declino iniziato non cinque, ma cinquecento anni fa. Il nostro è l’unico posto in cui gli assessorati cittadini e regionali assommano, e quasi sovrappongono, i territori della cultura e del turismo: il risultato consiste molto spesso in politiche orientate principalmente verso i visitatori, e non verso i residenti (i fruitori primi e principali di ogni contesto urbano e territoriale). È come se, pervicacemente, invertissimo in modo costante l’ordine della proiezione identitaria verso il punto di vista esterno, e della sua percezione interna.

La questione che ruota attorno alla “creazione del pubblico” è mal posta, perché deriva da una concezione imprenditoriale risalente a più di vent’anni fa. Non ha senso, infatti, chiedere agli spettatori (al pubblico) quali sono i loro desideri e le loro esigenze in relazione alla cultura. La “fame” di nuovo è l’esigenza unica – e uno non sa di che cosa ha fame finché non ha provato, riprovato, sperimentato, assaggiato. Come del resto argomenta chiaramente Donald Sassoon nel suo monumentale e documentatissimo saggio La cultura degli europei dal 1800 ad oggi(The Culture of the Europeans, 2006), Rizzoli, Milano 2008) è sempre l’offerta culturale a creare un proprio pubblico e quindi una propria domanda pagante, e non il contrario: nessuno sa di desiderare una determinata esperienza culturale prima che qualcuno sia in grado di mostrargliela, e soprattutto di fargliela apprezzare. Un sorprendente rovesciamento di prospettiva per coloro abituati a ragionare sul consumo a partire da un’esperienza dei mass market tradizionali (che non a caso produce spesso danni notevoli quando ispira il convincimento che vendere patatine fritte non sia diverso dal vendere accessi ad un museo), ma un dato di fatto pressoché ovvio per chi ha una reale e diretta esperienza del funzionamento delle arene culturali.

Le risorse culturali non sono dunque beni finiti.

 

 

PATRIMONIO CULTURALE / VALORIZZAZIONE. Quali sono dunque i temi che concretamente possono fare la differenza, in questo campo, nei prossimi anni? Essi hanno poco a che fare con quelli che noi penseremmo essere i temi cruciali – vale a dire, la valorizzazione del patrimonio ed il turismo culturale. Non perché questi argomenti non siano importanti, ma perché hanno un valore strategico limitato, per il semplice motivo che un’eccessiva enfasi viene posta di recente sulla dimensione economica della valorizzazione dei beni culturali. Quando infatti si verificano concretamente le cifre e i problemi di sostenibilità che questi modelli pongono, ci si rende conto molto facilmente del fatto che non è certo su questi elementi che un Paese come l’Italia può costruire un percorso di sviluppo culturalmente sostenibile ed efficace.

Il problema è che per troppo tempo l’Italia è stata di fatto priva di una seria politica culturale (o, se è per questo, di un’idea coerente delle politiche culturali così come si configurano nei primi decenni del XXI secolo). A lungo si è faticato ad assistere a politiche complesse e articolate, in grado di incrociare per esempio in maniera virtuosa e feconda i territori ‘tematici’: patrimonio storico-artistico, produzione culturale contemporanea, innovazione, industrie culturali e creative. Nella maggior parte dei casi, siamo ancora fermi invece al “marketing territoriale” declinato in varie salse: qualcosa che altrove è stato abbandonato da molto tempo.

Come ha detto di recente Giorgio Agamben, “gli europei incontrano sempre la verità nel dialogo con il proprio passato. Per noi il passato non significa solo un’eredità o una tradizione culturale, ma una condizione antropologica di fondo. Se ignorassimo la nostra storia potremmo solo penetrare nel nostro passato in maniera archeologica. Il passato diventerebbe per noi una forma di vita distinta. L’Europa ha una relazione speciale con le sue città, i suoi tesori artistici, i suoi paesaggi. In questo consiste l’Europa. E in questo risiede la sua sopravvivenza” (La crisi perpetua come strumento di potere. Conversazione con Giorgio Agamben, “il lavoro culturale”, 2 ottobre 2013) Occorre dunque evitare che il passato, materiale e immateriale, sociale e culturale, diventi “per noi una forma di vita distinta”. Se questo famoso patrimonio non serve e non servirà – come è avvenuto in altre epoche della nostra vicenda – a ridefinire attivamente noi stessi, a riconfigurare la nostra identità, a costruire la memoria di chi siamo stati e soprattutto di chi potremo essere, allora sarà stato perfettamente inutile salvaguardare, tutelare, valorizzare e persino promuovere questo stesso patrimonio.

 

MADE IN ITALY. La nostra idea di made in Italy è in questo momento straordinariamente intrisa di nostalgia e di idealizzazione: consiste infatti in una proiezione rivolta costantemente a un passato “congelato”. Occorreindagare a fondo la percezione esterna dell’identità italiana. Soprattutto nel mondo anglosassone, essa è inevitabilmente legata all’immaginario degli anni Cinquanta e Sessanta: La dolce vita, Mastroianni, la Vespa, la Cinquecento… Questo tipo di universo narrativo è estremamente attraente per uno spettatore straniero – mediamente colto per esempio, impegnato in una professione creativa, ecc.

Il nostro presente così complesso e difficile non ha praticamente nessuna penetrazione nella percezione esterna: è come se continuassimo a proiettare la stessa immagine e la stessa aura da, appunto, sessant’anni. In questo tipo di processo c’è ovviamente una quota molto alta di nostalgia: il riferimento auratico è un’età dell’oro – e indubitabilmente è abbastanza vero che in quel periodo noi abbiamo prodotto il nostro meglio, finora, in termini di cinema, arte, moda e design. Non è detto che questo tipo di nostalgia sia necessariamente un male: è un patrimonio intangibile, valoriale; una piattaforma se si vuole molto utile, su cui si può costruire nuova una proiezione dell’Italia. L’aspetto interessante – e inquietante – è però che questo tipo di percezione nostalgica ha da tempo intaccato anche il modo in cui noi interpretiamo noi stessi.

Questa fusione di monumenti antichi (il patrimonio storico-artistico) e di oggetti della modernità patinati e congelati è un modo efficacissimo di proporre un’identità culturale collettiva completamente inerte, imbalsamata. Tutto è lì, pronto, ready-made: come nelle nostre fiction tv (le peggiori, credo, dell’Occidente), ogni aspetto è orientato alla continua conferma del già noto, del già dato. Esattamente il contrario di ciò che la cultura e l’immaginario dovrebbero fare: suggerire prospettive inedite, orizzonti narrativi da esplorare. Aver introiettato questa retorica è un problema piuttosto serio, perché ci ricaccia continuamente indietro e soprattutto non ci aiuta a rendere vivo il passato (il Rinascimento, il Barocco, il secondo dopoguerra) e a costruire dunque il presente.

Ci lascia invece sospesi nel rimpianto. Validare dunque la percezione nostalgica della nostra stessa identità è un modo per continuare a rimuovere chi siamo e il nostro presente, e per adattarci disperatamente a un’immagine scolorita di noi stessi (i vitelloni, i latin lover, “il popolo più creativo del mondo”). Basterebbe, come punto di partenza, tornare a comprendere qualcosa di molto ovvio: che la “dolce vita”, così come l’avevano intesa Federico Fellini e Ennio Flaiano, non è affatto dolce ma amarissima, è il momento in cui Marcello e l’Italia intera perdono un’innocenza che molto probabilmente non hanno mai avuto.

 

INNOVAZIONE / NUOVO. Il sistema della cultura contemporanea appare invece sempre più strutturato secondo lo schema concettuale – e ideologico – dei futures. Alla previsione del futuro, infatti, subentra la “predeterminazione” di un futuro programmato sulla base delle caratteristiche, dei valori, delle esigenze presenti. Futuro come programma, e non come progetto. La sostanziale “disumanità” di una scelta di questo tipo è qualcosa che naturalmente sopravanza il territorio della speculazione finanziaria (tanto più, quello del mercato artistico). Che esonda, che esorbita – forse anche al di là delle intenzioni iniziali dei programmatori e dei controllori. È chiaro che questa mentalità ha infettato la capacità stessa di immaginare, articolare e dunque di costruire il futuro. Persino, a livello sia politico che letterario, di raccontarlo.

Ora, esiste una contraddizione enorme e insormontabile tra l’arte come produzione culturale, creativa e immaginativa contemporanea (come produzione “vivente”) e un tipo di programmazione che richiede come sua precondizione lo “stare mortale” di cose, opere, individui, idee. Il futuro non è più qualcosa che per definizione non-esiste, ma è qualcosa di predefinito. Il futuro è diventato così un presente, identico a quello attuale nelle sue condizioni di base e nei suoi presupposti, che di volta in volta si incarna, si invera nel presente: un presente che “sta” in un’altra zona temporale, e che burocraticamente accade. Un futuro come tempo che si fonda sul medesimo sistema di valori e di convenzioni che regola il presente, e che non se ne discosta invece radicalmente. La differenza rimane una differenza, per così dire, “geografica”: una distanza tra qui e lì, che si accorcia sempre più fino ad annullarsi e a svanire, più che una differenza irriducibile, inconciliabile e incommensurabile di identità e di modelli. Il futuro non è un tempo ulteriore ma semplicemente un tempo “che-sta-dopo”, che si situa dopo (e questo dopo si avvicina sempre più a noi per mostrarci il suo volto grigio e smorto…). I controllori sono in questo modo chiamati a convalidare la correttezza dell’intero processo: il futuro è divenuto una procedura. Si tratta di mera amministrazione del presente, e di un’estensione di questa amministrazione nel futuro.

 

“BELLEZZA”. Propongo infine una moratoria di qualche anno su questo termine, dal momento che esso condensa molto probabilmente tutta la nostra tendenza a interpretare la cultura in chiave esclusivamente consolatoria, retorica, autocelebrativa e autoassolutoria. La bellezza, la cornice interpretativa della bellezza, la bellezza come framework concettuale è uno dei motivi che ci sta impedendo di accedere al futuro – e al potenziale trasformativo degli oggetti culturali.


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