Le rive del Mediterraneo e la morte di centinaia di immigrati provenienti prevalentemente dal Nord Africa non sono che la testimonianza di un silenzio istituzionale inaccettabile e di una lacuna politica ingiustificabile in materia di immigrazione.
Perché l’Europa non ha ancora trovato sufficientemente spazio all’interno della sua agenda politica per far fronte ad una tale emergenza? Le istituzioni dell’Unione hanno tutti gli strumenti per contenere gli effetti devastanti di quello che sembra essere un esodo di massa verso il nostro continente, eppure le decisioni politiche più recenti adottate dai vertici europei non solo non hanno contribuito a migliorare la situazione, ma l’hanno resa, se possibile, ancora più critica.
Aver sostituito Mare nostrum (un’operazione di search and rescue cui l’Italia si è fatta carico fino al novembre passato senza il sostegno economico di nessuno dei paesi dell’Unione) con Triton, il cui scopo principale è invece quello di sorvegliare le frontiere marittime (come se dovessimo proteggerci da un nemico che potrebbe attaccarci da un momento all’altro) ha prodotto risultati tutt’altro che positivi; il budget a disposizione è stato ridotto e le aree geografiche entro le quali poter intervenire sono più ristrette. Risultato: le morti in mare sono aumentate.
Sarebbe ingenuo credere che i vertici politici non si rendano conto del fallimento di tale strategia, dunque riflettere su argomenti che possano ricondurci alle ragioni per le quali siano state adottate alcune politiche migratorie piuttosto che altre genererebbe forse una maggiore presa di coscienza circa la loro efficacia.
Valori quali il nazionalismo, l’identità culturale, il benessere economico di un paese, non sono che bandiere dietro cui la gran parte degli Stati europei sembrano nascondersi continuando a sottovalutare l’esigenza di sviluppare una politica migratoria degna. Cosa impedisce dunque che venga messo in atto una strategia capace di dare le risposte più adeguate a bisogni umanitari urgenti? I motivi principali di tale grave lacuna potrebbero avere origine diversa: alcuni hanno natura ideologica e sono probabilmente ricollegabili alla percezione che gli europei continuano ad avere nei confronti degli immigrati, mentre altri rispecchiano gli interessi geopolitici ed economici del continente europeo.
Iniziamo dai primi
Il concetto di identità nazionale include in sé alcune caratteristiche ben precise tra cui una data formazione storica e culturale e un codice giuridico e sociale peculiare. Coltivate negli anni, tali caratteristiche hanno contribuito a rendere unico il carattere nazionale di molti paesi europei, dotando ognuno di essi di un profilo singolare.
Ora, considerando che il secolo di cui siamo figli è caratterizzato da un intenso scambio culturale e che le società europee attuali si presentano come multiculturali e dinamiche, è naturale chiedersi i motivi per i quali la maggioranza degli stati dell’Unione stia prediligendo una chiusura politica di cui la rigidità delle frontiere che regolano i flussi migratori sono concreta espressione.
Limitiamoci per ora ad analizzare alcuni aspetti che richiamano il concetto di nazionalismo, cominciando dalla componente territoriale.
Prerogativa dello Stato Nazione, il territorio costituisce lo spazio entro il quale un paese ha il diritto di esercitare il proprio potere politico. Ovviamente esso non può che avere limiti e confini che demarchino la fine della propria giurisdizione, ma per quale motivo tale limitazione geografica e politica si è trasformata nel tempo in rigidità culturale? Oggigiorno la maggioranza dei paesi europei può vantare un’identità nazionale forte e l’idea che un’apertura graduale delle frontiere possa generare una “distruzione culturale” non basta a legittimarne la chiusura. Del resto anche se un’ingerenza esterna dovesse essere particolarmente massiccia, la componente interna sarebbe con molte probabilità numericamente prevalente.
Le radici culturali di cui il nazionalismo si nutre, se da una parte appaiono fondamentali per l’identità di uno Stato, allo stesso tempo potrebbero costituire un limite nei confronti delle esigenze imposte dal continuo mutamento delle circostanze sociali cui i flussi migratori attuali non sono che una testimonianza. Il grado di apertura e flessibilità di una Nazione deriva anche dalla sua capacità di adattarsi al mutamento continuo imposto da un mondo sempre più globalizzato e in un periodo storico come quello attuale una duttilità eccessivamente limitata potrebbe tradursi nel tempo in incapacità di comunicazione con l’esterno, atteggiamento che sta avendo ripercussioni gravissime in termini di perdite umane.
È inoltre necessario puntualizzare che il tipo di migrazione cui l’Europa meridionale sta assistendo è più costretta che volontaria: siamo di fronte a un flusso migratorio costituito da uomini in fuga da situazioni realmente critiche, disposti ad affrontare un viaggio pietoso pur di arrivare in territorio europeo.
Le politiche di un paese dovrebbero costantemente tener conto di quelli che risultano essere cambiamenti sociali e culturali di estrema delicatezza e da cui dipendono i comportamenti e le esigenze dei cittadini. Secondo il sociologo e filosofo algerino Abdelmalek Sayad, le politiche d’immigrazione costituiscono il limite dello Stato Nazione e non sono che il suo spirito e il suo specchio. Riflettere sul tema dell’immigrazione significa allo stesso tempo riflettere sullo Stato, sulle sue istituzioni e il suo grado di apertura (o chiusura) nei confronti del mondo.
L’immagine che noi costruiamo dell’immigrato, non è che un riflesso di ciò che esso rappresenta agli occhi del paese in cui ci siamo formati culturalmente e dal quale siamo stati influenzati nella concezione circa i rapporti sociali. La necessità di dover classificare qualcosa che noi percepiamo come estraneo dipende in parte dai sentimenti che questo suscita in noi. Chiudere le porte in faccia a uomini disperati, potrebbe essere frutto di un atteggiamento discriminatorio? In parte si, se consideriamo che la natura delle relazioni intrattenute con un paese e il rapporto di forza da cui tali relazioni sono state determinate potrebbero anch’esse influenzare la percezione che abbiamo degli stranieri presenti sul nostro territorio (o che cercano di raggiungerlo).
Ad esempio, per capire il motivo per il quale un cittadino europeo possa considerare in maniera differente uno statunitense da un africano, dovremmo tenere a mente, tra le altre cose, il tipo di relazioni internazionali che la gran parte dei paesi europei ha coltivato da un lato con i paesi africani e dall’altro e con gli Stati Uniti. La differenza di percezione e di trattamento che ne derivano potrebbero essere ricollegabili al grado di dominazione o subordinazione che i paesi hanno esercitato o subìto nel corso della storia.
Questo ragionamento potrebbe esserci di aiuto per capire il motivo per il quale un cittadino europeo dimostra un certo rispetto nei confronti di uno statunitense (paese su cui l’Europa non ha mai esercitato alcuna dominazione), riservando un trattamento differente a un cittadino di un paese africano, originario di una ex colonia europea.
I giochi di forza che hanno caratterizzato la scacchiera internazionale, diventano una delle chiavi per interpretare i nostri atteggiamenti verso coloro che classifichiamo, a seconda, come “stranieri” oppure come “immigrati”. Difficilmente un lavoratore nord-americano viene definito immigrato (termine al quale siamo soliti dare una valenza perlopiù negativa), attributo che invece utilizziamo frequentemente riferendoci a un africano. Per quanto possa risultare cinica tale considerazione, può aiutarci ad interpretare i motivi di determinate scelte politiche adottate dall’Unione Europea in materia di immigrazione.
Benché tale classificazione derivi probabilmente da un ragionamento inconsapevole e radicato nell’essenza delle nostre prospettive antropologiche, potrebbe generare effetti devastanti nei confronti di coloro con i quali interagiamo, e più precisamente potrebbero essere motivo di atteggiamenti razzisti o discriminatori. Pur essendo un comportamento incosciente, sarebbe limitativo giustificarlo sostenendo che sia frutto di un processo storico; al contrario dovremmo sforzarci di coglierlo, affrontarlo e far sì che possa svilupparsi assieme alla società che lo ha prodotto.
In ultimo, pur tenendo presente che dal punto di vista economico quello attuale sia un periodo particolarmente complicato e che sia comprensibile che nei momenti di difficoltà si tenda a cercare un capro espiatorio nel quale individuare le radici di un malessere di cui certamente non ne è la causa, tanto i cittadini europei quanto i loro governi dovrebbero sforzarsi di mantenere integri i principi moralifondanti di una democrazia pluralista, evitando di far sì che una dura crisi finanziaria possa degenerare in una crisi morale altrettanto insostenibile.
Il processo di distruzione di antichi retaggi da cui derivano tali comportamenti necessitano senza dubbio di tempi lunghi, di un impegno costante da parte dello Stato, e di un utilizzo adeguato dei canali educativi di cui dispone. Sarebbe fondamentale prendere coscienza del problema, smettendo di considerarci come del tutto estranei ad una visione perlopiù discriminatoria degli immigrati, riconoscendo che alcune problematiche inerenti alla gestione dei flussi migratori derivino in parte da una visione di essi che andrebbe probabilmente rimessa in discussione. Oltretutto, e aldilà dei motivi ideologici ed economici che possano determinare le politiche europee in materia di immigrazione, i vertici politici dovrebbero tener presente che specialmente in situazioni di gravi crisi umanitarie come quella attuale, i valori e i diritti umani basilari non dovrebbero in alcun modo passare in secondo piano, ma lasciare che costituiscano le linee guida di una politica migratoria che sappia tenere alto il nome di un Nobel per la pace.