L’Italicum, ovvero dalla Prima alla Terza Repubblica

 

 

L’italicum è una quasi-legge elettorale pessima. Quasi, dato che è in via di approvazione, anche se non si prevedono spallate da parte della umbratile e inconcludente minoranza del partito di maggioranza relativa. La ‘ditta’ (Bersani & Co.), i civatiani e qualche altro ‘malpancista’ (per stare al bizzarro lessico politico italiano dei tempi nuovi) non rappresentano una reale minaccia all’iter della legge. Si segnala già, tra gli oppositori interni al Pd, un cospicuo drappello di parlamentari disposti a votare la questione di fiducia apposta alla legge. La stampa mainstream li ha già definiti, con involontario sarcasmo, i ‘responsabili’ (proprio come il gruppetto di ‘responsabili’ capitanato da Razzi e Scilipoti).

Dunque il disegno di legge del governo verrà approvato certamente.

Né osta alcuna questione costituzionale quanto alle procedure finora seguite dal governo. Nemmeno la pesantissima sostituzione di ben 10 membri Pd della commissione affari costituzionali può essere letta come una violazione dei regolamenti parlamentari o addirittura dell’art. 67 Cost. laddove esplicitamente nega ogni vincolo di mandato. I parlamentari nella commissioni rappresentano i gruppi, non già la nazione. Con tanti saluti ai sostituiti. La questione è tutta politica. Ed è politica la bruttezza dell’Italicum.

Ma per capirlo occorre fare una digressione che spieghi come e perché si è arrivati a questo punto della storia politica repubblicana. Occorre cioè tentare di spiegare gli ultimi vent’anni.

 

Intanto, la riforma della legge elettorale dovrebbe rispondere alla pronuncia della Corte costituzionale, la quale aveva indicato i profili di incostituzionalità della precedente legge, il Porcellum. L’ idea di dare questi nomi alle leggi elettorali deriva da un guizzo del toscanaccio Giovanni Sartori, che bollò come ‘Mattarellum’ la legge elettorale che ebbe come relatore l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Il Mattarellum sostituiva la legge elettorale proporzionale vigente da decenni, spazzata via dall’onda lunga delle inchieste giudiziarie e tutto sommato dalla fine di un’era politica sul piano interno e internazionale. Si riteneva che il sistema proporzionale con le preferenze favorisse lo scambio di voti e più in generale la corruzione. È diventato celeberrimo – ma non lo cito, dico sul serio, per richiamare nessuno a una impossibile, data l’acqua passata sotto i ponti, coerenza – un manifesto del PDS che recitava “Le preferenze elettorali alimentano tangenti e corruzione. Aboliamole”. Il Mattarellum bene o male ha traghettato l’Italia nella Seconda Repubblica, ovvero in un sistema politico che avrebbe dovuto tendere a organizzare la vita politica e parlamentare attorno a due grandi partiti, uno di destra e uno di sinistra. Di fatto, le cose non sono andate esattamente così, ma la pressione per un sistema maggioritario in cui fosse possibile scegliere chiaramente il proprio candidato a livello di collegio elettorale, e che ciò contribuisse a indicare al presidente della Repubblica con molta chiarezza quale fosse il nome da investire del compito di formare il governo dopo le urne, sono state salutari alla crescita della democrazia italiana, da troppo tempo paludata e preda della partitocrazia. Difatti, la Prima Repubblica funzionava più o meno così: il proporzionale forniva dei risultati elettorali che poi si sarebbero composti nelle segreterie dei partiti e nelle sedi istituzionali, ma solo ex post.

Il Mattarellum, pur con un recupero proporzionale del 25% dei seggi, che lo rendeva un maggioritario ‘spurio’, faceva sì che – almeno in teoria – a livello locale competessero in sostanza due avversari, e che a livello nazionale vi fosse, chiuso lo spoglio delle schede, un risultato netto: Tizio o Caio.

Bipolarismo, si diceva. Si sa che le ali (da destra e da sinistra, senza dimenticare però i fremiti di un centro trasversale e opportunistico) hanno reso difficile questa evoluzione, e un bipolarismo secco in Italia non si è mai avuto.

Occorre subito dire tuttavia qualcosa che tornerà utile nello sviluppo del ragionamento: l’assetto formale delle istituzioni, la lettera della Costituzione su questi punti non erano cambiati. A incaricare il presidente del consiglio rimaneva sempre e comunque il presidente della Repubblica. A lui continuava a spettare il potere di scioglimento delle Camere.

Insomma, chiunque avesse vinto sarebbe dovuto passare dal Quirinale per l’incarico. E chiunque fosse caduto avrebbe dovuto aspettare la decisione dell’inquilino del Colle per tornare alle urne. Nessuna ‘elezione diretta’ del premier.

Certo però non si può nascondere che qualche modifica costituzionale fosse intanto avvenuta. Secondo Temistocle Martines “il passaggio dalla legge elettorale proporzionale a quella maggioritaria, e da ultimo il ritorno a un sistema proporzionale ma con premio di maggioranza, hanno introdotto de facto un vincolo per il presidente della repubblica, nel senso che la nomina del presidente del consiglio dovrebbe cadere naturalmente sul leader dello schieramento politico-elettorale risultato vincitore delle elezioni”. Si era assistito dunque a una ‘convenzione costituzionale’, una ‘riforma di fatto’ che però ha una sua legittimità di fonte normativa. Sebbene formalmente il presidente della Repubblica fosse ancora l’unico a poter incaricare un soggetto politico di formare il nuovo governo, dopo il Mattarellum sarebbe stato ben strano se egli avesse nominato qualcuno di diverso da colui che fosse uscito vincitore dalla competizione elettorale. E infatti non è mai successo, nella Seconda Repubblica. Salvo le (numerose, a dire il vero) crisi che hanno portato alla caduta dei governi e alla nomina di altri presidenti del consiglio, incaricati di sondare nuove maggioranze parlamentari. Si è trattato di un ritorno alla prerogativa presidenziale (ma, si ricordi, con l’accordo delle forze politiche, ché un nuovo governo ha sempre e comunque bisogno della fiducia delle Camere per insediarsi e governare).

Ora, qual è la legittimazione di un tale potere ‘costituente’, in grado di introdurre modifiche che, pure non testuali, di certo incidono sull’assetto istituzionale e costituzionale del paese? In quel caso – nel caso dell’introduzione del maggioritario e della conseguente indicazione stringente di un presidente del consiglio che uscisse dalle urne – la fonte era da rintracciarsi nel vasto consenso di cui nell’opinione pubblica quelle modifiche potevano godere; e nell’adesione – ipocrita? Opportunistica? – dei partiti alla voglia di cambiamento dei cittadini.

Il Mattarellum ha fatto – bene o male – il proprio lavoro per poco più di un decennio, sostituito poi dal cosiddetto Porcellum: il neo-latinismo maccheronico è dovuto al fatto che il relatore della legge, Calderoli, definì la sua stessa creatura ‘una porcata’. E infatti la legge, che ha retto per 8 anni per la gioia dei partiti, a cui tornava in quel modo il pallino delle scelte su candidature e elezioni, è stata dichiarata incostituzionale in alcune sue parti dalla Corte nel 2013. Il Porcellum in pratica assegnava, tramite lo strumento delle liste bloccate, tutto il potere di ‘nomina degli eletti’ ai partiti, che erano in quel modo in grado di scegliere chi portare in parlamento. Con la conseguenza che il parlamentare diventava di fatto una pedina nelle mani dei leader politici in grado di promettere elezioni e rielezioni, magari in cambio di fedeltà assoluta. Fedeltà che peraltro poteva ben essere messa in palio: bastava che un altro leader a sua volta mettesse sul piatto della bilancia elezioni e rielezioni, o minacciasse la caduta del governo e il ritorno alle urne.

Dalla pronuncia della Corte i partiti, che non avevano mai avuto veramente la voglia di cambiare quella legge ignobile, hanno fatto a gara nel dichiarare che era davvero arrivato il momento di una riforma elettorale che ridesse il potere di scelta in mano ai cittadini, che non si poteva andare a votare col ‘Consultellum’, ovvero col sistema risultante dall’azzoppamento della legge Calderoli da parte della Consulta. Il buon Giachetti, ex radicale e oggi guardia di ferro del renzismo, fece persino uno sciopero della fame per la reintroduzione del Mattarellum. Altri tempi, anzi altre ere geologiche. O forse, più correttamente, la solita solfa, la solita propaganda politica, i soliti peana al diritto di scelta, alla democrazia rappresentativa, i soliti alti lai contro la democrazia dei nominati. Verrebbe da chiedersi: quale leader politico non trae massimo giovamento dalla possibilità di scegliere chi verrà eletto, di fatto tenendo in pugno i propri uomini e riducendo il rischio (che comunque, come abbiamo visto, non si azzera) di ‘tradimenti’ o anche solo di opinioni ‘divergenti’? I peones, e non solo loro, tengono famiglia. Mutui da pagare. Lussi da mantenere. Vitalizi da maturare.

Ma facciamo un passo indietro. Perché il Porcellum è del 2005 e la pronuncia della Corte del 2013. Ma nel 2011 cade il governo Berlusconi IV e gli succede Mario Monti. Un cambiamento non da poco, una mutazione genetica che porta a compimento ciò che il Porcellum aveva iniziato e anticipa la svolta che l’Italicum segnerà. Infatti la nomina di Mario Monti segna l’ingresso nella Terza Repubblica. Archiviata la stagione delle illusioni sulla premiership ‘elettiva’, il presidente della Repubblica – dietro le pressioni dei ‘mercati’ e delle istituzioni europee – si è messo a giocare una partita in prima persona, travalicando il ruolo che la Costituzione gli assegnava e prendendo in mano il governo del paese. Berlusconi andava sostituito (nell’estate che precedette la sua defenestrazione, il banchiere Passera – poi ministro – andava in giro a presentare un proprio piano per salvare l’Italia, e Monti avviava incontri riservati in previsione di ciò che sarebbe avvenuto di lì a poco). E fu sostituito. Ma le Camere non furono sciolte, né vi fu voto di sfiducia (che peraltro mai ha sancito una crisi di governo).

Furono giorni e mesi di retorica soteriologica: decreti che venivano chiamati ‘salva’ questo e ‘salva’ quello, il governo sempre più nella parte dell’ultima spiaggia, dell’ultima chance prima del disastro, Monti il catechon che ferma l’avanzata delle forze del Male e che salva il paese dal temibile mostro biblico, lo spread. Ma ciò che conta è che quei mesi segnarono una frattura, un cambiamento: l’illusione di tornare alle urne, di votare magari con una legge elettorale nuova, si ruppe davanti alla faccia inespressiva del professore bocconiano in loden. L’illusione che le rivendicazioni democratiche potessero trovare sbocco fu subito sopita dal tono felpato dei tecnici, che vararono alcune riforme lacrime e sangue (si veda la riforma delle pensioni conosciuta col nome di Legge Fornero) per rispondere alla lettera che Jean-Claude Trichet e Mario Draghi avevano inviato all’Italia (Berlusconi ancora governante) chiedendo per l’appunto riforme, liberalizzazioni e tagli drastici e interventi sul diritto italiano del lavoro e della previdenza.

Il passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica, però, è stato un processo totalmente top-down, con la regia esplicita del presidente della Repubblica, il quale era uscito dalla precedente fase con dei poteri sostanzialmente ridotti: secondo Gustavo Zagrebelsky, non ancora bollato come ‘professorone’, “esempi attuali di regole convenzionali nascono dal sistema dei partiti, dai loro rapporti e dalla loro influenza sul funzionamento degli organi costituzionali, i quali, ove siano organi politici in senso stretto, non sono altro che il luogo di espressione dei partiti e dei loro rapporti. Si può ricordare in proposito il ruolo delle convenzioni costituzionali nella fase della formazione dei governi, che ha notevolmente ridotto il ruolo autonomo del presidente della Repubblica” (il corsivo è mio).

E invece Napolitano ha conferito a se stesso un potere enorme, che si è manifestato anche nella nomina di una bizzarra commissione di ‘saggi’ con lo scopo di proporre riforme costituzionali.

Dentro questa nuova fase – siamo di fronte a un nuovo potere costituente? Legittimato da chi? – si inserisce il lavoro del premier Matteo Renzi, così come in essa trovavano la loro ragion d’essere i dicasteri Monti e Letta. Renzi ha lavorato su due fronti: cambiare la natura del Senato, da Camera alta rappresentativa a luogo di rappresentanza di secondo livello delle regioni; modificare la legge elettorale formulando una variante del Porcellum.

Infatti l’Italicum, così come il Porcellum, non cancella la possibilità per i partiti di nominare i parlamentari, e lo fa attraverso capilista bloccati (cioè scelti dalle segreterie di partito). E a nulla vale l’obiezione secondo cui il Pd, per scegliere i propri candidati, usa il metodo delle primarie. Poiché le scelte di un solo partito, demandate alla ‘buona volontà’ dei suoi dirigenti e non istituzionalizzate né rese obbligatorie per tutte le forze politiche, non spostano di un millimetro la questione della ‘nomina’ dei parlamentari. Tanto valeva rendere le primarie obbligatorie per tutti. Inoltre l’Italicum disegna un sistema elettorale a doppio turno eventuale: se una coalizione o un partito prende il 40% dei voti (e non c’è quorum di votanti: il 40% anche in presenza di un assenteismo che ormai veleggia sul 50% degli aventi diritto), ottiene un premio di maggioranza del 15%, arrivando al 55. Se nessuno raggiunge la soglia del 40%, si va al secondo turno, e lì il partito o la coalizione vincente ottiene il premio di maggioranza (leggermente ridotto: il 53%). Facciamo un caso ipotetico: se in una competizione elettorale la forza politica più votata dovesse al primo turno ottenere il 15% dei voti contro una coalizione o un partito al 10, in presenza – siamo sempre nel caso di scuola – di un astensionismo del 60%, si andrebbe al ballottaggio, e se lì si dovesse riconfermare il risultato elettorale del primo turno una forza con il 15% dei consensi (non dei voti degli italiani, ovvero degli aventi diritto: dei votanti) governerebbe il paese col 53% (327 seggi alla Camera, ché nel frattempo il Senato sarebbe diventato di secondo livello). Dovrebbe essere chiaro a tutti che così, in nome della ‘governabilità’, si instaurerebbe un regime di ‘dittatura’ (termine su cui tornerò dopo) della minoranza. Si potrebbe obiettare: ma il caso di scuola rimane un caso di scuola, non succederà perché è improbabile, alle attuali condizioni politiche. Bene, ma una legge elettorale fatta per durare può essere cucita addosso a un partito o a una condizione politica contingente?

In tutto questo, le proposte della minoranza Pd sono pannicelli caldi, piccole modifiche per un disegno di legge che andrebbe in realtà buttato via e sostituito con un altro. Forse un giorno qualcuno spiegherà perché in Italia si sia passati, in poco tempo e senza apparente ragione, dalla ‘passione’ per il maggioritario alla riscoperta delle preferenze. Se non ricordo male, lo stesso premier in carica era uno sostenitore agguerrito del maggioritario.

Si dirà: ma la riforma elettorale va fatta con tutti, e l’accordo con Berlusconi (il famigerato patto del Nazareno) questo ha prodotto. A parte considerazioni sull’opportunità di quel patto con quella specifica ‘opposizione’, ma il patto si è rotto, e nulla vietava di tornare ai sogni del premier e al maggioritario (che, detto per inciso, quanto a stabilità in astratto è certo meglio di un proporzionale).

Tuttavia, sia chiaro che queste critiche sono tutte politiche. Non c’è nessuna questione di legittimità costituzionale. Innanzi tutto, perché “rigore è quando arbitro fischia”: per ora costituzionalisti e studiosi da entrambe le parti (critici ed entusiasti) si scapicollano a trovare appigli giuridici alle loro tesi. Ma sarà la Consulta a dire, qualora investita della questione, se l’Italicum è (sarà) in linea con la Carta oppure no.

Eppure, se il problema non è costituzionale, così come non lo è la questione di fiducia sulla legge elettorale – anche qui c’è chi tira fuori Moro sulla ‘Legge truffa’ e chi gli contrappone Nilde Iotti – esso si riverbera latamente sulla costituzione, non fosse altro che per l’importanza della legge che governa l’accesso alle cariche elettive del potere legislativo. In altri termini, da dove viene la legittimazione a portarci nella Terza Repubblica? Davvero un parlamento mutevole, dagli assetti mobili, con maggioranze variabili, e un governo con presidenti del consiglio scelti secondo procedure oscure e manovre di palazzo, sono intestatari di un potere costituente conferito loro dalla legittimazione sondocratica?

No, non siamo in una democrazia a rischio. Non più di quanto non lo fossimo già coi governi precedenti, quelli della Terza Repubblica, appoggiati (e guidati) dalla ‘ditta’ che oggi, dopo aver votato di tutto, pesta i piedi e strepita inferocita (per poi farsi ridurre agilmente a più miti consigli, tanto da far pensare ai maliziosi di trovarsi di fronte a un gioco delle parti).

Il problema è che la democrazia è strutturalmente a rischio perché è un paradigma consunto della modernità. Lo aveva notato sir Ralf Dahrendorf segnalando quella deriva a proposito dei governi Thatcher e Berlusconi negli anni Novanta. Da allora è cambiato il mondo. Quel rischio si è esteso a macchia d’olio. Ad aggravarne la crisi, questo passaggio appunto verso modelli di governo completamente top-down, da cui certo non viene fuori una grottesca ‘dittatura’ all’olio di ricino, ma una democrazia autoritaria sì. Democrazia autoritaria, ovvero istituzioni svuotate della loro funzione di rappresentanza, elezioni (quando esse vengono indette) sempre più suggello di scelte fatte altrove e in precedenza, regolazione del consenso sulla base di rilevazioni demoscopiche dallo statuto epistemologico e veritativo piuttosto traballante, sindrome da dichiarazione compulsiva, leaderismo parossistico, perdita della funzione dei partiti di massa,.

Di fronte a tutto questo, la politica risponde in modo rabbioso, cercando di avocare nuovamente a sé il potere di decidere. Ma in fondo questa reazione è dovuta all’incapacità di pensare modelli nuovi adatti ai tempi nuovi, alle nuove tecnologie, al nuovo individualismo e all’esplosione dell’identità (e dell’identificazione con progetti collettivi di vita). Una politica vecchia che non sa pensare il futuro. E che bastava ripartisse dal ripensamento della rappresentanza. Perché in fondo ciò che conta è esattamente quello. Condorcet diceva “il popolo mi ha mandato a esprimere le mie opinioni, non le sue”. Giusto, ma intanto occorre che il popolo decida di mandare qualcuno a rappresentarlo (possibilmente con una legge decente). E che colui che viene mandato a esprimersi abbia delle opinioni. Magari verificabili di tanto in tanto.


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