1.Non condivido l’idea che non ci sia nulla di nuovo. Almeno dal punto di vista strategico l’obiettivo di Piketty è piuttosto ambizioso: fondere il meglio del pensiero di K. Marx e S. Kuznets, cioè, comunque la si pensi, due giganti del pensiero economico-sociale degli ultimi due secoli. Superfluo ricordare la figura di Marx, meno conosciuto al grande pubblico Kuznets, premio Nobel per l’Economia nel 1971 per i suoi studi sullo sviluppo economico con la motivazione “per la sua interpretazione basata su dati empirici della crescita che ha condotto a nuovi e penetranti approcci sulla struttura economica e sociale e sui processi di sviluppo”. Come evidenziato da Piketty, Kuznets è pioniere degli studi statistici sulla contabilità nazionale e dell’analisi delle serie storiche di indicatori della diseguaglianza.
In dettaglio Piketty cerca di coniugare le intuizioni di Marx sulla dialettica/conflitto fra capitale e lavoro, destinata a caratterizzare il capitalismo e la sua evoluzione (e a creare le condizioni del suo dissolvimento) e il rigore metodologico nell’uso della strumentazione quantitativa e in particolare dell’analisi dei dati statistici della quale Kuznets fu (e a mio avviso è tuttora) insuperato maestro.
Nell’analisi di Piketty compaiono anche più o meno esplicitamente critiche tanto all’uno che all’altro dei due pensatori di riferimento. La critica a Kuznets riguarda le conclusioni ottimistiche sull’evoluzione del sistema capitalistico: “secondo la teoria di Kuznets le diseguaglianze di reddito sono destinate a diminuire spontaneamente nelle fasi avanzate dello sviluppo capitalistico, fino a stabilizzarsi a un livello accettabile, quali che siano le politiche seguite o le caratteristiche del paese” (pag.26). Ad avviso di Piketty l’ottimismo è infondato in quanto basato su dati molto parziali, “riguardanti un solo paese, gli Stati Uniti, e un particolare periodo di appena trentacinque anni (1913-1948)” (pag.27), dal quale Kuznets avrebbe dedotto la teoria che “le diseguaglianze sarebbero destinate a seguire nel corso del processo di industrializzazione capitalistica una curva ad U rovesciata” (nota 14 a pag.31). Secondo Piketty invece ciò sarebbe spiegabile come” conseguenza delle due guerre mondiali e delle catastrofi economiche e politiche ad esse associate” e non come frutto automatico e generalizzabile nello spazio e nel tempo del funzionamento del sistema capitalistico (pag.33).
Anche a Marx non si risparmiano critiche: “ha trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività,…. non disponeva di dati statistici adeguati……, non dedica sufficiente attenzione a raccordare adeguatamente il discorso teorico e fonti sufficientemente complete di carattere storico…..” (pag.24).
Nonostante le critiche il giudizio su Marx, sembra comunque più benevolo di quello riservato a Kuznets: “ Marx parte da una visione reale (l’inverosimile concentrazione delle ricchezze verificatosi nel corso della Rivoluzione industriale) e tenta di rispondervi con i mezzi di cui disponeva, ecco un approccio al quale gli economisti di oggi farebbero bene ad ispirarsi…..in termini specifici il principio di accumulazione infinita del capitale da cui Marx mette in guardia contiene un’intuizione fondamentale per l’analisi del XXI secolo come del XIX: quando il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati assumono un valore potenzialmente smisurato e destabilizzante: ne risulta uno squilibrio che anche se non assume i connotati apocalittici sottolineati da Marx, ha comunque connotati assai inqiuetanti” (pag.24-25).
2.Il libro non è un’improvvisazione. Su questo tema l’autore ha già pubblicato molto in passato, avendo spesso come coautore, in collocazioni editoriali di tutto prestigio, il connazionale Emmanuel Saez. Un elenco non easustivo include T.Piketty, E.Saez :”Income inequality in the U.S., 1913-1988”. Quarterly Journal of Economics 2003; T.Piketty: “ Income inequality in France”. Journal of Political Economy 2003; T.Piketty: “The evolution of top incomes. A historical and international perspective”. American Economic Review 2006; T.Piketty, E.Saez :” How progressive is the U.S. Federal tax system? A historical and international perspective”. Journal of Economic Perspectives 2007; T.Piketty: “ On the long run evolution of inheritance in France, 1820-2050”. Quarterly Journal of Economics 2011; A.Atkinson, T.Piketty, E.Saez :”Top incomes in the long run of history”. Journal of Economic Literature 2011; T.Piketty, E.Saez :” A theory of optimal capital taxation”. National Bureau Economic Research working paper n° 17989, 2012; T.Piketty, E.Saez :” Top incomes and the great recession”: recent evolutions and policy implications”. Presentata alla 13.ma J.Polack Annual Research Conference dell’I.M.F. 2012.
Giova aggiungere che Piketty e Saez sono pressochè coetanei (il primo è nato nel 1971, il secondo un anno più tardi) e hanno in comune la formazione superiore nelle prestigiose Ecoles francesi e la specializzazione universitaria negli Stati Uniti al M.I.T. (Massachussets Institute of Technology). Piketty ha poi avuto anche ruoli di consulente politico nella sinistra francese ed è tornato a fare ricerca e docenza in patria, presso l’Ecole de Hautes Etudes en Sciences Sociales, mentre Saez si è mantenuto più fedele ad un esclusivo ruolo accademico. Oggi opera nell’Università della California a Berkeley, ove è direttore del Center for Equitable Growth e gli viene riconosciuto un ruolo di grande prestigio, come confermato dalla recente attribuzione della medaglia John Bates Clark, un premio che ogni anno viene conferito negli Stati Uniti al giovane (con meno di 40 anni) autore del più rilevante articolo di politica economica comparso su una rivista scientifica.
Trattasi dunque di una coppia di enfant terribles che, come si evince dai titoli delle pubblicazioni, si occupano di due questioni centrali e fra loro strettamente connesse in dottrina e nella pratica economica: la diseguaglianza nella ripartizione dei redditi e delle ricchezze e i sistemi di prelievo fiscale.
La caratteristica principale delle loro ricerche è innanzitutto quella di raccogliere ed analizzare sistematicamente, mantenendola sempre aggiornata, una imponente base di dati storici sulla distribuzione del reddito e della ricchezza e sulle imposte e tasse pagate dai cittadini.
Gli autori conoscono perfettamente le teorie economiche, anche nelle loro versioni più sofisticate, in particolare appartengono alla corrente dei post keynesiani, cioè di coloro che credono nel ruolo dello stato (o di istituzioni federali) per contribuire al raggiungimento di obiettivi economico-sociali che il mercato lasciato alla sua libertà non è sempre in grado di raggiungere. Nello stesso tempo non sono, né vogliono apparire, aprioristicamente e a prescindere contrari al mercato. Non si può peraltro escludere, anzi è abbastanza verosimile, che essi cerchino il conforto dei dati proprio per ottenere prove della superiorità dell’impostazione keynesiana rispetto ai fondamentalisti del mercato. Inoltre è evidente che considerano Marx un pensatore certamente autorevole e capace a suo tempo di formidabili intuizioni, ma le cui conclusioni non possono essere accettate a scatola chiusa. Al contrario vanne analizzate criticamente, tenendo conto sia dell’evidenza empirica disponibile che del progresso della conoscenza teorica avvenuto nel frattempo.
3.Ma Piketty guarda alla storia con attenzione non minore di quella che riserva ai dati statistici. Uno dei punti di maggior interesse del testo è a mio avviso quello in cui sottolinea che il trentennio del secondo dopoguerra (i cosiddetti trente glorieuses) potrebbe essere un’eccezione irripetibile, un’epoca d’oro dello sviluppo economico, frutto della straordinaria e irripetibile concomitanza (almeno nel mondo Europa occidentale, Nord America, Giappone) di circostanze favorevoli. Essenzialmente: a) l’esigenza di ricostruzione di capitale fisso e di beni di consumo, durevole e non, dopo le immani devastazioni belliche; b) presenza di condizioni, parzialmente esogene, di formidabile progresso sia della tecnologia che della demografia, dunque di possibilità di rapidissima transizione dall’economia della penuria a quella dell’abbondanza; c) dominanza nella sfera della politica economica e sociale di un clima culturale favorevole ad un ruolo interventista dello stato in vista del perseguimento di obiettivi di diffusione del benessere e delle opportunità di realizzazione di una larga fascia di cittadini anche con l’uso di d) politiche fiscali ad alta progressività di imposte sul reddito (con elevatissime aliquote marginali) e ove necessario prelievi di una certa incisività anche sul capitale (specie se ritenuto improduttivo o poco produttivo). Questo avrebbe consentito di mantenere quasi stabilmente nel periodo la domanda aggregata ad un livello compatibile con la piena occupazione, pur in presenza di introduzione di tecnologie ad alta intensità di capitale, con livello elevato dei salari, senza generare fenomeni inflazionistici di rilievo e mantenendo in equilibrio più che virtuoso i conti pubblici.
4.Ridotta all’osso la domanda che il libro invita a porsi è dunque la seguente: riproporre le strategie di politica economica illustrate ai punti c) e d) della sezione 8 in assenza delle condizioni sub a) e b) sarebbe sufficiente per riottenere, in particolare in Europa, gli stessi risultati di efficienza economica ed equità dei trente glorieuses?
Per amor di precisione ricordo che Piketty si pone domande leggermente diverse; a pag.11 dell’introduzione egli scrive: “la dinamica dell’accumulazione del capitale privato comporta inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del potere in poche mani, come pensava Marx nel XIX secolo? Oppure le dinamiche equilibratrici della crescita della concorrenza e del progresso tecnico determinano nelle fasi avanzate del processo economico una riduzione spontanea delle diseguaglianze e un’armonica stabilizzazione dei beni, come pensava Kuznets nel XX secolo? Che cosa sappiamo realmente del processo di distribuzione dei redditi e dei patrimoni dal XVIII secolo in poi, e quali lezioni possiamo trarne per il XXI?”. Egli stesso dichiara (sempre nella prefazione) che le risposte del libro sono imperfette ed incomplete, ma comunque fondate su dati storici e comparativi più ampi rispetto a tutti quelli offerti in passato. Inoltre tali risposte si collocano in un quadro teorico rinnovato che consente una miglior comprensione del funzionamento del sistema. In ogni modo i dati dimostrano inequivocabilmente (secondo l’autore) che la crescita e la diffusione delle conoscenze non hanno modificato le strutture profonde delle diseguaglianze o perlomeno non nella misura in cui si è immaginato potessero farlo nei decenni di ottimismo che hanno accompagnato il secondo dopoguerra. Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito- come accadde fino al XIX secolo e rischia di accedere di nuovo nel XXI- il capitalismo produce automaticamente (contrariamente a quanto sostenuto da Kuznets) diseguaglianze insostenibili e arbitrarie che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le società democratiche. Tuttavia, e qui l’autore si allontana decisamente da Marx, esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse generale riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati senza far risorgere protezionismi e nazionalismi
5.In particolare relativamente al punto c) non sussistono più (almeno in Europa) condizioni che consentano ad un singolo stato di riproporre con qualche prospettiva di successo una sua politica monetaria e fiscale autonoma. L’introduzione dell’Euro infatti esclude una politica monetaria liberamente interpretabile dai singoli stati (almeno per quelli aderenti all’Euro); questa situazione interagendo con altre regole dell’Unione Europee genera condizioni in cui potrebbe essere completamente travolta (come si è verificato nel caso della Grecia) anche la libertà di politica fiscale. Non vi sono dunque margini per l’esercizio di politiche economiche autonome da parte dei singoli stati dell’U.E..Ciò premesso Piketty affronta il problema di una strategia della tassazione coerente con le esigenze di competizione fra sistemi territoriali che caratterizza l’odierna situazione dell’economia mondiale.
Senza entrare in dettagli, giova sottolineare che nel testo lo sviluppo delle proposte di politica fiscale (la cura) per contrastare la deriva negativa non è assolutamente all’altezza della robustezza dell’analisi (la diagnosi). Qualcuno potrebbe dunque affermare, non del tutto a torto, che la montagna (di raccolta e raffinata analisi di dati statistici) ha, almeno per il momento, partorito un topolino. Ma comunque sia, i capitoli XIV e XV hanno comunque il merito di avviare un franco dibattito sul problema del ruolo della tassazione nella moderna economia globalizzata, e il successivo capitolo XVI tenta di gettare un ponte fra politica fiscale, politica monetaria e debito pubblico. Forse conscio della debolezza delle sue proposte concrete, Piketty con una sorta di excusatio non petita afferma che: “affinchè la democrazia riesca un giorno a riprendere il controllo del capitalismo, bisogna innanzitutto partire dal principio che le forme concrete della democrazia e del capitale sono ancora e sempre da reinventare” dunque che non vi è alcuna risposta già confezionata ma che è comunque urgente darsi da fare. Sarei tentato a questo punto di chiudere questo commento con una domanda provocatoria: quante probabilità ci sono di portare a compimento questa reinvenzione prima che le strade (del capitalismo e della democrazia) si siano definitivamente divaricate?
6.Essendo però un matematico (applicato all’economia e finanza) e a costo di andare fuori tema, vorrei sottolineare in chiusura un aspetto forse secondario ma certamente sottovalutato dell’originalità del testo di Piketty. Esso propone con forza un’etica della matematica applicata all’economia molto diversa da quella corrente. In sostanza Piketty evidenzia l’urgenza di estendere l’obiettivo della conoscenza, raggiungibile anche tramite un uso appropriato della matematica, ad una parte la più ampia possibile della popolazione. Per raggiungere lo scopo è senz’altro necessaria la raccolta di dati, la loro minuziosa analisi e la loro somministrazione al pubblico. Ma ciò non è sufficiente! E’ necessario che tale somministrazione sia funzionale alla immediata percezione da parte dei destinatari del loro autentico significato, ciò che non sempre coincide con la rappresentazione formalmente più elegante ed incisiva (dal punto di vista delle proprietà matematiche) del riassunto offerto. In particolare l’uso di indicatori sintetici, finisce per offrire un dato riduzionista della complessità di una realtà multidimensionale ed è inoltre un puro numero privo della capacità esplicativa e della trasparenza propria di cifre che fanno riferimenti alla concretezza del mondo reale (come redditi o patrimoni).
Nella parte finale del capitolo 7 (pag.405 e seguenti) Piketty discute alcuni esempi di questo uso distorto come l’indice di Gini, il rapporto interdecile e la cosiddetta legge di stabilità delle diseguaglianze di Pareto e propone approcci alternativi (questi sì certamente risolutivi). Secondo Piketty (pag.408) tali opzioni non sarebbero innocue scelte di raffinatezza formale ma nasconderebbero una precisa (anche se forse in molti inconsapevole) scelta ideologica: nascondere in modo atemporale e non conflittuale differenze troppo traumatiche che potrebbero suscitare indignazione e rivolte sociali.