Diaologo con Ivan Milenković e Ksenija Stevanović
Questa intervista, titolata “Violenza e Potere” in serbo, è apparsa nel settimanale “Vreme”, numero 1092, il giorno 8 dicembre 2011. Tale settimanale è stato fondato a Belgrado nel 1990 da intellettuali dell’ex-Jugoslavia che si opponevano al controllo statale dei media. Si caratterizza come una rivista «priva di menzogne, pregiudizi od odio» che si è opposta alle mobilitazioni nazionalistiche delle guerre in Jugoslavia. Prendendo come modello le riviste “Times” e “Newsweek”, è diventato uno degli organi di stampa più credibili dell’intera area e ha un’edizione internazionale rivolta alla diaspora serba in Europa. Ivan Milenković è uno studioso di Foucault, della filosofia francese e della politica contemporanea. Ksenija Stevanović è musicologa e lavora come editore musicale in Radio Belgrado 3.
Ivan Milenković/ Ksenija Stevanović: È evidente come i grandi termini (o i grandi concetti) della politica – la democrazia, la sovranità, lo Stato, la comunità, la politica stessa, etc. – siano in crisi. Potremmo dire che il suo progetto generale consista proprio nel ripensare quei termini politici a partire da nuovi concetti: immunizzazione ed auto-immunizzazione, per esempio. Rispetto a quelle vecchie categorie, il suo obiettivo è quello di recuperarle, decostruirle, stabilirne un nuovo contenuto o abbandonarle del tutto? In che misura, oggi, è necessario e urgente ripensare i termini della politica?
Roberto Esposito: Non credo che concetti come quelli di ‘politica’, ‘democrazia’ o ‘comunità’ possano essere abbandonati. Se tentassimo di farlo, essi tornerebbero inevitabilmente all’interno dei nostri discorsi e delle nostre pratiche, probabilmente con una carica di violenza maggiore, come avviene quando si vuole rimuovere qualcosa di reale. Il mio tentativo, inizialmente in linea con Heidegger e Derrida, è stato quello di decostruirli, vale a dire di identificare dietro, o dentro, il loro significato di superficie, un altro senso lasciato in ombra o negato. In una seconda fase della mia ricerca – più meno a partire da Immunitas – ho affiancato alla decostruzione dei termini classici l’elaborazione di una nuova terminologia che va dal concetto di ‘immunizzazione’ a quello di ‘biopolitica affermativa’, a quello di ‘impersonale’. Naturalmente, anche in questo caso, entrando in contatto e a volte in contrasto con altri autori contemporanei, come Foucault. Credo che questo lavoro di decostruzione e di riqualificazione del vocabolario filosofico-politico sia oggi molto rilevante, non solo perché in filosofia si opera sempre attraverso termini e concetti, ma anche perché alcuni di essi hanno una valenza performativa, nel senso che incidono sulla realtà effettiva. In questa direzione, nelle mie ricerche più recenti ho analizzato la categoria di ‘persona’ come un vero e proprio dispositivo teologico-politico produttivo di determinati effetti di selezione e di esclusione all’interno del genere umano e anche del singolo individuo vivente. Del resto anche chi non lavora intenzionalmente sulla semantica, cioè sul significato dei concetti, di fatto ne assume sempre uno, anche senza rendersene conto. Ma in questo caso la rilevanza filosofica, e anche politica, del lavoro di ricerca viene a diminuire. Oggi, nella crisi politica, sociale, economica che viviamo, almeno in Occidente, è più che mai necessario interrogarsi sul mutamento di senso delle grandi parole della nostra tradizione. E anche di crearne delle nuove. Creare nuovi concetti, anche secondo Deleuze, è il compito stesso della filosofia.
I. M./K.S.: Quello di ‘persona’ è un antico concetto filosofico, ma, prima ancora teologico e giuridico, su cui grava il peso di una lunga tradizione. In cosa consiste la novità che lei vorrebbe introdurre attraverso di esso?
R. E.: Non voglio introdurre nessuna novità, ma ritornare criticamente sul significato originario del concetto di ‘persona’ – che è insieme cristiano e giuridico-romano – per poterlo decostruire come dispositivo, cioè come qualcosa che, nel corso di due millenni, ha avuto determinati effetti di selezione e di esclusione all’interno del genere umano. L’idea di ‘persona’, sia per la tradizione cristiana che per il diritto romano, rimanda ad un’unità costituita da una separazione. Nel caso della concezione cristiana, Cristo è una persona formata da due nature, quella divina e quella umana. Nel caso del diritto romano ‘persona’ è una categoria generale che comprende persone vere e proprie (i ‘padri’ di famiglia dell’antica Roma) e non-persone (tutti gli altri, compresi gli schiavi, che erano considerati ‘cose’). Contro questo dispositivo, ho proposto di attivare un pensiero dell’impersonale, in grado di ricostituire l’unità dell’individuo vivente e dello stesso genere umano, senza che una parte (di tipo animale) sia sottoposta o esclusa dall’altra (di tipo personale).
I.M./K.S: Che cosa ne pensa dell’impegno odierno dei filosofi sulle “barricate” (per esempio a Wall Street, come ha fatto Žižek)?
R. E.: Mi sembra un’attività positiva – uno di quei pochi momenti in cui filosofia e politica possano trovare un punto d’incontro, a condizione che non vi siano atti di violenza. L’organizzazione del nuovo capitalismo finanziario è tale da richiedere non soltanto una critica filosofica, ma un’opposizione ferma e dichiarata di tipo politico. Naturalmente la situazione non è la stessa nei diversi Paesi (in Italia, ad esempio, è attualmente molto problematica). Ma mi pare che l’impegno critico possa e debba essere comune.
I.M./K.S.: Il termine ‘violenza’ è tra quelli più frequenti nei suoi testi. Secondo Foucault e Deleuze, la violenza è insita in ogni potere, ma non si può ridurre il potere alla violenza. Come differenziare, dunque, potere e violenza?
R. E.: È evidente che non si può, né si deve, identificare il potere con la violenza. Già Hannah Arendt metteva in guardia da questo errore, attribuendo al potere un significato produttivo di politica e rifiutando ogni forma di violenza. Del resto questa distinzione percorre tutta la storia della filosofia, già a partire da Aristotele, anche se altri autori, appartenenti alla linea del realismo politico, da Machiavelli a Foucault, passando per Nietzsche, hanno riavvicinato i due ambiti, pur senza mai pervenire a sovrapporli. In questo quadro mi paiono particolarmenti interessanti le ultime ricerche di Etienne Balibar, che ha scritto una sorta di archeologia della violenza. Personalmente direi che mentre la violenza ha sempre lo stesso significato (il che non vuol dire che ogni violenza si equivalga – per esempio quella praticata dai nazisti era diversa, nelle intenzioni e anche nella sua espressione, da quella di coloro che li combattevano), il potere può anche essere teso ad evitare la violenza. Il potere dello Stato, ad esempio, già secondo la formulazione che ne ha dato Hobbes, è volto a contenere ed anzi ad eliminare la violenza del conflitto interindividuale. In questo senso si può dire che il potere, contrapponendosi alla violenza comune, esercita una funzione immunitaria, di protezione della vita individuale e collettiva. Tuttavia, questa funzione immunitaria esprime anch’essa un altro tipo di violenza – quella legale dello Stato, della polizia, dell’apparato giudiziario. Per Weber, ad esempio, ciò che caratterizza lo Stato è precisamente il monopolio della violenza legittima all’interno di un dato territorio. È evidente, da questo punto di vista, che un certo grado di violenza sia inevitabile nella vita associata di uomini che, se non sono di per sé inclini al male, non si astengono dal farlo. Ma il problema è quello della proporzione e del rapporto tra mezzi e fini. Quando la violenza repressiva fatta in nome del diritto – come sostiene Benjamin nel suo saggio su diritto e violenza – supera una certa soglia, essa finisce per avere effetti peggiori di quelli che vorrebbe evitare. Come avviene per tutti i dispositivi immunitari che, oltre un dato limite, diventano autoimmunitari, vale a dire distruggono lo stesso corpo che vorrebbero difendere.
I.M./K.S: Il ventesimo secolo ha mostrato con chiarezza la violenza dello Stato. Lei vede oggi, nelle democrazie rappresentative, il pericolo di una reazione incontrollata da parte dello Stato? La situazione attuale in Italia rappresenta una minaccia per la democrazia rappresentativa?
R. E.: No, non parlerei di un pericolo da parte dello Stato. Gli Stati non sono mai stati così deboli come oggi. Il pericolo, semmai, viene dall’ordine economico mondiale e in particolare da una finanza che attraversa gli Stati, ben superiore alla loro forza. È così almeno negli Stati europei più antichi, come Francia, Inghilterra, Spagna. Ma anche nei più recenti come Germania ed Italia. In Italia c’è al momento un’estrema degradazione del governo – che peraltro è destinato a cambiare nel giro di qualche settimana o di qualche mese – ma più nel senso della corruzione che in quello della minaccia alla democrazia rappresentativa. Semmai è proprio la democrazia rappresentativa a mostrare un limite sempre più evidente. Oggi, in una società integralmente biopolitica, sarebbe ora di ripensare i concetti e gli stessi istituti della democrazia rappresentativa – da quello di sovranità a quello di rappresentanza. Essi non sono più in grado di descrivere e di comprendere ciò che sta accadendo. Il mondo globalizzato – ma sempre più percorso da una divisione tra ricchezza e povertà, salute e malattia, obesità e denutrizione – richiede di essere analizzato, e possibilmente cambiato, attraverso categorie ed istituzioni diverse da quelle usate nel corso degli ultimi duecento anni.
I.M./K.S.: Nella prospettiva per così dire europea, non sembra discutibile il fatto che la vita rappresenti il valore supremo. Ma così non è, né sempre né in ogni luogo. In nome della vita si compiono massacri, genocidi. La prospettiva biopolitica ci può aiutare a comprendere i paradossi della vita contemporanea?
R. E.: Appunto a partire da questo paradosso prende le mosse Foucault nella sua riflessione sulla biopolitica: come mai proprio quando la vita è diventata un valore assoluto, nel pieno del Novecento, gli uomini hanno prodotto morte di massa come non era mai accaduto in precedenza? La sua risposta è che, nel momento in cui, a partire prima dal nazionalismo e poi dal razzismo, la vita di un singolo popolo o di un determinato gruppo etnico è diventata il valore supremo cui dovere sacrificare tutto, incluso la vita di altri popoli e di altre etnie, la biopolitica, cioè la politica della vita, si è rovesciata in tanatopolitica, in politica della morte. Perfino il concetto, assai diffuso, di ‘sacertà’ della vita è spesso usato come un dispositivo di esclusione o di soppressione di altre vite, giudicate non altrettanto rilevanti. Ciò non vuol dire – credo – che ogni prospettiva biopolitica, vale a dire indirizzata alla vita biologica degli individui e delle popolazioni, debba determinare questi effetti perversi. In questo senso nei miei lavori parlo, certo in maniera problematica, di ‘biopolitica affermativa’ – non sulla vita, ma della vita. Cosa essa possa significare, come la si possa attivare, quali mezzi debba adoperare, naturalmente non è facile dire in poche righe. Diciamo che, in generale, essa passa per la disattivazione dei dispositivi autoimmunitari e per l’allargamento dello spazio del comune. Ma poi è necessario individuare meglio i suoi strumenti all’interno di situazioni determinate in relazione alla guerra, alla discriminazione, alla fame, alla malattia e alla povertà che ancora, e forse perfino più di prima (almeno in proporzione ai mezzi tecnici oggi a disposizione), affligge larga parte del genere umano.
I. M./K.S.: Attualmente, per mobilitare la comunità o per assicurarne la coerenza, è necessario ritornare ai vecchi dispositivi comunitari – ad esempio la religione, la nazione, la patria – oppure è possibile aprire nuovi orizzonti? Si ha l’impressione che le idee ‘reazionarie’ siano sempre più forti.
R. E.: Si tratta di ‘inventare’ dei dispositivi comunitari – ma questa stessa espressione andrebbe evitata perché rimanda alle filosofie neo-comunitariste, espressive delle ‘piccole patrie’, di comunità chiuse ed immunizzate verso l’esterno – differenti, capaci di dare espressione ad una ‘filosofia-mondo’. Ormai il mondo è unificato in una forma che non è più possibile sciogliere, ma solo modificare. Nei miei lavori fin dall’inizio ho conferito al termine ‘comunità’ un senso estraneo a tutte le filosofie nazionalistiche o comunitariste. Quanto al linguaggio liberale, anch’esso mi pare molto invecchiato e difficilmente adoperabile. L’ideologia neo-liberale è all’origine della crisi economica in atto – non vedo come possa servire a risolverla. Ma anche le concezioni stataliste hanno sicuramente fatto il loro tempo. Credo che una risposta alla crisi economica, sociale, politica debba superare sia la concezione liberale che la vecchia concezione socialista. È giusto dire che le idee reazionarie si sono rafforzate – non nel senso del fascismo, ma in quello dell’iperliberalismo che, a partire dagli anni Ottanta, ha guadagnato sempre più spazio e che ancora domina la realtà e l’immaginario delle nostre società.