Negli ultimi anni il declino del Liceo classico è apparso irrimediabile. Per converso, l’ascesa della pop antiquity di film come Il Gladiatore (R. Scott, 2000) e 300 (Z. Snyder, 2006), di videogiochi come God of War (Sony 2007-2015) e di infiniti altri esempi, su tutto lo spettro dei media e delle forme espressive, ha confermato la ricchezza e il successo delle riletture dei miti e delle forme estetiche dall’antichità. Per quanto ben distinti, i due fenomeni potrebbero fornire un terreno di discussione comune (che qui però non può che essere appena abbozzato) sul destino della tradizione classica nel nostro paese.
Il termine principale della questione è il tanto discusso declino del Classico. Nel 2014 lo ha scelto solo il 6% dei nuovi iscritti ai licei nazionali: circa 31.000 studenti secondo i dati del MIUR (www.istruzione.it). Si tratta di un minimo storico per il Liceo delle élite gentiliane prima, e della intellighenzia post-sessantottina dopo (a seconda delle interpretazioni e della classe in cui capitavi). Cori di allarme si sono allora levati per lamentare il declino della cultura umanistica, messa a repentaglio dalla globalizzazione, dal consumismo e dai ‘nativi digitali’, coi loro smartphone e gli sms sgrammaticati che solo una formazione scolastica di alto livello può debellare. Altrettanto usuali sono state però le repliche dei critici del classico: la decadenza sarebbe la conseguenza inevitabile della sua formula ‘ipergrammaticalista’, obsoleta e aliena al lavoro e al mondo contemporaneo.
Un approccio relativamente inesplorato per affrontare quello che per molti rappresenta un problema importante potrebbe essere un confronto con quella che definirei pop antiquity, o l’insieme delle forme e dei discorsi sull’antichità nella culturadi massa. Nel 2013, l’anno precedente alla levata d’allarme sul Liceo Classico (e dunque mentre le famiglie iniziavano a prendere le loro decisioni sulla formazione dei propri figli), il videogioco ultra-violento a sfondo mitologico God of War 3 aveva già venduto in Italia circa 150.000 copie (fonte: A. V. Verso, ‘God of War Ascension: incontro con gli sviluppatori’, Virtual Inn, 7/3/2013 www.virtualinn.com): circa cinque volte gli iscritti al classico. In God of War i giocatori impersonano Kratos, un guerriero spartano trasformato in un semidio da Ares per poter respingere i barbari (sic). Ma per colpa degli dei Kratos stermina senza saperlo anche la propria famiglia: una premessa che introduce lotte sanguinarie in cui l’eroe trafigge, mutila e decapita mostri, demoni, titani e finanche gli dei dell’Olimpo.
I due fenomeni potranno apparire del tutto irrelati. Una cosa è l’istruzione secondaria italiana, fondata sul canone classico istituzionalizzato, e un’altra un prodotto di intrattenimento commerciale proveniente dagli Stati Uniti e rivolto al pubblico internazionale dei videogiocatori. Tuttavia, è un dato di fatto che mentre alcuni riflettevano sulla necessità di studiare il concetto di hybris tramite una rigorosa educazione classica, molti di più fossero i ragazzi che si abbandonavano al Mediterraneo post-classico, goticheggiante e kitsch dei vari God of War, per esempio ammazzando a pugni in faccia il dio Hermes prima di cavargli gli occhi nelle orbite: difficile pensare a un atto di maggiore tracotanza. A qualcuno potrebbe causare l’orticaria il solo pensare che un videogioco e Omero possano essere messi l’uno a fianco dell’altro. Eppure God of War è un franchise più influente dell’istituzione liceale nella trasmissione dell’universo mitologico greco. Peraltro, questo brandda svariati milioni di copie è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero elencare e classificare a proposito del successo dei media contemporanei nel propagare, trasformare e riadattare le forme estetiche, le storie e gli immaginari dell’antichità. D’altro canto, il successo commerciale non corrisponde automaticamente a un determinato criterio estetico o culturale. Stabilire in che senso i due fenomeni possano essere messi al confronto da questo punto di vista implica dunque aprire il discorso a una serie di elementi non scontati.
Un primo problema da considerare è se, e in che senso, God of War sia cultura accostabile a quella classica. L’adattamento pop si situa in un’era, in un contesto e su supporti lapalissianamente alieni al testo Omerico. Non è però impossibile trovare delle costanti formali o tematiche. Sarebbe difficile, per esempio, escludere a priori che alcuni orrori descritti negli apologoi dell’Odissea possano trovare un equivalente nel grandguignol videoludico. I sei colli di Scilla, le ossa delle vittime delle sirene e Polifemo fanno parte di un esorcismo simbolico dell’orrore perennemente tramandato dall’umanità. Da questo punto di vista, due testi apparentemente incomunicabili possono essere almeno parzialmente sovrapposti.
Anche volendo inquadrare così il problema, e ammettendo costanti nella diversità, si profila una seconda obiezione: che queste trasformazioni e riadattamenti siano inevitabilmente scarse dal punto di vista estetico, che implichino un processo di irrimediabile degrado. La tradizioneda cui deriverebbero sarebbe incommensurabile. L’introduzione di un criterio estetico così concepito, però, complica un’analisi delle forme della cultura in un modo che può ritorcersi contro i classici. L’idea che questi ultimi siano opere portatrici di un’intrinseca purezza, fonte di trasmissione del sapere autentico, o è autoreferenziale (in rapporto a se stessa, qualunque altra forma estetica è implicitamente inferiore, inclusa l’arte rinascimentale o quella di Picasso), o va relativizzata (processo auspicabile), o è in se stessa un mito. Non dovrebbe sfuggire il fatto che i ‘classici’ sono definiti come tali in una forma istituzionalizzata ed elitaria di cultura che ha le sue origini in visioni più o meno ideologiche e politiche radicate nella storia: in altre parole, in storie, muthoi. Tali sono alcune idee molto radicate, come quelle che la nostra civiltà sia direttamente ‘derivata’ da quella greca, che ‘noi’ (in genere gli occidentali) siamo ‘figli dei greci e nipoti dei romani, che la democrazia sia ‘nata’ ad Atene nella sua forma ideale. O, per tornare al confronto di questo articolo, che l’Odissea possa essere usata come un testo ‘originario’, a cui fare riferimento per rintracciare dei miti ‘autentici’ e dei valori immortali, che poi potranno essere rispettati o degradare nella cultura di massa. Tutte queste costruzioni romantiche si infrangono sugli scogli della complessità storica. In realtà, le società dell’antica Grecia erano il risultato di un crocevia tra continenti diversi e proiettate verso quello che oggi chiamiamo l’Oriente, e non certo l’Europa degli stati nazione che vi avrebbero edificato sopra i propri miti occidentalisti a partire dall’Ottocento. La democrazia ateniese prevedeva l’istituzione della schiavitù (a dire il vero, riprodotta oggi in altre forme nella democrazia neoliberale). E l’Odissea rappresentava il tentativo (che per molti studiosi spiega la sua parziale ‘incompiutezza’ letteraria) di riunire in forma scritta una lunga tradizione orale che comprendeva forme svariate di intrattenimento, folklore, racconti. La grecità a noi tramandata dalla tradizione filologica non può che catturare che una parte della cultura vernacolare, orale, popolare delle società della Grecia classica. Nietzsche andò oltre, sostenendo che i greci avrebbero avuto una vera e propria ‘avversione’ alla forma scritta. Intendendo, con questo, che il valore del pensiero greco non era legato al culto di un canone grammaticale o stilistico, ma alla vitalità dei suoi moti. Le storie di orrore dell’Odissea ci sono giunte sopravvivendo alla civiltà che le aveva ideate in una forma scritta che abbiamo trasformato in un canone, ma continuano nella pratica a sfuggire gli nei liberi usi che, allora come oggi, se ne sono fatti.
I racconti fantastici e orrorifici intorno al mostruoso e al sovraumano dell’Odissea possono dunque iniziare a sembrarci meno distanti dalle minotauromachie ultra-violente e dalle decollazioni fantasy-splatter di God of War. Non per questo le seconde sono più ‘autentiche’ dell’Odissea che si studia a scuola, perché anch’esse sono dei fotogrammi di un continuo processo di trasmissione di forme mobili e cangianti a seconda di epoca e contesto. Né si intende sostenere che esse possano avere lo stesso livello di qualità artistica del canone omerico. In altri termini, accostare questi due esempi non serve a elevare culturalmente il medium del videogioco accostandolo ai classici né, per converso, a denigrare necessariamente la portata estetica del secondo. La funzione è piuttosto quella di mostrare come la pop culture si nutra dell’antichità (dell’idea stessa dell’antichità prima che delle sue forme), ricreandola costantemente per i propri fini, al di fuori dalla nozione di classicismo ancora indiscusso nella tradizione scolastica.
Questo aspetto rappresenta il fulcro del problema: la cultura del liceo classico probabilmente non è in grado di mettere i discenti nelle condizioni di vedere il passato non come un archivio statico, ma come un processo dinamico che ha a che vedere con il suo utilizzo – qualunque esso sia – per come esso avviene effettivamente, e non solo idealmente, nel presente. Purtroppo, il problema è realmente quello della tanto paventata chiusura alle forme della cultura contemporanea. Il sostegno alla cultura umanistica parte da buoni principi, ma prende la piega di grandi generalizzazioni che trasformano un po’ tutti in filosofi e non portano a politiche pragmatiche: l’idea che i valori umanistici siano un baluardo contro la tecnocrazia della globalizzazione, o che il greco antico sia un baluardo contro ignoranza e la barbarie culturale. In questo quadro di osservazioni in sé valide ma usate in modo apocalittico, si colpevolizzano i ragazzi per la loro scarsa passione per le lingue antiche (che sarebbe frutto della junk culture digitale), ma non si riconosce nei docenti e nei programmi il misoneismo che è divenuto tristemente associato al Classico. In difesa della scuola, va comunque notato che gli argomenti in suo sfavore sono spesso imbarazzanti e pericolosi: le civiltà ‘morte’ non servirebbero nella vita (eppure in molti invidiano il nostro patrimonio culturale); la grammatica non prepara alla vita (per diventare senatori in effetti basta ignorarla); il mercato del lavoro se ne frega del latino (ma in molti paesi l’educazione classica apre a curricula di alto livello spendibili in tutti i campi).
Tra i due opposti poli, alcuni hanno insistito sui pericoli di una visione utilitarista della cultura e indicato quanto sia fuorviante e sconveniente concepire la cultura umanistica in senso oppositivo a quella scientifica. Il dibattito scaturito dal calo di iscrizioni al classico è culminato in un simbolico processo al liceo classico a Bologna, con Andrea Ichino nel ruolo dell’accusa e Umberto Eco in quelli della difesa (V. Schiavazzo, ‘Il Liceo Classico? Assolviamolo, ma va riformato’, Repubblica, 15/11/2014, www.repubblica.it). Si è risolto in una parziale assoluzione, con invito a riformarsi, sotto l’auspicio di un unico, grande indirizzo senza distinzioni tra ciò che è scientifico e umanistico. Nella speranza che questo quadro ideale possa un giorno concretizzarsi, si potrebbe iniziare a concepire l’insegnamento tradizionale sotto il segno di un approccio alle civiltà antiche che consenta ai discenti di riconoscerne criticamente la presenza nel presente, senza cadere nella trappola dell’attribuire un ‘presentismo’ alle opere classiche (che restano frutto del loro tempo), ma anche senza ignorare il confronto con la pop antiquity e i suoi bruti barbarici e tracotanti.