Con l’uscita del Volume I del Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, il gruppo di studiosi che si raccoglie attorno a Roberto De Gaetano, insieme alla casa editrice Mimesis, dà avvio a un progetto scientifico ed editoriale di grande rilievo. La significatività dell’impresa richiede che si facciano subito alcune premesse. Il progetto prevede, come si evince sfogliando il voluminoso tomo, un “Piano dell’opera” che consta di tre volumi; la pubblicazione è prevista in tempi sufficientemente ravvicinati, tali da restituire al lettore il respiro della proposta. Va inoltre detto che il taglio è decisamente interdisciplinare. Gli studiosi provengono da diverse aree degli studi umanistici: la storia del cinema, ma anche la semiotica, l’estetica, la filosofia e così via discorrendo, senza contare che tra di loro si annoverano alcuni tra i più impegnati critici militanti del dibattito pubblico più recente in Italia. Un altro tratto, infine, di meritorio spirito democratico – non nel senso astratto e retorico, con cui spesso si ricorre nelle aule universitarie a termini simili, ma in un senso concreto e preciso – va ricercato nel fatto che, tra gli studiosi coinvolti, si vedono impegnati tanto docenti impegnati nel campo della ricerca e dell’insegnamento universitari, quanto studiosi, come si dice con orribile espressione, ‘non strutturati’, a riprova della vitalità dell’università italiana, se la si guarda dal lato dei suoi risultati e dello sforzo di tenere in vita, a livello d’eccellenza, una produzione scientifica degna di livello internazionale.
Le premesse fatte non sono inutili per avvicinare e per comprendere un libro così complesso come quello che il lettore si trova per le mani. Ne va nel cinema italiano secondo De Gaetano – il quale enuncia nell’Introduzione le linee generali del programma di lavoro – dell’identità del paese Italia. Ricorro alla dizione più sfumata di ‘paese’, piuttosto che a quella forte di ‘nazione’, perché la prima risponde meglio agli assunti teorici (e politici) del volume. L’Italia è, infatti, una nazione incompiuta: su questo punto Curatore e Autori si richiamano, con espliciti richiami nell’Introduzione, alle note tesi gramsciane sul Risorgimento e sulla ‘rivoluzione mancata’, che non battezza alla sua nascita, né sopraggiunge in seguito, nemmeno con la Resistenza, a sancire la piena acquisizione di un’identità nazionale. In ciò, scrive nell’Introduzione De Gaetano, «il cinema italiano mostrava di essere senza uniforme, giocava una partita sua propria, vicina alle forme di vita del pubblico» (p. 14). Il cinema italiano, in altre parole, anche nel passaggio drammatico del ventennio di dittatura fascista, rifiuta una retorica falsa, non radicata in concrete e reali forme di vita. Tutto ciò si rivela tanto più vero – e su questo punto Curatore e Autori si sintonizzano in maniera pressoché totale con le tesi di Godard sul Neorealismo – quando, a partire dal secondo dopoguerra, nel cinema italiano si fa avanti, emergendo questa volta in modo esplicito, «un popolo che sente e sa che la vita scarta sempre da ogni uniforme». È in questo passaggio storico cruciale – il secondo dopoguerra, insieme alla nascita del Neorealismo – che prende forma, per così dire, il chiasma paradigmatico del cinema italiano: «l’invenzione dell’umano al cinema, che è allo stesso tempo la reinvenzione del cinema nel momento della sua maturità (mezzo secolo dopo la sua nascita) che è stato il nostro cinema neorealista» (p. 16). Da qui in avanti si apre per il cinema una storia di riformulazioni, di crisi, di rilanci, che trova tuttavia in quell’atto (ri)fondativo – per l’Italia, per il cinema italiano e per il cinema mondiale – un punto di partenza verso cui tornare ogni volta che si renda necessario un ripensamento, tanto politico quanto cinematografico.
Se l’identità politica, nel senso di un agire politico dotato di un orizzonte, di idealità e di un’efficacia sulle forme di vita del paese, è la grande assente nella storia italiana, altrettanto non si può dire dell’identità linguistica, culturale e perfino estetica del paese. Il cinema arriva a proporsi come il contraltare, l’alternativa possibile, ancorché forse utopica, della politica, perché si fa erede della letteratura italiana moderna, in primis di Leopardi, il “giovane favoloso” che propone una diagnosi ‘inattuale’ sullo stato dei costumi degli italiani. Il cinema eredita dalla letteratura soprattutto un certo modo di sentire, che gli consente di porsi in ascolto e di mescolarsi a tal punto con le forme di vita degli italiani. «Lingua, ricorda De Gaetano in apertura del volume, significa mondo, che è un modo di sentire, di pensare, di agire, di essere» (p. 7); lingua che può essere tanto quella della poesia e del romanzo, quanto quella del cinema, ma che in ogni caso torna a interrogarsi sulle condizioni, e i limiti, della nostra ‘lingua materna’. Il cinema italiano è, allora, una lingua che esibisce in modo esemplare due tratti caratteristici, su cui un filosofo italiano contemporaneo, Pietro Montani, non a caso citato da diversi Autori, da tempo lavora: l’intermedialità, il fatto, cioè, d’intendere l’eredità che proviene da un’altra forma della lingua come qualcosa da rimediare allo scopo di produrre nuovo senso; e l’esteticità, da ripensare nell’accezione forte e originaria di un modo, o di un insieme di modalità, del sentire comune. Da questo assunto deriva per tutti gli Autori l’esigenza – a tratti esplicita, a tratti piegata a ovvie esigenze di ordine storiografico – di far lavorare questa lingua del sentire comune con la riflessione teorica e politica che, con le parole di Roberto Esposito, caratterizza la filosofia italiana nel suo corso storico come un “pensiero vivente”. Non si tratta della moda di una più o meno storicamente rintracciabile Italian Theory, ma dell’impegno a non trasformare i ‘pensamenti’ dei grandi del passato (Gramsci, Leopardi, primo di loro Machiavelli e altri) in altrettanti ‘monumenti’ dell’Italia che doveva essere e che non è stata. La riflessione sul politico in Italia è, appunto, un pensiero vivente, che per sua stessa natura richiede l’incontro con i linguaggi dell’arte, della letteratura e infine del cinema: ne va di un modo di sentire e, più nel profondo, di una forma di vita da salvaguardare, forse da riformare o addirittura rivoluzionare, ma che non può essere lasciata nell’entropia del suo riferirsi al passato e alla sua presunta ‘bellezza’.
Per tutte queste ragioni, il termine “lessico” è forse riduttivo. Non si tratta solo di un lessico, così come nel progetto del Bilderatlas warburghiano, che costituisce probabilmente uno dei referenti impliciti dell’opera, non si tratta solo di immagini. Il Lessico del cinema italiano va inteso secondo strati sovrapposti di intermedialità. Ne è riprova il fatto che raramente i lemmi selezionati sono parole in senso stretto tematiche del linguaggio cinematografico: essi vanno da questioni più generali di estetica dell’immagine, come nel caso di Colore, curata da Luca Venzi, a parole del lessico sociale, come Denaro, curata da Marcello Walter Bruno, Emigrazione, curata da Massimiliano Coviello, e Fatica, curata da Federica Villa, a parole del ‘lessico famigliare’ – Amore, curata dallo stesso De Gaetano, e Bambino, curata da Emiliano Morreale – fino all’originale tentativo di ripensare, attraverso il cinema, la questione della Geografia, condotto magistralmente da Federico Zucconi. Concludo, limitandomi a un breve riferimento al saggio di Venzi, che dà forse maggiormente conto di come l’analisi del film sia sottoposta qui a metodi d’indagine innovativi, che si radicano tuttavia nella lezione dei maestri dell’avanguardia, nella fattispecie di Ejzenstejn. Venzi intende l’uso del colore come uno “strumento”, di cui l’immagine cinematografica si serve per lavorare in direzione di una accresciuta «modellizzazione testuale» (p. 176). Il cinema italiano mostra esemplarmente, proprio perché lavora sempre sul doppio binario di un «uso compositivo del colore» (p. 177) e del riferimento dell’immagine nel suo complesso a una forma di vita, che il cinema in genere vive sempre nella tensione tra immagine in bianco e nero e immagine a colori. Per meglio dire, l’immagine in bianco e nero contiene già il colore, ad esempio nel gioco di sfumature che si risolve nel grigio, mentre l’immagine a colori conserva l’icasticità oppositiva del bianco e nero. Ciò dà luogo, sul piano semantico, all’emergere di tre figure principali dell’immagine: il “nascondimento”, la “configurazione” e, dominante nel cinema italiano, la “trasfigurazione”. Da questo punto di vista è possibile delineare una storia e un’euristica delle forme di rappresentazione e delle forme di vita, nonché dei loro intrecci, come storia del colore. È quanto fa magistralmente Venzi, consegnando le conclusioni del suo saggio a un giudizio sull’uso (non ancora) creativo del colore nell’immagine digitale.
Di Dario Cecchi
Dario Cecchi svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia della “Sapienza” Università di Roma, dove collabora con la Cattedra di Estetica. Tra le sue pubblicazioni: Abbas Kiarostami. Immaginare la vita (Fondazione Ente dello Spettacolo 2013); La costituzione tecnica dell’umano (Quodlibet 2013); Il continuo e il discreto. Estetica e filosofia dell’esperienza in John Dewey (Franco Angeli 2014). Ha curato la raccolta di saggi di Jean-François Lyotard Rapsodia estetica. Scrittu su arte, musica e media (1972-1993) (Guerini 2015).