L’identità occidentale e i suoi nemici

 

  1. La chiamata alle armi

A commento dell’attentato a Charlie Hebdo sulla prima pagina del Corriere della Sera del 10/01/2015 campeggiava un articolo del noto editorialista Piero Ostellino, dal titolo “Il buonismo che ci accieca”. Secondo l’autore l’Occidente (e l’Italia in particolare) soffrirebbe di “un’identità ambigua e compromissoria”, e il nostro “buonismo retorico, politicamente corretto” sarebbe incapace di guardare la realtà, portando solo a “patetiche invocazioni al dialogo”. I responsabili di questa nostra identità fragile e inetta di fronte all’aggressività teocratica dell’Islam sarebbero innanzitutto una “sinistra che non sa e non vuole darsi un’identità” e, in seconda battuta un “Papa pauperista”, che, si inferisce, non farebbe quanto in suo potere per difendere la nostra identità. Il messaggio di fondo lo si trova riassunto verso la chiusa del pezzo: “Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro.

 

La posizione di Ostellino, peculiarità stilistiche a parte, non è affatto idiosincratica. Pur giocando su toni che vogliono apparire ‘contro corrente’ si tratta di una posizione per certi versi esemplare di un orientamento culturale da tempo crescente, e non solo in Italia. Una variazione del medesimo tenore argomentativo possiamo trovarla, ad esempio, nelle pagine di Giuliano Ferrara (Il Foglio, 05/09/2014), per cui la tremula identità occidentale si manifesterebbe nella sua “tenerezza e misericordia”, e nelle sue “nevrosi leopardiane e pasoliniane”, a cui si contrapporrebbero nell’Oriente islamico “giustizia e violenza purificatrice”, “più sesso, matrimonio, figli e coltelli seghettati”. E per essere all’altezza di questa sfida, che a Ferrara appare senz’altro sotto la specie della guerra di religione, andrebbero rigettati esangui richiami allo “stato di diritto”, alla “polizia internazionale”, alla “denuncia della violenza”. Al contrario “l’unica risposta” starebbe nel reagire con “una violenza incomparabilmente superiore”.

 

Al netto della retorica provocatoria, questi autori si iscrivono in una posizione politica di grande successo in Occidente, che possiamo chiamare ‘liberismo tradizionalista’: essa abbina istanze liberiste sul piano socioeconomico a rivendicazioni identitarie forti, legate ad istanze tradizionali come la nazione, la religione, la famiglia, ecc. Non è difficile trovare nei nostri editorialisti la versione in sedicesimo di quell’abbinamento politico vincente tra liberismo economico e tradizionalismo sociale di cui personaggi come Thatcher o Reagan sono stati alfieri. È importante però comprendere bene il senso e la portata di questa posizione politica.

 

2. Nobili antecedenti

 

Leggendo quegli editoriali, vista anche la ricorrenza del centenario, è difficile non richiamare alla mente le celebri invettive di molti intellettuali alle soglie dell’ingresso nella Prima Guerra Mondiale. Penso al Papini che ineggiava alla guerra come a un “caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne”, guerra che saremmo chiamati ad “amare con tutto il nostro cuore di maschi”. O magari a Filippo Corridoni, per cui il tema dell’intervento o meno in guerra, veniva risolto dal lapidario: “La neutralità è da castrati”.

 

Al netto delle numerose differenze tra il contesto odierno e quello di cent’anni fa vi è un nucleo comune, che va compreso: si tratta dell’idea che un’identità solida ed ideali degni possano propriamente esistere solo quando difesi aggressivamente, con virile durezza, refrattaria ad ogni molle mediazione. Il dispregio del ‘buonismo’ non è una prerogativa dei giorni nostri. Si tratta di una costante che riemerge puntualmente nelle generazioni che nel corso della loro vita hanno conosciuto solo la pace. Oggi, come sulle “Riviste fiorentine” prima del 1915, il buonismo è tedioso e stucchevole, mentre il ‘cattivismo’ è ardito e ‘cool’.

 

Nelle posizioni di Ostellino, Ferrara & Co. echeggia inoltre un tema che fu centrale alle soglie della Prima Guerra Mondiale, il tema dell’identità. Allora esso fu giocato in termini nazionalisti e sciovinisti. Nella versione odierna invece si gioca sul contrasto tra un’identità islamica, che sarebbe vigorosa e fiorente, ed un Occidente dall’identità infiacchita. È a causa di quest’identità illanguidita che non saremmo in grado di rispondere all’Islam con un virile ricorso alla legge del taglione, perdendoci invece in patetici tentativi di ‘dialogo’. Diversamente da cent’anni fa l’identità invocata non sarebbe un’identità nazionalista, quanto piuttosto ‘cristiana’ e ‘liberale’.

Ma, chiediamoci allora: siamo davvero di fronte ad un logoramento dell’identità occidentale? Se sì, in che senso? E come identificare i nemici di tale identità?

 

3. Digressione filosofica: elogio e portata dell’identità

 

È un dato di fatto che i valori identitari siano stati realmente sottovalutati, quando non osteggiati, nella visione prevalente tra i ‘progressisti’. Questa diffidenza, diffusa nella riflessione di sinistra e liberaldemocratica, è comprensibile nella misura in cui i richiami identitari, nella storia più o meno recente, hanno avuto spesso connotazioni nazionaliste, razziste e scioviniste.

Tuttavia il tema dell’identità è inaggirabile sul piano etico. La possibilità di identificarsi in qualche misura con istanze, idee, progetti e realtà che travalicano la nostra esistenza finita di individui è una pulsione morale fondante. Chi davvero rigettasse ogni forma di identità sovraindividuale rimarrebbe schiacciato sul proprio presente privato, precludendosi l’accesso a tutto ciò che rende speranze e azioni storiche dotate di senso. Beninteso, ‘identità’ non è un concetto monolitico: noi abbiamo tante identità possibili quanti sono gli attributi che ci identificano. Possiamo nutrire le nostre identità di letterati, musicisti, italiani, credenti, europei, filosofi, socialisti, interisti, cinefili, cinofili, ecc. Sostenere un’identità sovraindividuale non significa dissolvere la propria identità individuale in un monolite onnicomprensivo quanto astratto.

 

Proviamo brevemente ad esaminare meglio il concetto di identità, nel senso dell’azione storica. È utile distinguere tra un’identità formale ed un’identità materiale.

L’identità formale consta dell’adesione a certi tratti esteriori, o certe regole, semplicemente perché essi sono condivisi dal nostro gruppo di appartenenza. Dal taglio dei capelli, agli indumenti, al rispetto di norme comportamentali tacite o scritte, tutto ciò conferisce un’identità, che però passa perlopiù inavvertita da chi la incarna. Nel mondo occidentale il ruolo giocato dalle tradizioni formali, tra cui la sfera delle regole istituzionali, è comparativamente più ampio che in ogni altra società storica. La cultura occidentale ha introdotto mediazioni impersonali in relazioni che altrove erano (o sono) lasciate all’accordo o conflitto personale. Così, per dire, la vendetta e la rappresaglia hanno lasciato il posto al diritto affidato a giudici terzi; la legge deve applicarsi impersonalmente, a prescindere dalla stima o meno per l’imputato; lo stato si incarna in un corpus di regole istituzionali (Costituzione) e non nella persona del sovrano, ecc. Questo ‘formalismo’ delle relazioni ha ragioni profonde e se ne potrebbero mostrare i vantaggi pratici rispetto ad alternative più intuitive (la faida, il rapporto personale col giudice, la venerazione del sovrano, ecc.). L’identità formale è però ‘emotivamente fredda’: tacita ed inavvertita. Salvo in un caso: la sfera identitaria formale diviene saliente quando viene esplicitamente sfidata. ‘Tolleranza’ e ‘libertà d’espressione’ erano formule retoriche fino ad un minuto prima dell’attacco a Charlie Hebdo, divenendo salienti un istante dopo.

Da tutto ciò segue che una civiltà che conoscesse solo un livello di appartenenza identitaria formale sarebbe destinata a percepirsi e riconoscersi soltanto nella forma della sfida e del contrasto.

 

Tuttavia in ogni società, e quella occidentale non fa eccezione, esiste un’identità materiale. Di un’identità materiale fa parte tutto ciò che di bello, buono, giusto e vero apprendiamo, e attivamente perseguiamo, nelle nostre vite. Dell’identità materiale dell’Occidente fanno parte Bach quanto i Beatles, Newton come Galileo, il Rinascimento come l’Impressionismo, Socrate e Gesù Cristo, Monteverdi e Brahms, il Cognac e il Chianti, ecc. Questo è un piano identitario ‘caldo’, dove la partecipazione di ordine emotivo-affettivo trova spazio e che non ha bisogno di alcuna opposizione o sfida per trovare riconoscimento.

 

4. I nemici dell’identità occidentale

 

Chiediamoci ora, ripensando ai nostri valenti editorialisti: cosa rappresenta davvero una minaccia identitaria?

In prima battuta ci sentiamo naturalmente minacciati in senso diretto da aggressioni e intrusioni che supponiamo plausibili. A seconda di come gira il vento mediatico ci possiamo fare l’immagine minacciosa dell’attentato islamico, ma anche di una guerra atomica in Ucraina, di un’effrazione in appartamento, di una sparatoria mafiosa, ecc. Ma tutto ciò, pur essendo forse davvero temibile, non mette di per sé in campo questioni di identità.

 

Tuttavia alcuni di quegli eventi minacciosi possono essere interpretati secondo chiavi di tipo identitario. Possiamo così leggere un attentato come un’istanza di “teocrazia che sfida la democrazia” o di “sharīʿah che aggredisce lo stato di diritto”, o senz’altro come attacco dell’Islam al Cristianesimo, ecc. Si tratta, si noti, in tutti questi casi di interpretazioni collocate sul piano dell’identità formale, inclusa la presunta sfida dell’Islam al Cristianesimo. Infatti, per quanto a molti piaccia agitare lo spettro della guerra di religione, nessuno dei contenuti caratterizzanti del messaggio cristiano o coranico, nessun contrasto dottrinale, è o è stato mai, a tutt’oggi, oggetto di rivendicazione. Di fatto Islam e Cristianesimo sono usati da entrambe le parti come stendardi, funzionali a definire un’identità formale.

Ma sono queste realmente minacce alla nostra identità formale? Agli ordinamenti dello stato di diritto, o delle costituzioni democratiche, o della libertà di culto, ecc.? Un momento di riflessione a mente fredda basta a palesare queste minacce come risibili. Nessuno davvero crede neanche per un momento che l’Occidente verrà convertito a colpi di attentati ad adottare la sharīʿah.

 

E tuttavia, forse una seria minaccia alla nostra identità, e più precisamente alla nostra identità materiale, sussiste per davvero. In effetti, quando veniamo a sapere che più di 3000 cittadini europei si sono arruolati nelle fila dell’Isis, qui sembra che il tema di una fragilità dell’identità occidentale sia effettivamente in campo. A maggior ragione se supponiamo, fondatamente, che l’area dei simpatizzanti sia ben più ampia di quella dei combattenti. Ma a quale livello si troverebbe qui il problema identitario? Di primo acchito, sembrerebbe che in questo caso il problema identitario stia a monte piuttosto che a valle: non gli atti bellicosi dei foreign fighters minacciano la nostra identità, quanto piuttosto un problema della nostra identità motiva i foreign fighters. Sia come sia, per i rappresentanti del liberismo tradizionalista, come gli editorialisti di cui sopra, si tratterebbe di rispondere ergendo orgogliosamente le bandiere del tradizionalismo sociale e della ‘libertà economica’: da un lato levare alti gli stendardi della ‘famiglia tradizionale’, della ‘religione tradizionale’, dei ‘costumi tradizionali’, e dall’altro rivendicare la libertà occidentale come libertà di transazione e contratto.

 

Ora, però, qui sorge una domanda che non possiamo ulteriormente rinviare. In che senso i 3.000 foreign fighters rappresenterebbero precisamente una criticità dell’identità occidentale, mentre, per dire, un numero decine di volte superiore di hooligans europei (come i 5.000 recentemente radunatisi a Köln, nel nome della lotta all’Islamismo) non segnalerebbero una crisi dell’identità occidentale? O, similmente, in che senso nelle periferie delle città europee gli immigrati rappresenterebbero una minaccia identitaria, mentre gli altrettanto numerosi gruppi neonazisti o neofascisti, che quegli immigrati vogliono cacciare, non andrebbero conteggiati tra i segni di crisi dell’identità occidentale?

 

In verità ciò che differenzia hooligans e foreign fighters, neonazisti e stranieri emarginati è molto meno di ciò che li accomuna.

Ciò che li differenzia sono le bandiere di identità formale sotto cui accidentalmente prediligono riunirsi: che si ritrovino sotto lo stemma della croce uncinata o della bandiera nera dell’Isis, con addosso i tatuaggi del fascio littorio o quelli della simbologia esoterica delle gang di ‘latinos’, si tratta sempre comunque di gusci vuoti. Chi si prenda la briga di chiederne le motivazioni ai diretti interessati trova una verniciatura di istinto aggregativo con sotto il nulla.

 

Ciò che li accomuna, tuttavia, insegna davvero qualcosa a tutti noi. Essi sono accomunati dall’essere da sempre e, plausibilmente, per sempre, estranei ai contenuti che definiscono l’identità materiale dell’Occidente. Essi ne vedono da lontano le manifestazioni, Musei e Teatri, Biblioteche e Scuole, Palestre e Club, Chiese ed Università, come potrebbe fare una tribù esotica: con timore, sospetto e disprezzo. Sono fortemente sensibili ed esposti alle sollecitazioni delle loro identità formali (gesti, simboli, tatuaggi, rituali) proprio perché le loro identità materiali sono sottili fino all’annullamento. Sono estraniati e si sanno estranei.

 

Ma in effetti hooligans, foreign fighters, gangs, così come la varia umanità degli emarginati delle periferie sono solo la manifestazione più palese di qualcosa che riguarda, a livelli variabili, tutti i cittadini occidentali, non solo quelli economicamente deprivati. C’è davvero un senso in cui l’identità occidentale si va svuotando. Solo che non si tratta di qualcosa cui si possa rispondere con chiamate alle armi e richiami tradizionalisti. L’estraniazione degli esclusi è solo l’aspetto più manifesto di una tendenza ben nota e più generale. Società basate eminentemente sulle relazioni astratte del libero mercato, in assenza di compensazioni, generano sempre pressioni verso la strumentalizzazione di ogni valore culturale, verso la subordinazione dei contenuti alla loro capacità di muovere denaro, o, nel migliore dei casi, verso fruizioni culturali effimere, che non richiedono alcun dispendio di risorse per prepararne la fruizione. L’estraniazione culturale degli esclusi è solo il caso limite di un processo ordinario, un processo che richiede costantemente che sempre più risorse umane vengano impegnate nella riproduzione di sempre più risorse economiche. I ‘perdenti’ in questo processo non hanno le risorse economiche per sviluppare le proprie risorse umane. I ‘vincenti’ nello stesso processo invece erodono le proprie risorse umane (tempo e capacità) nel tentativo di conservare l’accesso alle risorse economiche.

L’idea che scuola ed istruzione debbano essenzialmente produrre produttori, e non cittadini, è una manifestazione esemplare di questo processo. Che poi i cittadini non si sentano più affatto membri di alcunché e, nel migliore dei casi non vadano a votare, nel peggiore sparino sui vignettisti, sta nel prevedibile ordine delle cose. Ma ciò naturalmente non riguarda solo l’istruzione in senso stretto. In una società che privilegia le relazioni di mercato, ogni valore sociale condiviso, ogni contenuto bello, buono, vero o giusto ha sopra un cartellino del prezzo (come costo reale e come costo-opportunità), e chi non può pagare quel prezzo non accede a quei valori. In tutte le città occidentali per ogni cittadino che può (e sa) apprezzare, ad esempio, l’Opera o il Teatro di Prosa ve ne sono 50 che non ne hanno mai avuti i mezzi (formativi, economici o entrambi); e tutti questi, chi più chi meno, finiscono per guardare a quella sfera culturale con sospetto, se non con disprezzo. Quanto minori le risorse (umane ed economiche) disponibili, tanto più queste disposizioni si esacerbano, ampliano ed estremizzano.

 

In questo quadro possiamo apprezzare la collocazione storica del liberismo tradizionalista, in tutte le sue declinazioni.

Esso da un lato promuove la sistematica mercificazione di valori sociali, relazioni, tempo, risorse umane, e così facendo alimenta la costante erosione dell’identità materiale dell’Occidente. Dall’altro si spaccia come terapia della distruzione identitaria che ha indotto, inneggiando ai simboli dell’identità formale, del tradizionalismo più vuoto e ottuso, nel nome dei ‘valori occidentali’.

I rappresentanti del liberismo tradizionalista, tra gli intellettuali come tra i politici, si trovano così nell’invidiabile e virtualmente invincibile posizione di chi si propone, alla luce del sole, come baluardo contro i danni che egli stesso, nell’ombra, provoca. Essi continuamente rivendicano quelle ricette socio-economiche disgreganti che conferiscono plausibilità alle proprie ricette culturali reazionarie.

In conclusione, siamo ora in grado di rispondere alla domanda di cui sopra, circa dove si possano trovare i nemici dell’identità occidentale: essi sono nascosti in piena luce, dissimulati dall’apparire come i più rabbiosi avvocati di quell’identità stessa.

 



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