Negli ultimi decenni, critica e teoria del cinema hanno reso materia dei loro studi quasi ogni prodotto cinematografico, dagli home-movies ai “cine-panettoni”, dalle serie televisive ai B-movies, dai film pornografici a quelli di propaganda, dalle animazioni ai documentari medici, e così via, individuando, in queste e in altre forme di rappresentazione, un territorio di elezione per comprendere le inferenze e le convergenze che esistono tra il paesaggio mediatico in cui siamo inseriti e i processi sociali che interessano la nostra vita quotidiana. Esiste però – forse – un «genere cinematografico» che non ha guadagnato la medesima attenzione critica, accedendo raramente alla ponderazione accademica, nonostante si producano centinaia di opere l’anno, vengano coinvolti gruppi compositi di persone, tra maestranze e fruitori, esistano festival dedicati e programmi televisivi che archiviano e diffondono tali lavori. Come si evince dal titolo dell’articolo, mi sto riferendo ai film scolastici, ovvero a quei prodotti audiovisivi realizzati negli istituti di scuola primaria e secondaria, generalmente all’interno di laboratori condotti durante le ore di lezione o nei tempi del doposcuola da insegnanti o media educator, grazie ai quali bambini e ragazzi vengono coinvolti nella scrittura di sceneggiature e storyboard, nella recitazione, nella regia, nel montaggio, in poche parole nella realizzazione di un numero considerevole di piccoli film «istituzionali». Si tratta, per evidenti ragioni, di prodotti eterogenei per composizione, qualità, registro, modalità partecipative: andiamo dalle «pubblicità-progresso» ai telegiornali, dai videoclip agli horror, dalle animazioni a passo uno fino a veri e propri documentari di quartiere o sulla vita degli stessi istituti scolastici in cui gli studenti trascorrono una buona fetta della loro giornata. Invisibili a chi non appartiene alla cerchia sociale direttamente interessata al fenomeno (studenti, professori, genitori, educatori), questi audiovisivi potrebbero rappresentare, in verità, un ambito d’indagine peculiare anche per chi studia e teorizza il «cinema vero», quello fatto da professionisti del settore o che si regge su più consistenti mezzi economici o tecnologici.
Intanto bisogna ricordare che il film scolastico è – come probabilmente direbbe Francesco Casetti – un luogo eccezionale di negoziazione e contrattazione della plausibilità cinematografica. È vero che non esiste un mercato o un’industria che impone gerarchie, regole, canoni, ma è altrettanto vero che nel corso della realizzazione di questi lavori vi sono specifici gruppi sociali, meglio ancora dei gruppi di pressione (i ragazzi, gli insegnanti, gli educatori, i genitori, il preside, ecc…) che agiscono dialetticamente e in forme spesso conflittuali, facendosi latori di istanze diseguali, alla ricerca di un delicato e fragile equilibrio, certamente difficile da individuare se si può osservare il film soltanto a processo ultimato. A cercare di declinarle brevemente, le forme di transazione tra gruppi di persone e/o tra fasci di esigenze appaiono piuttosto articolate. Nelle prime inserirei quelle tra: 1) Il singolo studente e il gruppo di pari; 2) Lo studente e il mondo adulto (insegnanti, genitori, operatori); 3) Il gruppo di pari e il mondo adulto; 4) Gli insegnanti, i media-educator e i genitori (pubblico privilegiato di questi film); 5) Gli insegnanti, il preside (l’autorità) o i loro colleghi che non partecipano ai laboratori; 6) L’istituzione scolastica e il contesto culturale e sociale in cui è collocata (quartiere, educativa territoriale, istituzioni pubbliche che finanziano direttamente o indirettamente queste attività). Nelle seconde segnalerei le contrattazioni tra: 1) esigenze educative/didattiche e quelle relative alla “libertà espressiva” dei singoli attori coinvolti; 2) esigenze di apprendimento di una tecnica o di un linguaggio e la necessità di giungere a un prodotto finito (magari già pensato per concorrere a un festival); 3) esigenze di coinvolgimento partecipato di tutti gli attori in campo e quelle relative alla gerarchizzazione propria della vita del set; 4) esigenze artistico-creative della “troupe” e quelle istituzionali della scuola, delle famiglie e del quartiere; 5) esigenze di veicolare un messaggio chiaro che restituisca una visione spesso di natura educativo-didascalica degli eventi, e quelle di offrire un prodotto originale, sofisticato, capace di sorprendere il pubblico di amici, parenti e insegnanti. E così via.
Questi campi di tensione – potrebbe obiettare chi non apprezza le disomogeneità e le ruvidezze di tali lavori – dovrebbero riguardare solo i diretti interessati o tuttalpiù chi si occupa di pedagogia o media education e intende esaminare i benefici formativi di questo tipo di esperienze. È insomma il processo e non il risultato finale a dover interessare chi ha a cuore, ad esempio, che bambini e adolescenti acquisiscano strumenti critici di lettura e interpretazione, capacità di produrre immagini, consapevolezza dell’ecosistema mediale in cui sono collocati. Tutto questo è senz’altro vero, tuttavia, come dicevo, accanto a questi indiscutibili aspetti, ve ne sono altri che possono riguardare più da vicino i film studies. Ne possiamo individuare, in questa sede, almeno tre. Il primo rimanda alla circolazione degli immaginari contemporanei. Se si guardano con attenzione corti e mediometraggi che escono dalle scuole, ci si accorgerà che spesso riproducono – esplicitamente o meno – generi, format, moduli, temi, luoghi e canoni del cinema, della TV, della comunicazione sociale, pubblicitaria e recentemente di quella web. Come calchi più o meno fedeli del mondo che ci circonda, testimonianze indirette e referenze implicite dei consumi quotidiani di immagini, i film scolastici filtrano, digeriscono, commutano un intero universo di fruizioni investendolo con la luce istituzionalizzante propria dell’ambito di loro produzione, la scuola. A differenza dei video girati e montati dagli adolescenti con gli smartphone, caricati su Youtube e solitamente rispondenti ad altre pratiche sociali e comunitarie, quelli realizzati sui banchi di scuola devono passare al vaglio di docenti, dirigenti e altre committenze. Dal punto di vista del visibile di sorliniana memoria o dei cosiddetti «spazi di comunicazione» teorizzati da Roger Odin, ne emerge un quadro piuttosto preciso di come l’istituzione pubblica vede e rappresenta i propri principali utenti (insieme alle famiglie) e le «minacce» che incombono su di loro e sulla stessa istituzione (si pensi al numero di film sul bullismo, la violenza, il disadattamento, l’handicap, o, di contro, alle tante pubblicità-progresso, ecc.). Da quello jenkinsiano di una cultura sempre più convergente e interconnessa, si tratta di una straordinaria occasione per intuire – e siamo al secondo aspetto – i modi con cui forme di contaminazione visuale sempre più diffuse e invasive cerchino di penetrare – con risultati talora esilaranti, altre volte dubbi, altre ancora di notevole acutezza – un luogo sociale storicamente lento ai cambiamenti come quello della scuola pubblica.
Vi è poi un terzo aspetto su cui vorrei terminare questa breve riflessione e che riguarda le pratiche di creatività e di espressività che sussistono, forse solo ben nascoste, all’interno di tali prodotti. Ad assistere alla proiezione dei lavori scolastici, realizzati con poche risorse, in poco tempo, con maestranza amatoriali e perciò molto disomogenei e incostanti tra loro, si potrebbe infatti pensare che essi non abbiano valore estetico-artistico, se non in rarissimi casi. Dunque si potrebbe ritenere che la dinamica negoziale con l’autorità scolastica determini, come esito complessivo della maggior parte di questi lavori, un certo arroccamento che riduce le potenzialità inventive sia delle giovani generazioni, sia delle nuove tecnologie audiovisive. Nondimeno se ha ragione Ricoeur quando afferma che l’interpretazione è «intelligenza del senso specificatamente indirizzata alle espressioni equivoche» (Dell’interpretazione: saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano, 2002, p. 20) e che ogni testo (compreso il nostro oggetto di studio) «è un luogo di significazioni complesse in cui un altro senso […] si dà e si nasconde nel senso immediato» (ivi. p. 19), allora anche nelle opere di ragazze e ragazzi è possibile trovare carature che trascendono le superfici del visibile istituzionalizzato e si lasciano rinvenire negli interstizi, nelle incostanze narrative o nei traboccamenti non controllati che opere così poco standardizzabili finiscono per ospitare in gran numero. Non è questa la sede per sistematizzare tali «espressioni equivoche», ma possiamo senz’altro evidenziare gli ambiti dove l’analisi può andare a scovarli. Penso ad esempio alla dimensione ludica, ironica, surreale che caratterizza i modi di comunicazione giovanili, penso alle posture di corpi adolescenziali in movimento e sottoposti a radicali trasformazioni, penso ai gerghi, ai linguaggi e ai gesti identitari delle piccole comunità scolastiche per loro natura poco irreggimentabili, penso alla presenza sul set di dispositivi di riproduzione e condivisione delle immagini (gli smartphone ad esempio) che inseriscono i nativi digitali dentro un ecosistema a loro più famigliare e attraversato da dinamiche sociali che potrebbe vederli partecipi e protagonisti, penso all’emergere del doppio, dell’altro, della maschera, temi strettamente legati a quello dell’identità di genere e dell’identità soggettiva, senza contare la questione probabilmente più complessa e inafferrabile di tutte, quella che riguarda la relazione tra mondo adulto e mondo giovanile (con una particolare attenzione alle dimensioni polarizzate dell’autorità e dell’esempio, del dialogo e dello scontro, della presenza e dell’assenza).
Insomma, per farla breve, anche quando sono «brutti» (da un punto di vista estetico) e «sporchi» (da un punto di vista della pulizia produttiva), i film scolastici sanno essere «fattivi», sia nel senso di generatori concreti di fatti, sia nel senso – linguistico – di predicati causativi. Causativi di ponderazioni, meglio se provenienti anche dai cosiddetti Film Studies.