In questo articolo mi inerpicherò in argomentazioni che da tempo inseguo, ma che per ora sono allo stadio iniziale e quindi ancora affollate di incertezze e domande. Nonostante ciò provo a proporre la tesi che sul piano culturale-ideologico una nuova tendenza stia prepotentemente avanzando, se non addirittura consolidandosi.
Nel 2011 lo storico Giacomo Todeschini pubblicò un libro dal titolo Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’età moderna, che ho letto perché pertinente con le mie ricerche di Filosofia dell’economia, e così ho iniziato a prestare attenzione al fatto che in ambito artistico – musica, romanzi, film – ricorreva con una certa frequenza il nome proprio Giuda. Nell’immaginario collettivo questa denotazione designa il traditore per antonomasia poiché prevalentemente connesso e identificato con Giuda Iscariota, il nemico del Cristo fin dalla sedimentazione dei testi canonici della religione cristiana; un giudeo che incarna lo stereotipo antiebraico: il denaro prima di ogni cosa e soprattutto di ogni valore. Giuda nell’ultima cena di Leonardo stringe la borsa con i soldi e arretra con un’espressione colpevole e nell’inquietudine ribalta la saliera (il sale della terra); ha la carnagione più scura degli altri apostoli, così i capelli e la barba. Come sappiamo l’uomo che deve far paura è l’uomo nero.
Todeschini nel suo saggio offre alla nostra riflessione, adoperando fonti letterarie e iconografiche scarsamente utilizzate, questa figura cardine – analizzata insieme a quella della Maddalena, che simbolicamente ne rappresenta l’opposto – per ridisegnare il linguaggio economico e quello politico comunitario del medioevo e dell’inizio dell’età moderna. Giuda rappresenta colui che vende il Cristo per una modestissima quantità di denaro e questa raffigurazione rappresenterebbe l’incomprensione cristiana per il valore della ricchezza, stigmatizzata dall’equivalenza “esiguo denaro” “esiguo valore del Cristo”, sottovalutando in questo modo il portato e il valore storico di Rabbi Yehoshu’a. Giuda rappresenta l’usuraio, il simbolo di coloro che amministrano il mercato del credito e insieme di coloro che ne hanno accesso e definendo di conseguenza anche il comportamento di coloro che ne sono esclusi. Giuda diventa così il prototipo negativo di chi non sa riconoscere il vero valore delle cose, e, a poco a poco, di chi non riesce a comprendere le regole del mercato e dell’economia che si stavano definendo. Di converso, la figura della Maddalena, che “dissipa” un pregiato balsamo per ungere la testa del Cristo, assume su sé il valore di un agire economico lungimirante e corretto, sapendo discernere fra il mero calcolo privato e l’uso sociale della ricchezza.
Un noto romanzo di Thomas Hardy si intitola Jude l’oscuro; dal 1970 Hey Jude è una canzone dei Beatles che mi accompagna nella vita; nel 1996 Giuda diventa un personaggio del fumetto creato da Leo Ortolani Venerdì 12. Sporadiche, anche se significative, apparizioni del nome. Invece negli ultimi quattro anni l’arte ne ha preso a prestito simbolicamente il nome in modo abbastanza significativo.
Nel 2010 una band italiana sceglie di denominarsi “Giuda”; dal 2011 Judas è un personaggio cardine del videogioco e dei fumetti Inazuma Eleven; Lady Gaga nel 2012 esegue un brano dal titolo Judas; nel 2014 vengono pubblicati il romanzo di Sveva Casati Modigliani Il bacio di Giuda e quello di Amos Oz Giuda. Recentemente a Berlino è stato presentato il film Histoire de Judas del regista Rabah Ameur-Zaïmeche, con un Giuda Iscariota diverso da quello dei vangeli canonici: non tradisce Rabbi Yehoshu’a e non prende denaro, piuttosto dopo essere venuto a conoscenza della sua morte si dispera e gli chiede perdono. Un punto di vista non molto lontano dalla posizione espressa dal romanzo di Oz.
Secondo il dizionario etimologico britannico Giuda deriverebbe dall’aramaico yehudah, il cui significato è “onorato” e/o “lodato” e Oz tenta di richiamare in vita questa accezione.
Il romanzo è ambientato alla fine degli anni ’50 ma la storia si protrae fino a oggi e parla all’oggi. La domanda intorno alla quale ruota la ricerca della tesi del dottorato del protagonista, Shemuel, è che Rabbi Yehoshu’a è stato un grande uomo, un ebreo morto da ebreo che non si è mai sognato di essere il figlio di Dio, ma che è stato Giuda, in realtà, a crederlo divino e a favorire la sua morte per dimostrarne l’immortalità. Egli crede in Rabbi Yehoshu’a più di quanto Rabbi Yehoshu’a creda in se stesso, il quale non vuole farsi crocifiggere, ha paura e ambirebbe ad allontanarsi da Gerusalemme e tornare in Galilea, mentre Giuda è convinto che solo con la morte violenta di Rabbi Yehoshu’a per mano dell’autorità politica il mondo possa essere redento; i trenta denari sono insignificanti. Una tesi già proposta nel 1939 dallo scrittore yiddish Sholem Asch nel romanzo Il Nazareno, dove Giuda tradisce per obbedienza al Cristo, che gli formula la richiesta esplicita di rivoltarsi.
Il Giuda di Oz diventa così un sovversivo che desidera il cambiamento: «Chi è pronto al cambiamento, chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento, e hanno una paura da morire del cambiamento e non lo capiscono e hanno disgusto di ogni cambiamento» (p. 269). Il tradimento ha un contenuto nuovo: è lo sguardo su ciò che cambia da parte di coloro che continuano a opporsi al cambiamento. Giuda incarna l’apologia del tradimento, poiché solo chi devia può fuoriuscire dalle convenzioni della comunità a cui appartiene, ed è soggetto capace di modificare se stesso per trasformare il mondo.
Lo stesso Oz intervistato richiamandosi alla rivoluzione comunista e a quella sionista sostiene che quando l’euforia ideologica ha termine ci si accorge dei danni di questa intransigenza ideologica perché non si è lasciato spazio al dissenso, alle posizioni critiche. La tesi che emerge è che chi cerca la perfezione finisce per distruggere il mondo sociale e la crescita culturale: «In ogni generazione i popoli si alzano per redimerci e non c’è nessuno che ci salvi dalle loro mani» (p. 273).
È come se Oz, rivisitando la figura di Giuda, intendesse rimettere al centro la sostanziale impurità degli animali umani e del mondo da questi abitato, il valore della devianza, del tradimento delle radici per vedere luce, nuova.
L’ideale della purezza viene frantumato dalla figura simbolica di Giuda e dai Giuda che hanno abitato il pianeta.
L’intera produzione filosofica di Jacques Derrida si configura sull’aporia, sull’evento, sul sacrificio, sulla promessa, sulla colpa, sul dono, sullo scambio, sulla dispersione, sulla follia dionisiaca, sull’assumere una visione dialettica che di per sé è logica di cambiamento e che coinvolge il tempo – presente, passato, futuro –. Per Derrida è Abramo, un nomeus, il segno rappresentativo, in quanto è tutto ciò che sorregge e che fonda l’economia della vita, poiché è il protagonista di un evento paradossale. La promessa del “pagherò” il debito del mancato sacrificio diventa per Abramo la condizione limite, la sponda – l’etimo di sponda e il verbo spondeo, spondere significano “promettere”, mentre ri-spondere significa“impegnarsi a propria volta” – che consente di dare una risposta al quesito di Isacco, che aveva chiesto chi sarebbe stato sacrificato; diventa l’incarnarsi della responsabilità e l’individuazione della soggettività.
Abramo alla fine della sua vita non vedrà né diverrà proprietario della promessa. L’unica terra in suo possesso sarà il sepolcro che egli si acquista (Genesi 23, 1-20) e questo perché la terra diventa il proprium solo in speranza. Essa, infatti, gli è data in anticipo nel figlio che ha generato, poiché i figli sono l’annuncio della terra promessa, dato che la terra è innanzitutto un popolo di carne e l’appagamento della terra si compie nel vivente che ha la potenzialità di generare e quindi di creare le condizioni per la vita nel futuro e il generare è tradire lo status quo.
E noi ci troviamo nella logica del suo eterno ritorno e nel tentativo di pensare, concepire e immaginare un altro Abramo e questo è possibile se tradiamo.
Giuda è “riapparso” così prepotentemente quale simbolo del tradimento di un mondo che non può più aspirare alla purezza dei comportamenti e dei fatti, proprio quando un nuovo paradigma di purezza di affacciava.
Sembrava che questa “purezza” fosse scomparsa dall’orizzonte una volta crollato sia l’ideale comunista della costruzione di un mondo scevro da ineguaglianze e da conflitti e fondato sui bisogni; sia l’ideale di una espressione della libertà senza limiti e confini, frantumato dalla crisi economica che dal 2007 attanaglia soprattutto l’Occidente e che ha rivelato come inadeguate e inattuali molte delle categorie che hanno presidiato l’ambito economico e politico e che ha spezzato il complesso filo delle relazioni che legavano questi due domini della vita individuale e sociale; in particolare ne ha fatto le spese l’ideale del liberismo economico e l’idea di un merito riconosciuto in base alle competenze.
Il segno e il contenuto di questo nuovo ideale di purezza lo si rintraccia nel film del 2014 Le meraviglie di Alice Rohrwacher, che mette in scena una sorta di biopurezza, dove bio è nell’accezione foucaultiana.
La protagonista, Gelsomina, vive nella campagna umbra con i genitori e le sorelline, è insofferente e desidererebbe fuggire per scoprire il mondo oltre la siepe del suo orizzonte. Lo sguardo di Gelsomina consente di posare l’occhio su una comunità ‘dissidente’ che si è ritirata in una dimensione bucolicamente pura, dove produce miele e altri cibi e prova a contrastare il mondo fuori. Un mondo, scandito dalle stagioni e dall’impollinazione delle api mellifere, nel quale irrompe una televisione regionale e naïf con concorsi a premi, coreografie grossolane, melodie banali, ma piena di promesse di realizzare meraviglie. La vera meraviglia sono invece le api del padre e lo stesso nome di Gelsomina che evoca un fiore e come un fiore è richiamo per le api.
La meraviglia è qualcosa che ci toglie la parola, ci rende impossibile l’espressione, è la cerniera fra il mondo terreno e quello ultraterreno, tanto che per lungo tempo si è diffusa la tesi che la filosofia nasca dalla meraviglia.
Questo film incarna una tendenza che si colloca all’interno del processo storico e sociale che gli fa da sfondo, dove la ruralità diventa oggetto del desiderio e il cibo naturale non è più una necessità bensì una scelta, è simbolo del ritorno alle radici con uno sguardo che sa bene quel che fa. Ed è consapevole che la campagna è cruda e dura, ma consente di esprimere una passione, che come spesso accade nelle passioni solipsistiche e ossessive, include anche una buona dose di autodistruttività, infatti la famiglia pare sempre sull’orlo di un cedimento emotivo e materiale, violento o compassionevole, permeato dell’ideologia contemporanea, cioè la retorica del “tipico” e del “tradizionale”: quello sguardo che chiede esclusivamente se il miele venga fatto così come lo facevano gli etruschi. La proposta è quella di recidere le relazioni con il mondo delle merci nell’illusione di non farne più parte e che l’autenticità possa ancora essere ritrovata.
La stessa regista ha dichiarato che intendeva «trovare un’immagine pura, abbiamo bisogno di un punto di vista, che deve necessariamente essere ibrido».
Il film mi ha evocato l’ecovillaggio di Issiglio, che non è certamente l’unico nel nostro Paese, dove si vive senza luce o senza gas e si mangiano unicamente i cibi autonomamente coltivati o i frutti selvaggi, dove i modi di vivere si richiamano al passato o addirittura si ispirano alle storie di Tolkien e dove l’idea della purezza impera, incombe e sovrasta.
La purezza in senso bio, che coinvolge i corpi e nei corpi si incarna, è sempre esistita, tanto che le regole alimentari da rispettare sono a fondamento di molte religioni: per l’induismo la vacca è sacra e mangiarla rende impuri, kasher (ebraico) e halal (arabo) significano puro. Ed è su queste basi che si sono costruiti modelli identitari, da un lato gli amici e dall’altra i nemici, avere delle regole e quindi un dispositivo per normalizzare l’anima attraverso la disciplina del corpo.
Sulla base della purezza il XX secolo ha dato il peggio di sé in termini di ideologie: si è dato fiato all’idea della razza, inventandone il concetto e insieme la possibilità di ricondurla alla sua purezza.
Oggi assistiamo in Occidente al proliferare degli adepti a regimi alimentari che evocano un principio di elezione, di elevazione, di leggerezza, grazie ai quali l’animale umano si solleva dalla terra al cielo e si fa leggero e così vola, nel tentativo di non assumere su di sé la consapevolezza di essere comunque un legno storto e soggetto alla mancanza e all’immane potenza del negativo, un negativo che è l’Altro da me, un Altro che è in me come mancanza e con cui siamo comunque costretti quotidianamente a fare i conti.
Mangiare non è quindi solo un bisogno elementare ma diventa un mangiare in modo giusto, così si diventa di volta in volta vegetariani, vegani (dimenticando che anche le piante hanno un metabolismo e un potente sistema motorio-percettivo), e chi più ha fantasia e regole si impone rispetto all’impuro vicino di dieta e di cui il film Hungry Hearts mette in scena la fame emotica che muove questi nostri comportamenti e modi di essere.
Così la caduta radicale di ogni fede rispetto all’Ideale essendo un tratto che si affievolisce e di fronte al governo delle vite fondato sulla logica del denaro, del desiderio più che del bisogno, si contrappone la relazione con animali e piante e a un mondo illusorio, dominato da incertezze si cerca di individuare e di incarnare nuove certezze, dimenticando che le lobby della salute e del fitness impongono comunque modelli al “digiunatore”, non potendo modificare il mondo e le sue leggi modifichiamo le regole con le quali accediamo alla fonte della nostra vita: cibo e bevande.
Il cibo è invece mediazione, convivialità, meticciato, è mettere in comune esperienze, culture, idee innovative. Il cibo è strutturalmente il contrario della purezza e per lo più ha infatti a che fare con la terra, che per chi ne ha esperienza “sporca le mani” e costringe a “piegare la schiena” e quindi non consente di volare.
Anche Giobbe vola quando ritiene che non ha compiuto il male, che non è impuro, ma vedendo le leggi del creato constata il male del mondo e quindi anche lui è partecipe del legno storto e constata che la purezza non è fra noi, con noi, e che quindi ciò che è necessario è condivide la difficoltà, l’impegno e la responsabilità del farsi cura dei mali del mondo, cura dell’animale umano morente. E per fare questo si tratta di “osare di sapere”, perché la domanda è il faro della libertà e della possibilità di volare.
Una libertà che non è unicamente libertà di fare e dire quel che si vuole, svincola da legami fondati su credenze, ma emancipazione da una condizione di minorità e segno dello spartiacque fra l’animale umano e il resto del mondo animale. La libertà è responsabilità delle conseguenza di atti e parole, è solitudine perché implica la possibilità di vivere senza protezione, senza avalli ultimi, in condizioni di incertezza. La libertà è angoscia e spaesamento come argomentano prima Nietzsche e poi Heidegger, il cui pensiero, in particolare nel caso del secondo, è impregnato dalla stortura del legno.
N.B. Tutta la vicenda islamica che è assurta nuovamente e in modo drammatico alla ribalta delle cronache, e probabilmente lo sarà della storia, è impregnata del fanatismo della purezza, tanto che lo stupro delle vergini ne rappresenta uno degli archetipi comportamentali.