Insidiati da sociologi, antropologi, storici, neuroscienziati, psicanalisti, economisti, giuristi, tecnologi e studiosi della Rete, che cosa fanno i filosofi? Come presidiano la cassetta degli attrezzi di un sapere “generale e sintetico” dall’incursione di altri saperi che in quella stessa cassetta sembrano essersi riforniti per portare a termine un rovesciamento-svuotamento del loro rapporto con la filosofia? E che cosa hanno fatto i filosofi dagli ultimi decenni del secolo scorso agli albori di questo, oltre a fornire al dibattito (sempre meno pubblico) massicce dosi di metafilosofia e di filosofia sulla fine della filosofia o almeno di una sua tonalità? Hanno scritto dei bei libri, certo, e riempito le piazze dei festival diventando, in alcuni casi, delle autentiche star (Žižek su tutti). Ma in definitiva – riprendendo il titolo di un articolo di Andrea Zhok sull’ultimo numero di Scenari – come hanno esercitato i filosofi “il mestiere di pensare” e, soprattutto, come hanno difeso-promosso il “ruolo pubblico della filosofia”?
Non mi sfugge che nel cantiere aperto da Foucault hanno lavorato in molti negli ultimi decenni, spesso con esiti importanti. Né che, sul versante analitico, la filosofia politica dall’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso in poi abbia conosciuto una nuova stagione, soprattutto come commento-approfondimento-critica della riformulazione contrattualista di Rawls. Tanto per ricordare due tracce di sicuro impatto pubblico. Mi sembra tuttavia che la la forza della filosofia si sia via via ritirata dentro l’accademia e l’editoria specializzata; che la filosofia abbia manifestato una certa afasia su alcuni snodi cruciali del nostro tempo, nonostante la crescente presenza di filosofi-opinionisti sui media tradizionali e non.
Non sono un filosofo. E naturalmente al dilettante, necessariamente carente di un corredo bibliografico adeguato, potrebbe sfuggire molto. Ma credo che proprio questo non professionismo possa fornire un punto di vista almeno pertinente, se si parla di ruolo pubblico della filosofia.
Un non-filosofo curioso di filosofia (uno del pubblico in platea) si sente chiamato in causa da Zhok non tanto per il “pretesto” del suo intervento (una recensione critica, chiara e convincente, al libro di Diego Marconi “Il mestiere di pensare”), quanto per alcuni passaggi conclusivi sul ruolo e la “necessità” della filosofia. Per il gesto – il tentativo – di ricollocarla all’interno dell'”orizzonte delle persone colte” (in uno spazio pubblico appunto) dal quale, secondo l’analitico Marconi, sarebbe definitivamente uscita senza che di questo ci si debba dolere, poichè corrisponderebbe al nuovo statuto della filosofia nella contemporaneità: quello di un sapere specialistico tra gli altri.
Uno statuto che il non-filosofo curioso di filosofia naturalmente tende a rifiutare, perché gli piace pensare al filosofo – per citare Zhok – come “specialista della generalità, estesamente informato su una pluralità di campi diversi e capace, in misura variabile, di fornirne una sintesi”.
Sebbene collocato nella parte bassa di quella variabilità, il non-filosofo può sentirsi partecipe di quella stessa “tensione verso la sintesi (…) che ciascun umano cosciente tenta, in varia misura, di fare, ricercando un orientamento tra passato e futuro, fatti e valori, necessità e speranze”. In definitiva provando a colmare un vuoto: “Il pensiero nasce dalla ricerca di qualcosa che manca, da un vuoto di senso che vorrebbe colmare, senza mai riuscire a farlo compiutamente”, ha detto Roberto Esposito davanti al pubblico del festival Vicino/lontano 2014 (L’intervento completo è stato pubblicato su aut aut 362).
Zhok si avvia a concludere il suo articolo con un passaggio che mi sembra condivisibile ma anche problematico. Mi pare del tutto condivisibile che “il bisogno di filosofia” cresca “in parallelo con la dinamicità sociale”. “Con il crescere di fattori disorientanti come rapidi mutamenti nei saperi, nei costumi, nelle forme di produzione”, e che “pochi periodi della storia hanno visto una tale fioritura di fattori cognitivamente e assiologicamente destabilizzanti quanto quella presente”.
Mi sembra invece problematico il rapporto tra quel bisogno e le risposte che la filosofia come “discorso pubblico” riesce a fornire. Tanto da sottoscrivere, anche se per tutt’altre ragioni e non rallegrandomene, l’affermazione di Marconi – contestata da Zhok – secondo cui “oggi la filosofia ha davvero un impatto meno esteso sul pubblico di quanto accadesse un tempo”.
Proverò a spiegare con qualche esempio come, a mio avviso, la filosofia e le sue legittime ambizioni pubbliche facciano spesso fatica a intercettare lo spirito di un “tempo come pochi altri nella storia”, lavorandoci con gli strumenti critici che le sono propri.
Partirò da due assunti, per poi chiedermi (o meglio, chiedere ai filosofi) se alla necessità di filosofia intorno a queste questioni corrisponda un suo adeguato ruolo pubblico.
1) Il paradigma economico (uno dei figli e figliastri del “pensiero calcolante”) sta cancellando la politica, svuotandone di senso gran parte delle categorie e provocando uno slittamento semantico di alcune delle sue parole chiave (democrazia, diritti, riforme, destra, sinistra…).
2) Con l’avvento del digitale stiamo vivendo una rivoluzione cognitiva paragonabile solo al passaggio tra oralità e scrittura e alla nascita della “galassia Gutenberg”.
Se si concorda sul fatto che il paradigma economico e quello digitale caratterizzano in modo più pervasivo di altri il nostro tempo, e se si prendono per buone le conclusioni di Zhok – come ho fatto – sulla necessità e i compiti della filosofia, non si può non notare, secondo l’osservatore non professionale, che l’esercizio del “mestiere di pensare” filosoficamente il grande mutamento ha spesso ceduto il passo.
Sul primo punto: mi sembra che i contributi “pubblicamente” più rilevanti siano stati forniti da economisti, sociologi, storici, addirittura giornalisti-saggisti. Mi vengono in mente, tra gli altri, i lavori di Stiglitz e Sen, quello del sociologo Colin Crouch sulla “Postdemocrazia” e dello storico Pierre Rosanvallon sulla “Controdemocrazia”, le cui fortune sarebbe riduttivo attribuire all’efficacia “giornalistica” dei titoli.
Sul secondo punto: oltre ad alcune incursioni di Maurizio Ferraris, mi sembra che uno dei lavori filosofici più interessanti sia stato quello di Michel Serres (“Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzioneranno il sapere” (2013): un libro visionario in cui l’epistemologo prefigura la fine (questa volta sì…) di un sapere millenario prodotta dalla società digitale. Serres preconizza (ma in realtà guarda con benevolenza, se non entusiasmo) un tempo vicino in cui la percezione del tempo, dello spazio, di noi stessi sarà radicalmente mutata: un mondo “decapitato” in cui non solo la memoria, ma le nostre stesse facoltà cognitive, fino a qui “interne”, saranno a disposizione in qualche device sempre più nuovo e sofisticato.
Naturalmente i contributi filosofici su questo tema sono molti di più, ma dobbiamo a un linguista, Raffaele Simone, il merito di aver colto in anticipo (almeno sulla scena italiana) l’irruzione del nuovo totalizzante paradigma digitale con “La terza fase, forme di sapere che stiamo perdendo” (2002). E soprattutto (al di là della polemica tra web-apocalittici e web-entusiasti) sono stati tecnologi e studiosi della Rete ad assumere, più dei filosofi, un “ruolo pubblico” in questo crocevia che probabilmente più di ogni altro caratterizza la contemporaneità. Su tutti, a mio avviso, Il tecnologo Jaron Lanier (uno dei padri della realtà virtuale) che nei suoi lavori non esita a puntare il dito contro la latitanza di filosofi e umanisti in generale. Come a dire: ma dobbiamo spiegarvelo noi tecnologi quanto è (anche) filosoficamente rilevante e soprattutto come si forma quello che sta accadendo nella Silicon Valley, questa “nuova Atene” dove si forma il pensiero del terzo millennio, il pensiero tecno-indotto?
Paradossalmente il discorso filosofico che più si avvicina alla critica che Lanier muove al totalitarismo digitale (critica che prende di mira soprattutto l’autolegittimazione e l’assenza di un “orizzonte di senso” delle pratiche che producono l’avanzamento apparentemente inarrestabile di forme di pensiero tecno-indotto) mi pare si sia sviluppato molto prima dell’avvento della rivoluzione digitale, e che sia riassumibile nella questione della Tecnica.
Per concludere: “Il mestiere di pensare e il ruolo pubblico della filosofia” dovrebbero forse riprendere le mosse da una della parole potenzialmente più patogene della filosofia stessa: ontologia.
Ma nel senso storico e anti-essenzialista dell’ontologia del presente dell’ultimo Foucault. Che a me, non-filosofo (ma i filosofi, eventualmente, mi correggeranno), piace interpretare come un’ontologia precaria di noi stessi, nel nostro qui e ora, in un tempo e in un luogo, indagando le condizioni che rendono possibili il nostro agire e il nostro pensare. Un’ontologia che aiuti a capire come e perché siamo arrivati in questo qui e ora, rifiutandone l’ineluttabilità con l’esercizio di un’etica.
Ripartendo da questa pratica, rispetto alle due “ideologie” – quella economica e quella digitale – che mi sembrano le più invasive del nostro tempo la filosofia non solo è necessaria, ma avrà ancora molto da dire.