Soglie di sensibilità

Nelle condizioni di vita moderne, laiche e pluralistiche, nessuna delle tradizioni o delle “culture” in reciproca concorrenza può pretendere di essere immediatamente vincolante per tutti. Ciò vale naturalmente anche per le tradizioni religiose, che devono fare i conti con il pluralismo delle diverse fedi e con un senso comune, almeno in Occidente, ormai secolarizzato. Eppure, gli attacchi terroristici perpetrati alla sede parigina di Charlie Hebdo e nel supermercato Hyper Casher condotti al grido – come ricordava Giovanni Leghissa su questa rivista – di “Allah è grande”, hanno tragicamente riproposto la volontà di alcune “potenze della fede” di imporre restrizioni inaccettabili alla libertà di pensiero e di espressione che stanno a fondamento dello Stato democratico di diritto.

Molti hanno rievocato, in questa circostanze, un’espressione che sembrava ormai superata, quella dello “scontro di civiltà”. Ma è davvero così superata?

In effetti, e al netto delle incrostazioni propagandistiche e delle retoriche apologetiche che ne hanno suggerito la nascita, accompagnato la diffusione e compromesso la valenza esplicativa, nella tesi dello “scontro di civiltà” continuano tuttavia a risuonare alcune domande scomode. Per esempio: come trovare una soluzione di compromesso con chi attinge in linea di principio a un nucleo immodificabile di verità assolute ritenute infallibili, che si sottraggono alla giustificazione discorsiva che si applica invece agli altri orientamenti di vita? Oppure: come tradurre in termini accessibili alla ragione pubblica quello che i fondamentalisti considerano come il potenziale di verità contenuto nella loro interpretazione settaria di certe immagini religiose del mondo?

Ora, superato lo shock iniziale e la ritualità delle dichiarazioni d’obbligo, parecchi commentatori hanno cominciato ad assumere un atteggiamento diverso da quello iniziale, compattamente schierato a difesa della libertà assoluta di espressione. Le parole di papa Bergoglio – “se tu offendi la mia mamma, un pugno te lo devi aspettare” – lasciano trasparire una sottile inversione di tendenza in merito al giudizio da dare ai quei tragici eventi. E che si può riassumere così: “la libertà va difesa, ma offendere le religioni, e soprattutto con i toni e lo stile adottati da Charlie Hebdo, è sbagliato. E lo è, in particolare, a causa della particolare sensibilità in proposito dei fedeli musulmani”.

È come se, in altre parole, i cittadini laici e secolarizzati fossero invitati a osservare delle “regole bavaglio” per non superare la soglia di sensibilità di chi ispira le sue azioni a un apparato dottrinale precostituito, a una “parola rivelata” che si presenta in forma dottrinaria e dogmatica. In realtà, i cittadini secolari – e che, per riprendere la famosa espressione di Weber, si sentono religiös unmusikalisch – hanno tutto il diritto di rimanere cognitivamente insensibili a una concezione sacrale della vita. Non esistono nelle nostre democrazie zone di “extraterritorialità” comunicativa, come hanno compreso, volenti o nolenti, le religioni che hanno rinunciato a ogni pretesa di totale strutturazione dell’esistenza e hanno saputo adeguarsi alla laicizzazione del sapere, alla neutralizzazione operata dall’autorità statale e alla generalizzata libertà di culto – come per esempio le religioni protestanti, che si sono sottoposte a una ristrutturazione cognitiva capace di promuovere una modalità riflessiva della fede.

Certo, vi sono religioni incapaci di uscire dal guscio della propria concezione esclusivista del bene e che continuano ad aderire a posizioni che risalgono a realtà anteriori alla laicizzazione dello Stato e della società. Religioni nelle quali trova espressione la volontà di fare ritorno all’esclusività premoderna dei comportamenti di fede e di ripristinare i nessi che (da noi) si credevano superati tra consenso normativo, immagine del mondo e sistema istituzionale. Ma la loro particolare soglia di sensibilità non le può esentare dalla necessità di misurarsi con il (necessario e inevitabile) pluralismo delle fedi e con lo scetticismo del sapere scientifico-profano. Anche perché la soglia politicamente corretta della sensibilità religiosa è quanto di più sfuggente e inafferrabile ci possa essere, soprattutto dal punto di vista giuridico e normativo.

Quello che per alcuni è il solo modo ragionevole con cui appagare il senso categorico di un imperativo religioso ed esistenziale che impedisce di scendere a compromessi con libertà comunicative che considerano inaccettabili, per altri è un diritto conquistato a prezzo di lotte e sacrifici. E quella distinzione tra la dimensione pubblica e la dimensione privata della vita, che per alcuni è una minaccia suscettibile di mettere a repentaglio una forma di integrità assicurata dal senso performativo di una fede vissuta in tutta la sua pienezza, per altri è una conquista, sia detto senza alcuna enfasi, di civiltà. La libertà comunicativa ed espressiva, in altre parole, non è un’opzione tra le altre, ma una condizione ineliminabile della democrazia. E, soprattutto, non è un fatto privato, ma una dimensione pubblica che prescinde dalle credenze, poiché coincide con la istituzionalizzazione del principio del pluralismo delle fedi e delle convinzioni. È il fondamento dell’etica pubblica e dello statuto della cittadinanza. Per questo non può essere sottoposta a regole bavaglio o a forme di autocensura più o meno attente a non superare certe soglie di sensibilità. Come ha scritto Habermas, “l’ethos della cittadinanza liberale esige la presa di coscienza riflessiva dei limiti sia della fede che del sapere”. Per il sapere è già avvenuto, anche se si è trattato di un processo contrastato e tutt’altro che indolore. Per le varianti estremiste e violente della fede ciò potrà avvenire se, e soltanto se, la libertà comunicativa ed espressiva che rappresenta la massima espressione della laicità avrà l’opportunità di diffondersi anche tra coloro che oggi la rifiutano con ogni mezzo. Non è rinunciando alle nostre conquiste – strappate ad altre ortodossie – che si può sperare di indurre fondamentalisti e settari a deporre le loro armi, purtroppo non solo simboliche. Perciò forse è a questa soglia di sensibilità che occorre prestare ogni attenzione possibile.



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