CRONACHE DALLA SALA CINEMATOGRAFICA

 

 

 

 

 

Nulla è più simbolico dell’organizzazione delle sale cinematografiche. Un po’ per colpa dei critici, molto per colpa dei distributori e in parte per colpa degli esercenti, il prodotto cinematografico di prima visione è segmentato in maniera rigida. Ci sono le multisale d’essai e i multiplex. E ci sono, sempre meno, gli schermi del centro città che cercano di mantenere uno sguardo aperto sia sul cinema spettacolare sia su quello “middle e high brow”, magari non di nicchia ma per una audience medio alta e di cultura abbastanza elevata.

Tutti i film italiani, per esempio, vengono realizzati pensando a un certo tipo di pubblico. Il più grave problema del cinema italiano, infatti, è quello di non conoscere davvero bene il proprio pubblico e di ripetere ad nauseam le formule che hanno funzionato una volta, fino a che il modello si esaurisce e si cercano nuovi prototipi, quasi sempre nel campo della commedia, il più remunerativo.

Ma il pubblico è sempre una vittima? È tutta colpa di chi sta dall’altra parte se non vediamo un cinema più desiderabile e non scopriamo nuove forme di ricezione più trasversali? Vediamo.

Anzitutto, il consumo nei grandi multiplex è molto più poroso di quanto non si creda. Chiunque vada a vedere i film in quelle strutture spesso nate nelle periferie di piccole e grandi città sa bene che anche in quel contesto la stratificazione è presente. Un po’ perché è cambiata la programmazione (e ogni sera ci sono diverse nicchie di mercato rappresentate), un po’ perché lo snobismo dello spettatore d’essai ha costruito leggende metropolitane dure a morire, come quella dei multiplex presi d’assalto da ragazzini vocianti e maleducati. Ora, solo chi non ha esperito il consumo di film in sala negli anni Ottanta e Novanta può considerare davvero estremi i comportamenti di oggi. Allora (ma generazionalmente non posso parlare dei decenni precedenti), già in epoca di rinnovamento tecnologico e di discontinuità culturale, di abitudine alle pratiche di visione domestica e di spappolamento del consumo collettivo, accadevano fatti incresciosi e intemperanze offensive, che magari oggi vengono ricordate con nostalgica bonomia.

Ovviamente non si può generalizzare. Il pubblico di Roma è diverso da quello di Milano, quello di Bergamo da quello di Torino, quello di Trapani da quello di Aosta. Ma esistono numerosi studi sull’audience e sulla sua composizione, che per lo più dimostrano come il pubblico dei multiplex cresca con le sale, e invecchi insieme alle sue pratiche. In buona sostanza, quando un uomo o una donna adulta compiono trent’anni, non è che “mettono la testa a posto” e lasciano il posto in poltrona a giovinastri chiassosi, anzi continuano (per fortuna) ad andare in sala e magari negli anni successivi cominciano a portarci i figli – di qui il successo del cinema d’animazione e per famiglie nei multiplex degli ultimi anni. Vecchi spettatori ne creano di nuovi. In assenza di una sia pur minima educazione ai media nella nostra disastratissima scuola, il passaggio di consegne spetta ai multiplex e alle pratiche spettatoriali dei neo-genitori. Ecco un dato cui nessuno pensa: se le generazioni dei nativi digitali andranno al cinema in futuro, anche da soli, al momento lo si deve ai multiplex e al cinema per famiglie.

Bene, e ora vediamo il rovescio della medaglia, il pubblico del cinema d’essai. Ci permettiamo empirismi arbitrari (questo non è luogo per studi antropologici o per una vera etnografia dei media). Raccontiamo una scena esemplare. Cineclub bolognese, anteprima di un importante film inglese sul rapporto cinema/pittura. Alcune file di posti sono riservate agli ospiti della manifestazione organizzatrice. Gli ospiti non arrivano. A un minuto dall’inizio, il responsabile di sala avverte le prime file, stipate scomodamente sotto il grande schermo, che possono (volendo) traslocare nelle file più comode, ora sdoganate. Parte un assalto indecoroso, nel quale trionfano alcune signore anziane che prendono letteralmente a calci e bastonate i malcapitati che puntavano ai medesimi posti, infilandosi a gomitate su poltrone praticamente già occupate. A farne le spese, anche una bambina di dieci anni. Ci si chiede che cosa sarebbe accaduto su un traghetto in fiamme e poche scialuppe a disposizione.

Scena numero due. Prima visione in una città del nord, tardo pomeriggio. Il film è Il nome del figlio di Francesca Archibugi, una commedia “erudita” di origine teatrale, non un cinepanettone. Nobile quanto basta per far sentire a suo agio il pubblico, anche in quel caso piuttosto maturo. Dietro di me, sento parlare – durante la pubblicità – di Tsipras, di Houellebecq, di Saviano, insomma sembra un campione demoscopico creato ad arte. Parte il film, e ancora al decimo minuto almeno due file di spettatori continuano imperterriti a parlare di amici, di malattie e di cene da organizzare. Poi le vicende rancorose della famiglia Pontecorvo, narrate nel film, catturano l’interesse anche dei più resistenti. E si verifica il processo contrario. Sindrome da salotto di casa: l’intimità con il film e la voglia di condividerne le sensazioni è tale che tutta la sala è punteggiata da esclamazioni a intervalli regolari, come “Nooo!”, “Oh-oh”, “Ah bene, proprio un bel caratterino”, “Ah ah, mi ricorda mia sorella”, “Ecco il fascistone”, “Annamo bbeeneee…”, “E’ gay o non è gay?”, e così via, testualmente. A una signora sui settanta, prende un’ilarità tale che anche quando c’è la scena più drammatica (lo sfogo di Valeria Golino), non smette di ridere a crepapelle, semplicemente perché NON VUOLE smettere. E i suoi singulti immotivati risuonano nell’apnea del pubblico in ascolto.

Si riaccendono le luci. E io non riesco a trovare la differenza tra il sedicenne che smanetta con lo smartphone durante Exodus e la professoressa di italiano che schiamazza mentre sullo schermo citano Lévi-Strauss.



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