Se c’è una porzione di storia del Novecento, vuoi per la sua profonda complessità, vuoi per la sua estrema gravità, in grado di accendere in men che non si dica il dibattito politico internazionale, quella è di certo la Germania del Terzo Reich. L’istituzione della Giornata della Memoria nel novembre del 2005 ha poi contribuito a gettare ulteriore benzina sul fuoco, facendo sì che almeno una volta all’anno si torni sulla questione. Nonostante l’inquantificabile numero di contributi critici, libri, saggi e studi dedicati, i nodi da sciogliere rimangono tanti. La diffusa tendenza a polarizzare la questione e a ridurla ad argomento puramente ideologico, ha portato a una contrapposizione sterile, la cui dialettica ha prodotto il più delle volte una girandola di parole al vento, dove ha dominato una vis retorica che in pochissimi casi è riuscita a spingersi in profondità.
Per prima cosa, occorre constatare come l’argomento Shoah sia stato indubbiamente vittima di usi ideologici da parte di una fetta consistente dell’opinione pubblica mainstream. La reductio ad hitlerum – riduzione di tutti i nemici a nuovi Hitler – ha, ad esempio, sempre fatto comodo, specie negli ultimi tempi, a gran parte del mondo occidentale per giustificare le invasioni altrimenti ingiustificabili di stati sovrani. Il caso dell’Iraq di Saddam Hussein, o quello della Libia di Gheddafi, sono esempi che da soli valgono più di un saggio. Qual è, dunque, il punto dal quale partire per produrre un ragionamento non scontato sulla Shoah? Uscendo dall’ottica del misticismo di un millantato «destino storico» del popolo tedesco ed entrando nella dimensione della «produzione storica», la chiave di lettura per aprire una prospettiva inedita sul genocidio nazista gravita attorno al perverso convincimento di poter perfezionare la specie umana attraverso la selezione artificiale dei caratteri fisici e mentali ritenuti positivi, e la rimozione di quelli negativi. È questa la cifra che va indagata per comprendere il perché e il come sia stato possibile un massacro di tale portata con il consenso quasi unanime di tutte le forze politiche, culturali, sociali, e religiose del Paese.
Durante la detenzione nel carcere di Landsberg, Adolf Hitler approfondì la sua conoscenza dell’eugenetica leggendo alcuni trattati di igiene razziale. Com’è noto, questa fase culminò con la pubblicazione di Mein Kampf, saggio in cui egli giunse alla conclusione che l’unico modo per la Germania di riacquistare il proprio status di potenza, era quello di estendere l’applicazione dei principi basilari dell’eugenetica e dell’igiene razziale a quei milioni di persone che inquinavano la società tedesca. Alla base di questa concezione delirante vi è un coacervo di teorie, concetti, formulazioni e credenze che sono ancora oggi i pilastri fondamentali sui quali è edificata la società occidentale. Non si tratta solo di elementi di filosofia politica, ma anche e soprattutto di mappe concettuali tramite le quali andiamo a leggere la realtà e formare le nostre convinzioni. Visto dall’alto il Mein Kampf si potrebbe rappresentare con un grossa metafora geografica: quella del delta fluviale. Un accumulo di elementi che si forma in un’area dove un corso d’acqua convoglia altri elementi in un bacino.
Quando si parla di genocidio nazista, il più grosso errore che si può commettere è ridurlo alla sola pratica della deportazione nei campi di concentramento e delle camere a gas. In realtà le misure di igiene razziale previste dal codice nazista includevano pratiche quali la sterilizzazione forzata, l’internamento in lager psichiatrici e la lobotomia frontale, tutte prassi di epurazione razziale già ampiamente in uso da tempo in tutto l’Occidente, dalla Svezia all’Italia, dall’Inghilterra al Portogallo, dalla Germania agli Stati Uniti d’America, dal Canada alla Russia, dal Sudafrica all’Australia. Per capire come si è arrivati a tutto ciò, è necessario capire quale fosse il background culturale che ha influenzato il giovane Hitler in fase di stesura.
Nel Mein kampf, oltre che quella esercitata dalla dottrina eugenetica – portata in auge negli anni sessanta dell’Ottocento da Francis Galton, cugino di Charles Darwin -, è evidente l’influenza profonda della teoria darwiniana dell’evoluzione, enunciata nel 1859 in L’origine della specie. In Germania l’opera di Darwin fu largamente propagandata Ernst Haeckel, biologo natio di Postdam che sviluppò la teoria della ricapitolazione e i concetti di ontogenesi e filogenesi. Formulazioni che servirono da teoria generale al determinismo biologico, dottrina utilizzata per giustificare un ordinamento gerarchico e lineare della variazione umana. Attorno alla teoria di Darwin, che riscosse parecchio successo in ambito positivista, si creò rapidamente la convinzione che fosse giusta perché basata sull’evidenza di numerosi fatti empirci e che, più di ogni altra cosa, fosse super partes. Tuttavia, le parole di Darwin lasciano trasparire un forte debito pagato alla concezione progressiva della storia tipica dell’Illuminismo settecentesco, secondo cui la movimento della storia è finalisticamente indirizzato verso una condizione di felicità universale. Per raggiungerla, secondo Darwin e, più in generale, secondo il pensiero positivista, occorre mettersi interamente nelle mani della scienza e della tecnica, le uniche due vie che possono trasformare ciò che si era creduto predeterminato. Nel quinto capitolo de L’origine dell’uomo e la selezione sessuale scrive:
«Fa meraviglia come la mancanza di cure, e le cure male dirette conducano alla degenerazione di una razza domestica; ma, eccettuato il caso dell’uomo stesso, forse nessuno può essere tanto ignorante da far generare i suoi peggiori animali.»
Nel sesto capitolo, invece che:
«Fra qualche tempo, non molto lontano misurando per secoli, è quasi certo che le razze umane incivilite stermineranno e si sostituiranno in tutto il mondo alle razze selvagge. Nello stesso tempo le scimmie antropomorfe, come ha notato il prof. Schaaffhausen, saranno senza dubbio sterminate».
Arrivando a credere che la natura, inclusa la natura umana, fosse perfezionabile, si è spianata la strada a quel razzismo di matrice scientifica che, ancora ai giorni nostri, tenta di giustificare la superiorità dei bianchi sulle altre razze umane e sugli altri animali. Questa tendenza è ben ravvisabile, sfortunatamente, nella continua proliferazione di soggetti politici (non ultimo Pegida in Germania) che senza questa solida base teorica non avrebbero ragione di esistere.
In I volenterosi carnefici di Hitler, Daniel J. Goldhagen elucida la sua tesi che i tedeschi ordinari non solo sapevano, ma sostenevano l’Olocausto, sulla scorta di un virulento antisemitismo eliminazionista che era parte fondante dell’identità nazionale e che si era sviluppato nei secoli precedenti. Il fatto che l’opera di Goldhagen attirò grande ostilità in Germania, significa che riuscì a toccare un nervo scoperto. Il motivo è semplice: l’olocausto nazista è il punto basso della storia teutonica, soprattutto perché vide milioni di tedeschi dare il proprio assenso – implicito o esplicito – al massacro di centinaia di migliaia di connazionali.
Albert Einstein, sostenendo che la gente poteva non essere d’accordo con la brutalità di ciò che stava accadendo, definì quanto andava accadendo in Germania una «malattia psichica di massa»; mentre Thomas Mann, anch’egli esiliato, gli scrisse esprimendo la propria preoccupazione:
«Perché’ io sia costretto a un tale ruolo dev’essere sicuramente accaduto qualcosa di radicalmente sbagliato e di malvagio. Ed è mia profonda convinzione che l’intera “Rivoluzione tedesca” sia in realtà qualcosa di sbagliato e di malvagio».
Quel qualcosa di «radicalmente sbagliato e di malvagio» di cui parla l’autore de I Buddenbrook è, a ben vedere, il sentore che si era arrivati al punto di non ritorno di una curva percorsa dalla civiltà occidentale a partire dall’inizio della cosiddetta modernità, a cavallo tra il XV e il XIV secolo. Seguendo il phylum ellenistico-romano-cristiano-illuministico, si è passati dal determinismo biologico settecentesco (superiorità biologica vs inferiorità biologica) all’evoluzionismo darwiniano opportunamente riletto, per approdare al darwinismo sociale tardo ottocentesco che è confluito come un fiume in piena nel determinismo genetico novecentesco (geneticamente superiore vs geneticamente inferiore), sfociato definitivamente nelle deprecabili pratiche eugenetiche e scientiste entrate in voga della seconda metà dell’800, e portate su larga scala dagli eccidi nazisti, stalinisti e dei loro alleati.
Visto attraverso questa lente, il campo si allarga notevolmente, e l’era dei totalitarismi assume decisamente un’altra gradazione. L’arma abitualmente sfoderata da quella branca di pensiero che tende a giustificare o sminuire il significato della Shoah è il richiamo alla memoria dei massacri avvenuti nei Gulag sovietici. Anche se l’attacco è quasi sempre strumentale, solleva un problema reale: perché nel Paese schierato in blocco contro la logica del potere dominante, si sono verificate le stesse identiche dinamiche della Germania nazista e di tutti gli altri totalitarismi? Sulla questione a sinistra si è sempre voluto mantenere un cono d’ombra. Anche qui, il motivo è semplice: teorie politiche e sociali quali il socialismo scientifico di Marx e Engels, o l’anarchismo di Bakunin e Kropotkin, hanno attinto dal medesimo impianto ideologico settecentesco – al cui interno svetta su cui si la scienza come metafisica di certezze assolute – lasciandolo, de facto, immutato. Non per nulla Marx, benché meno dell’amico Engels, si mostrò entusiasta della teoria darwiniana, inviando in omaggio allo studioso inglese la seconda edizione del II volume de Il Capitale al cui interno un dedica autografa affermava: Al signor Charles Darwin da parte del suo sincero ammiratore Karl Marx.
Deviati dalla ferma convinzione che la completezza della specie umana fosse realizzabile scientificamente e di una scienza al servizio dell’essere umano e non del potere, né a Darwin né ad altri studiosi e intellettuali come lui poteva salire il dubbio che la loro interpretazione della realtà potesse di fatto avere effetti catastrofici sull’umanità. Ma è proprio in nome di questa (presunta) visione scientifica della vita, che le civiltà occidentali hanno sistematicamente portato avanti politiche basate sulla pulizia etnica – leggi colonialismo – fino a quando gli si sono rivoltate contro e le hanno fatte sprofondare nella follia suicida/omicida delle due guerre mondiali. E se fossero sbagliati i fondamenti sui quali costruiamo la nostra relazione con la realtà? Per questo, ma anche per tanti altri motivi, è giusto ricordare.