L’etnocentrismo critico di Gulliver


 

Ernesto De Martino in La fine del mondo ha sostenuto che “il giudizio che l’occidente può dare di culture non occidentali non può non essere etnocentrico, almeno nel senso che non è possibile per lo studioso occidentale di culture non occidentali rinunziare all’impiego di categorie interpretative maturate nella storia culturale dell’occidente: una prospettiva assolutamente non etnocentrica è un assurdo teorico e un’impossibilità pratica, poiché equivarrebbe ad uscire dalla storia per contemplare tutte le culture, compresa la occidentale”. Come sostiene ancora De Martino, l’unica possibilità è dunque data dall’“impiego non dogmatico di categorie interpretative occidentali, il che significa un impiego critico, cioè controllato dalla consapevolezza esplicita della genesi storica occidentale di quelle categorie”.

C’è da dire che De Martino non è un relativista, e che dal suo concetto di ‘etnocentrismo critico’ fa derivare una tensione verso l’universalismo e una critica all’idea di incommensurabilità tra le culture. Secondo George Saunders “alla fine il complesso percorso di De Martino riconduce a un’affermazione di superiorità della civiltà occidentale e della sua produzione culturale”; se anche si può essere meno apodittici, si può dire forse che De Martino condivide la visione progressiva marxiana asserendo che l’Europa è l’unico posto, nel momento storico in cui scrive, in cui si possa efficacemente far fronte alle questioni che gli stanno a cuore. Con altre parole, Cornelius Castoriadis ha sostenuto che solo la cultura occidentale è in grado di mettersi in discussione pensandosi come una fra le tante: “La domanda di Caillé “Lei non è eurocentrico?” è una domanda eurocentrica. È una domanda possibile in Europa, ma non vedo qualcuno a Teheran chiedere all’ayatollah Khomeini se è iranocentrico o islamocentrico”.

A mio avviso, invece, l’etnocentrismo critico potrebbe essere declinato come una forma piuttosto raffinata di relativismo di matrice epistemologica. Ma occorre distinguere preliminarmente tra un etnocentrismo ‘critico’ reinterpretato relativisticamente e un etnocentrismo ‘acritico’. Quest’ultimo, infatti, si nutre dell’idea che, in primo luogo, ‘esista’ qualcosa che si possa definire coerentemente ‘cultura’, senza che ciò istilli il dubbio di star usando un paradigma essenzialista; poi, che la propria cultura sia ‘superiore’, che il proprio punto di vista sia il migliore possibile. Esso si può associare all’universalismo (‘esistono dei principi universalmente validi, cioè validi sempre nel tempo e ovunque nello spazio’). Anzi, si tratta di una forma ancora più radicale di universalismo (“la naturale caricatura dell’universalista”, come dice Todorov in Noi e gli altri), poiché se quest’ultimo afferma l’esistenza di principi universali, l’etnocentrismo acritico afferma che i principi universali sono quelli espressi dalla propria cultura (ma le due posizioni spesso coincidono di fatto): come ha affermato John J. Tilley “la persona etnocentrica [acritica] accetta acriticamente il prevalere del punto di vista della propria cultura e vede le culture che hanno punti di vista diversi come ignoranti o arretrate”. Ma ne esiste anche una versione soft: Giovanni Sartori (Pluralismo, multiculturalismo, estranei), nel distinguere tra tolleranza e pluralismo, afferma che “la tolleranza rispetta valori altrui, mentre il pluralismo afferma un valore proprio. Perché il pluralismo afferma che la diversità e il dissenso sono valori che arricchiscono l’individuo e anche la sua città politica”, ma condiziona il riconoscimento del dissenso e della diversità al concetto di reciprocità. Per inciso: Il Codice civile italiano del 1865 aveva già abbandonato l’idea di reciprocità, riconoscendo l’applicabilità dei diritti in esso sanciti anche agli stranieri, senza vincolo di reciprocità, appunto. Tale concetto è stato reintrodotto soltanto con il Codice civile del 1942, ovvero quello promulgato durante il Ventennio.

Il nucleo centrale dell’etnocentrismo critico è dato invece dalla considerazione che è piuttosto improbabile che si possa uscire da se stessi (o dalla storia, per usare l’espressione di De Martino), e dunque che ci si possa guardare dal di fuori, ma anche che è improbabile che si possa guardare gli altri come se non si stesse guardando con i propri occhi. Ciò, quanto alla prima parte della definizione (la difficoltà di ‘uscire da se stessi’) non implica necessariamente l’affermazione della superiorità del proprio punto di vista: al contrario, mette in guardia da proterve prese di posizione universalistiche, poiché richiede di prendere in considerazione i condizionamenti ‘epistemici’ del proprio sguardo su se stessi e la limitatezza del proprio punto di partenza; quanto alla seconda parte (la difficoltà di ‘guardare gli altri come se non si stesse guardando con i propri occhi’) suggerisce semplicemente all’osservatore di considerare il fatto che se guarda qualcosa con ‘simpatia’ forse è perché essa gli ‘somiglia’, e non perché il proprio punto di vista è universale e quel qualcosa è universalmente degno di ‘simpatia’. Per dirla in altri termini, se ritengo che i diritti umani siano uno strumento efficace di lotta all’oppressione anche per soggetti appartenenti a culture ‘altre’ e non-occidentali, devo sapere che tale considerazione è il frutto del mio coinvolgimento con la mia ‘cultura di appartenenza’ (ma occorrerebbe una lunga digressione: per essere brevi, le culture non esistono, non nella forma essenzializzante con cui vengono continuamente impugnate come clave; quando uso ‘cultura’ è per farmi capire), e che si tratta di una posizione assolutamente priva di protervia intellettuale poiché essa è consapevolmente espressa da un punto di vista parziale. Inoltre, tale posizione è a mio avviso molto più corretta di quanto non sia quella di coloro che ritengono di potersi immedesimare con il punto di vista degli ‘altri’. Anche perché gli ‘altri’ non sono certo meno etnocentrici di ‘noi’, come lascerebbe supporre la critica all’etnocentrismo ‘acritico’: come ha sostenuto Spivak, “c’è qualcosa di eurocentrico nel supporre che l’imperialismo sia iniziato in Europa”. L’affermazione di Spivak si pone in diretta polemica con l’analisi dell’etnocentrismo sviluppata da Derrida in De la grammatologie. Come è noto Spivak è stata la traduttrice e curatrice per l’edizione in lingua inglese del libro di Derrida, ed è già nella sua prefazione che ella pone l’accento sull’‘etnocentrismo al contrario’ che caratterizza il pensiero del filosofo franco-algerino: “La relazione tra logocentrismo ed etnocentrismo è indirettamente invocata nella primissima frase dell’Esergo. Eppure, paradossalmente, e quasi per un etnocentrismo a rovescio, Derrida insiste che il logocentrismo è una caratteristica dell’Occidente. Egli lo fa così di frequente che una citazione sarebbe superflua. […] l’Oriente non è mai seriamente studiato o decostruito, nel testo derridiano”.Per Derrida l’etnocentrismo è sempre ‘etnocentrismo occidentale’, legato com’è alla metafisica logocentrica occidentale. Così facendo, Derrida scivola nello stesso etnocentrismo che egli intendeva attribuire a Lévi-Strauss e Rousseau, poiché invece, come sostiene Sean Meighoo in un saggio icasticamente intitolato Derrida’s Chinese Prejudice, “i linguaggi filosofici dell’Oriente sono pieni di terminologia logocentrica”. […]

Spesso invece, ritenendo di poter criticare il punto di vista occidentale quasi astraendo da esso, alcuni intellettuali occidentali anti-universalisti finiscono per attribuire agli ‘altri’ ogni ‘qualità’ (relativismo, rispetto degli altri, anti-imperialismo), e alla ‘propria’ parte ogni nefandezza.

Vorrei dire qualcosa in più su quest’ultimo tema. In alcuni ambienti intellettuali, e in modo piuttosto esteso, è diventata quasi un luogo comune l’idea che – lo dico in modo piuttosto semplicistico – essere ‘a favore’ dei diritti umani significhi essere a favore dell’imperialismo statunitense. Tuttavia questo habitus intellettuale, che spesso attecchisce sul terreno del pensiero che si vorrebbe ‘critico’, a mio avviso non si avvede che essere a favore dei diritti umani oggi non può non voler dire essere ‘contro’ l’atteggiamento che gli Stati Uniti tengono, in materia di diritti umani, sul proprio territorio e sull’altrui. In altri termini, e per mitigare quella che potrebbe sembrare una triviale affermazione di ‘anti-americanismo’, difendere il linguaggio dei diritti umani come strumenti di resistenza all’oppressione oggi significa difenderli anche ‘contro’ l’atteggiamento egemonico e unipolare degli Stati Uniti. Certo non escludo che i diritti umani possano essere, se usati in modo strumentale, un mezzo di ‘colonizzazione’ da parte delle grandi potenze, ma a quell’uso occorre, come suggerirò tra un momento, sottrarli per rivolgerli anche contro di esse.

Un etnocentrista critico è Gulliver. L’antropologo Marco Aime ha scritto che “Gulliver è un relativista, ma non per questo abbandona i suoi costumi, né li denigra tout court”.

L’etnocentrismo critico presuppone dunque un atteggiamento di umiltà intellettuale e di consapevolezza dei propri limiti: se ti propongo di adottare i diritti umani, di usarli come strumenti di lotta, so bene che lo sto facendo da un punto di vista parziale (di cui conosco i limiti), e ciò mi mette al riparo dal volerli imporre a tutti i costi. E presuppone altresì un atteggiamento ‘dialogico’, perché se conosco la parzialità del mio sguardo, sono pronto ad ascoltare il tuo punto di vista e a far sì che tu possa modificare e arricchire il mio. […].

La proposta di aprire il discorso dei diritti umani alla discussione di coloro che dovrebbero servirsene come strumenti di lotta implica la possibilità che alcune formulazioni dei diritti vengano profondamente riviste: si pensi, per esempio, alla critica al diritto di proprietà inteso come paradigma della concezione liberale e borghese (ed etnocentrica) dei diritti. In questo caso occorre rovesciare l’argomento della fallacia genetica: il fatto che l’idea ‘occidentale’ di autonomia del soggetto sia nata in fortissima connessione con il diritto alla proprietà individuale non implica necessariamente che tale diritto sia indiscutibile e consustanziale ai diritti umani. […].

I diritti umani potrebbero essere ‘transculturati’, dunque, nella misura in cui di essi i subalterni si appropriano per ‘rispedirli al mittente’ (una ‘danza dello specchio’ tra la ‘fonte’ occidentale dei diritti e i loro ‘destinatari’ non-occidentali) o per usarli nei contesti locali (la famiglia, il gruppo, la comunità, lo Stato) in funzione emancipatoria. Il concetto di transculturazione si afferma in polemica con quello di ‘acculturazione’ come accettazione pedissequa e non dialettica di valori, principi e istanze di una cultura da parte di un’altra (con questo implicitamente assumendo, peraltro, un’idea monolitica di ‘cultura’). Come sostiene Fernando Ortiz, al cui Contrappunto cubano del tabacco e dello zucchero si deve la nozione, nella transculturazione “succede quel che succede nella copula genetica degli individui: la creatura ha sempre qualcosa di entrambi i genitori, ma è anche sempre diversa da ognuno dei due”.

I diritti umani, così strombazzati da alcune potenze occidentali, potrebbero essere ‘rispediti al mittente’ per inchiodarlo alle proprie responsabilità. Ma potrebbero anche essere rivolti all’interno, contro gli Stati e le loro timide, formali aperture su temi come la libertà di espressione o di associazione, oppure contro gli Stati in cui è profonda la discrasia tra il pieno riconoscimento formale dei diritti e la loro effettiva conculcazione, o ancora contro quegli Stati che non aderiscono al discorso dei diritti né su un piano formale né su un piano sostanziale. E questa ‘cannibalizzazione’ non promana necessariamente da qualcosa chiamato ‘cultura’, ma dagli individui, dai gruppi, dalle associazioni, dai partiti.

 

 

 

 

 

 

 

 



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