Come osservato da Peppino Ortoleva in un articolo del 2012, «negli ultimi decenni lo sviluppo di nuove tecnologie, la riorganizzazione del tempo della vita e del lavoro e altri fattori culturali meno visibili hanno determinato alcuni significativi cambiamenti storici nella sfera tradizionalmente separata del ludico», e nel suo rapporto con la realtà sociale. Questi cambiamenti sono andati ben oltre la (pur) straordinaria diffusione socio-economica del videogame – divenuto ormai il principale esponente dell’intrattenimento audiovisivo per alcune fasce di pubblico –, ma si sono declinati anche nel progressivo “sconfinamento” del gioco all’interno di contesti solitamente non-ludici. Secondo Ortoleva, tale sconfinamento ha generato «un’ampia area grigia, una zona liminale tra il gioco vero e proprio e la vita reale» in cui le categorie di “ludico” e “serio” si intrecciano e re-inquadrano continuamente a vicenda. In questo contesto, l’attività ludica non appare più correlata (solo) a un preciso “cerchio magico” – quell’universo delimitato e isolato dalla realtà che per Johan Huizinga distingue(va) il gioco tour court – ma sembra radicarsi anche all’interno di spazi “giocosi” più fluidi e aperti, caratterizzati appunto dalla sovrapposizione tra occupazioni “serie” (cioè non-ludiche) e comportamenti semi-ludici. Ed è proprio in questo passaggio dal paradigma del gioco “puro” a quello di una “giocosità” ibrida che Ortoleva ravvisa una delle principali trasformazioni avvenute nel sistema sociale e mediale degli ultimi anni.
Non dobbiamo stupirci, dunque, se l’espansione del gioco(so) nella società contemporanea – fenomeno che è possibile riassumere con il neologismo di gamification o ludicizzazione, sempre più diffuso nei media studies anglosassoni e non solo – abbia parzialmente infiltrato anche i “seri” mezzi di comunicazione tradizionali, contaminandone a vari livelli (e gradi) le pratiche sociali e linguistiche. Parafrasando di nuovo Ortoleva, possiamo dire che la generale ludicizzazione della cultura post-moderna abbia creato degli spazi “giocosi” anche all’interno (o a cavallo) degli “ambienti” che costituiscono gli old media (stampa, cinema, televisione, ecc.). È indubbio ad esempio che anche l’odierno “ambiente-cinema” manifesti diverse zone semi-ludiche, che lambiscono tanto la sua fisionomia linguistico-espressiva quanto la sua dimensione economico-sociale. Pensiamo al riguardoa come l’advergaming o l’alternate reality gaming rappresentino ormai le forme più avanzate della promozione cinematografica, capaci di implementare il messaggio pubblicitario attraverso le dinamiche interattive/immersive del videogioco, e di disseminare così con più incisività del classico trailer (almeno in alcune fasce di pubblico) la “conoscenza di marca” di una pellicola in uscita. Per esempio, l’alternate reality game di The Dark Knight (Christopher Nolan, 2008) spingeva il giocatore a superare una complessa serie di prove per acquisire in anteprima alcune informazioni sul film (come il volto del nuovo Joker), costituendo in tal senso una prima base di futuri (potenziali) spettatori.
Una delle forme più emblematiche della ludicizzazione cinematografica contemporanea è rappresentata dal cosiddetto “film game” – versione riveduta e corretta (almeno nel nome) del “vecchio” film interattivo –,che fonde al suo interno narrazione filmica live action e (una pur relativa) performatività ludica. Storicamente considerato da diversi studiosi come «un ibrido iper-pubblicizzato che non è mai riuscito davvero a concretizzarsi» (le parole sono dello studioso di nuovi media Peter Lunenfeld) il film interattivo sembra aver trovato rinnovata linfa nello scenario post-convergenza, beneficiando proprio della nuova episteme semi-ludica a cui abbiamo accennato sopra.
Possiamo discriminare i film interattivi anni Duemila anzitutto in rapporto al dispositivo o alla piattaforma di distribuzione/fruizione impiegata: a) la “vecchia” sala cinematografica – luogo deputato (inevitabilmente) dei primi esperimenti di interattività filmica, da Kineautomat (Radúz Činčera, 1967) a I’m Your Man (Bob Bejan, 1992) – a cui si rivolge ancora per esempioLast Call (2010), film dove un personaggio “telefona” al cellulare di uno degli spettatore in sala, comportandosi in modo diverso in base alla risposta ricevuta; b) i supporti home video digitali come il DVD, impiegato per esempio da Late Fragment (Daryl Cloran, Anita Doron, Mateo Guez, 2007), che veicola tre storie parallele (ma intrecciate) permettendo allo spettatore di “saltare” liberamente da una all’altra nel corso della visione; c) le piattaforme mobili (come iPhone e iPad), come nel celebre caso di Hysteria Project (BulkyPix, 2009), horror interattivo girato in soggettiva in cui l’utente è chiamato a compiere delle scelte per sopravvivere (e portare avanti il racconto); d) e ovviamente Internet, nella sua incarnazione 2.0. È quasi superfluo sottolineare che è quest’ultima piattaforma ad aver dato vita negli ultimi anni a una piccola new wave di film interattivi, da Survive the House (Allan Mackey, 2009) a The Outbreak (Silktricky Production, 2009), da Bank Run (Silktricky Production, 2010) a Deliver me to Hell (Logan McMillan, 2010), solo per ricordare alcuni titoli.
In seconda battuta, possiamo distinguere i film interattivi a seconda dell’“ampiezza” e della complessità della loro struttura ipertestuale. Questa struttura, infatti, può assumere la fisionomia di un albero a “false disgiunzioni”, in cui il fruitore viene giocoforza ricondotto allo stesso (e unico) percorso narrativo – come accade per esempio in The Outbreak o The House of Mistery (Ab_Normal Directors, 2012), dove la scelta dell’opzione sbagliata (tra due) conduce alla morte del personaggio (e al conseguente reboot del segmento). Oppure, può assumere la fisionomia di un albero a “disgiunzioni reali”, dove le scelte del fruitore incidono realmente sulla scansione testuale, determinando differenti evoluzioni e conclusioni del racconto, seppure sempre già prestabilite – come accade per esempio in Sufferrosa (Dawid Marcinkowski, 2010), che declina molteplici percorsi narrativi e tre finali alternativi.
In terzo luogo, possiamo distinguere i film interattivi a seconda del “gradiente” di “ergodicità” che ne informa la struttura, cioè della quantità (e qualità) delle «prove non trivali» – secondo l’ormai celebre definizione di Espen J. Aarseth – che tali film richiedono al fruitore per essere “attraversati”. I film interattivi possono manifestare, infatti, un’interattività puramente selettiva, accontentandosi di edificare una multi-path narrative che in alcuni punti specifici obbliga lo spettatore a scegliere tra più opzioni narrative – come accade per esempio in The Outbreak, The House of Mistery o Deliver me to Hell. Oppure, possono manifestare un’interattività relativamente partecipativa, domandando (e demandando) allo spettatore un maggiore investimento ludico-performativo – come accade per esempio in Bank Run (2010), dove in alcuni passaggi l’utente deve cavare d’impiccio il protagonista/avatar superando alcune prove di gioco perfettamente integrate nella finzione filmica.
Infine, possiamo ravvisare un ulteriore importante discrimine in rapporto allo statuto socio-produttivo dei film interattivi. Abbandonata in larga parte l’ambizione a presentarsi come un sostituto (o un “succedaneo”) del tradizionale film di fiction, infatti, il film interattivo contemporaneo è divenuto un catalizzatore di istanze e attività sociali differenti: a) marketing virale, come nel caso di Deliver me to Hell o The House of Mistery, film correlati rispettivamente alle campagne promozionali di Hell Pizza e Vigorsol; b) progetti “artistici”, come nel caso di Sufferosa o di Collapsus (Tommy Palotta, 2012), dove la complessità ipertestuale si lega a un marcato sincretismo espressivo (Collapsus mescola per esempio riprese dal vivo, grafica digitale e Rotoshop); c) produzioni indipendenti o di serie B, come nel caso di Unfocused Clarity (Darrell Winfrey, 2009) o Survive the House, rispettivamente un thriller psicologico e un survival horror finanziati da piccolissimi studios (Trade Wind Multimedia nel primo caso; Valley Wind Productions nel secondo); d) pratiche grassroots, come nel caso di Mass Effect: Assignment (Sneaky Zebra, 2012), trasposizione fan fiction autofinanziata del videogioco Mass Effect (BioWare, 2007); e) pubblicità sociale, come nel caso di Trapped (Rowland Jobson, 2008) o Choose a Different Ending (Simon Ellis, 2009), film collegati rispettivamente alla campagna contro la povertà di Shelter (importante charity foundation britannica) e a quella contro la micro-criminalità della Metropolitan Police londinese.
È evidenteinoltre che il differente obiettivo dei prodotti incida sulla loro struttura e conformazione ipertestuale. Per esempio, Trapped declina una struttura narrativa chiusa e “circolare” (in cui non esiste un’alternativa “giusta”, ma tutte portano allo stesso scacco finale), finalizzata proprio a tematizzare l’impossibilità dei personaggi di uscire dalla situazione di disagio sociale in cui si dibattono – un meccanismo non molto dissimile a quello impiegato dal celebre serious gameeducativo del 2006 Darfur is Dying (ideato per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione del Darfur). Al netto delle differenze nella loro struttura ipertestuale, comunque, i film interattivi anni Duemila manifestano una fisionomia discorsiva equivalente a quella di generi semi-ludici come appunto i serious games o gli advergames, con cui non a caso condividono la gratuità del consumo e la (doppia) finalità sociale, al contempo intrattenitiva e perlocutoria. È bene sottolineare, infine, che i film interattivinon rinunciano a (ri)attestare socialmente la loro filmicità: il loro obiettivo non è quello di proporsi come dei “videogiochi filmici” (sulla scorta degli interactive movies, storico sotto-genere di video game), ma come dei film ludici (e come tali sono infatti presentati e veicolati). Dei film “giocosi”, insomma, ma pur sempre dei (piccoli) film.