Analisi di una banalità. Matite, arte e libertà di conoscenza.

 

 

 

 

In questi giorni sono prepotentemente tornati alla ribalta un concetto e un oggetto: la libertà e la matita. La prima pertiene al mondo delle idee, intangibili, indefinibili, immense e al tempo stesso inconsistenti. La seconda appartiene agli umili strumenti della quotidianità. Un simbolo, chiaro e semplice del fare umano, del creare e definire, del limitare un’idea astratta, del fermare e confermare una linea che rivela un concetto presente nel nostro intimo, dell’affermare in maniera visibile l’attività cogitativa umana.

Esattamente la settimana scorsa mi trovavo, all’interno di una lunga e interminabile coda per entrare in un museo. Davanti a me due famigliole padovane per la prima volta nella città sabauda. Il discorso inerente la cultura è stato poggiato sui primi minuti di banalità proferite da entrambe le parti: “Io, signora, faccio l’autotrasportatore. Ho portato qui mia figlia perché mi dicono che questo museo è importante, spettacolare. La Galleria Sabauda non l’ho mai sentita, ma se mi dice che ci sono tanti quadri e in uno vedi l’azzurrino, l’altro il tocco dorato, tante Madonne e da camminare troppo, mi stufo subito. Perché dovrebbe interessarmi sapere che qui Raffaello ha fatto la pennellata di traverso e di là il colore di – come si chiama quello lì – sì Tiziano?”.

Una banalità anche questa, ma vale la pena analizzare nel dettaglio questo pensiero, per capire come la confusa libertà e la chiara matita subiscano ogni giorno un’inversione di significati.

La dichiarazione iniziale, spesso utilizzata nel linguaggio comune su quello che è il proprio mestiere spesso ha un valore di giustificazione e delimitazione del proprio campo d’attività e competenze. Si preannuncia che ciò che si sta per dire non si conosce, ma ci si sente liberi di affermare la propria opinione. Non sono un esperto, ma il mio modesto punto di vista è che… In nome della libertà di parola io desidero esercitare il mio diritto di asserzione.

Frasi logore e abusate, banalità che riportano alla mente Ludwig Wittgenstein e la proposizione 7 del Tractatus logico-philosophicus. Certo, sarebbe bello tacere, sarebbe bello avere silenzio proprio in base a quella libertà che tutti desiderano, eppure, in nome della stessa libertà, della sacrosanta libertà di parola, tocca ascoltare, affinché,noi tutti si possa parlare. Pertanto dopo la nostra dichiarazione d’ignoranza, il ma è sempre la congiunzione ideale per proseguire e avere la licenza, esercitare il proprio diritto alla libertà. A costo di dire parole poco sensate, a costo di turbare la sensibilità altrui, a costo di proferire banalità che poggiano su cliché. Libertà è fatta anche di questo.

A riprova di quanto la comunicazione sia importante, l’assunto ‘mi dicono che questo museo è importante e spettacolare’ informa sulla circolazione delle idee relative al patrimonio culturale italiano. Perché andare alla sconosciuta Galleria Sabauda se è arcinoto che a Torino esiste il Museo Egizio? Ergo, il Museo Egizio è il più importante e spettacolare. I significati sono molteplici. Perché quest’attesa, la stessa coda che mi obbliga a permanere qui e perdere il mio tempo, è giustificata, è validata dal fatto che molti mi hanno informato che tale museo è da visitare.

Non voglio essere inferiore ai molti, ho libero arbitrio e decido di impiegare il mio tempo, il bene più prezioso, per appartenere anch’io a quei molti che l’hanno visitato. Una libertà innegabile anch’essa. Una libertà, la sua, che sembra essere insidiata dalla mia. “Ma perché Signora, lei che sta a Torino e che potrebbe venire quando vuole è venuta qui l’ultima domenica delle festività natalizie?”. Mi devo giustificare. La sua libertà di parola e il suo diritto di visita turistica, mi obbliga a giustificare la mia presenza nella coda, informandolo sui miei ospiti, turisti come lui, a cui facevo la cortesia di acquistare i biglietti, perché anch’essi desideravano visitare il solito museo. Libertà in cambio di libertà. Libertà limita libertà.

La terza considerazione che è legata ai cliché sulla storia e la critica d’arte.

Traspare infatti dalla sua idea di storia dell’arte, quella figura con naso all’insù e papillon, che moralisticamente giudica e soppesa il sapere altrui permettendosi di dare titoli d’ignoranza al suo prossimo, che usa volutamente termini ricercati per ferire l’orgoglio di chi non conosce e si emoziona per un dettaglio quasi invisibile. Colui che parla d’idee e trasferisce genialità a quella stessa azione che il proprio fornaio o il meccanico eseguono per pochi spiccioli, senz’ambire,peraltro, alla virtuosistica divinità d’artista, alla genialità creativa. E’ la banalità satirica del film “Tre uomini e una gamba”, quando uno dei protagonisti osservando l’oggetto prezioso che debbono consegnare al legittimo proprietario – un’opera d’arte che rappresenta una gamba intagliata nel legno – asserisce: “Il mio falegname con trentamila lire la faceva pure meglio”.

Un mea culpa, dovrebbe qui esser d’obbligo da parte di tutti coloro che fanno cultura e nello specifico trattano le idee dell’arte, per aver generato e alimentato il cliché della nicchia, per aver alzato il muro dell’incomprensione tra chi fa arte – e la critica – e chi non la fa, ma vorrebbe conoscerla. E il termine ‘critico’ «rinvia a una condizione di malessere che è forse quello di cui oggi soffre l’arte. Proveniente dal greco krinein, la parola avrebbe un’origine medica e si riferirebbe a quel momento – krisis – dell’evoluzione della malattia giudicata pericoloso, difficile, decisivo» (CLAIR J. (2005) L’inganno del critico in “Repubblica.it”, 05 febbraio). Un termine e una professione che assumono urgenza e grande rilevanza se pensiamo alla crisi culturale in atto. Assolutamente lontana dai sofismi e dalle discussioni di note a fondo pagina, laddove il possesso del sapere è divenuto una libertà per pochi. La fame di conoscenza, la sete delle storie da conoscere non si è assopita, è latente e chiede d’esser soddisfatta.

E allora l’elemento oggettivo, ancora non preso in considerazione in merito a quella domenica d’attesa al museo è proprio il più evidente, il più importante e banale: la coda.

Centinaia di persone che attendono pazientemente d’entrare in un museo. Decine di famiglie e piccoli gruppi che sostano in una lunga attesa per poter saggiare quali meraviglie racchiuda questo scrigno. Le numerose matite che sfilano per le vie di Parigi, nella richiesta di libertà, la stessa libertà che l’arte ha saputo rivendicare grazie alla sua immediatezza. Il segno grafico che porta a tutti un messaggio chiaro e di rapida assimiliazione.

Ed è proprio il termine francese banal «appartenente al signore», poi reso in «comune a tutto il villaggio», a interpretare uno dei significati del termine banalità, ossia concesso in uso al popolo, alla comunità (vedi voce “banale” su Treccani on line).Sarebbe bene ricordare a chi fa arte e cultura quanto tale missione non poggi su nicchie e circuiti esclusivi. La matita, come una freccia ha una punta direzionata sulla carta, verso un segno che non sceglie chi colpire, ma raggiunge liberamente ogni persona. Converrà adottare più banalizzazioni alla cultura se vogliamo davvero essere liberi. Perché come afferma Leonardo Sciascia: «Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l’intelligenza, l’intelligenza che è anche “leggerezza”, che sa essere “leggera”, può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità».

 

 

 


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