Se l’università diventasse un ascensore

 

Un articolo recentemente apparso su il manifesto descrive la genesi del “pensiero unico”, che negli ultimi anni avrebbe distrutto la scuola e l’università italiana (Anna Angelucci, Maurizio Matteuzzi, “Così il «pensiero unico» (destra-sinistra) ha distrutto scuola e università”, 3.11.2014). Secondo gli autori, le molteplici riforme, approvate dai governi di centrodestra e di centrosinistra nel corso degli ultimi vent’anni, avrebbero realizzato il modello della scuola-azienda. Destra e sinistra sarebbero infatti coalizzate – più o meno coscientemente – nel tentativo di smantellare le istituzioni pubbliche della scuola e dell’università in favore di servizi sempre più privatizzati e di docenti e ricercatori più precari.

Il passaggio più interessante nell’articolo è però la rappresentazione per slogan delle due ideologie, di destra e di sinistra, in rapporto al ruolo dell’università italiana. Gli autori sostengono che, per l’ideologia di destra, l’università sia una “roba da ricchi”: il ceto risulta perciò il principale fattore di selezione e, se qualche giovane capace e meritevole ma sfortunatamente privo di mezzi riuscirà a sfuggire alla legge della casta, allora lo si potrà presentare come un buon self made man, e tanto meglio per lui.

L’ideologia della sinistra è invece “l’università come ascensore sociale”. Questa, purtroppo, è una vecchia storia fatta di miti e contro-miti, spesso confusi, altre volte infondati. L’idea di ascensore sociale troverebbe negli articoli della nostra Costituzione la sua giustificazione e spiegazione: compito dello Stato è rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Una società progressista e democratica dà ai suoi giovani le stesse possibilità di realizzazione.

Pensare però all’università come luogo di promozione sociale, significa immaginare anche una società in cui i meriti siano chiaramente attribuiti e tutti i suoi cittadini comincino il loro percorso dalla stessa linea di partenza. Ma sappiamo bene che si tratta una finzione teorica. Per restare alla metafora dell’ascensore, occorre allora chiedersi: chi sale, chi scende? E, soprattutto, che cosa ci va a fare lì in “alto”?

In Italia infatti c’è uno spazio d’azione ancora tutto da definire tra la convinzione che l’università sia una “roba da ricchi” e l’utopia dell’università di massa. L’università è infatti naturalmente elitaria: se fosse una tappa obbligata nel percorso d’istruzione diventerebbe una sorta di scuola dell’obbligo avanzata. Altrettanto lapalissianamente, l’università senza discriminazioni, è un’università di casta, in cui la rimozione di ostacoli negativi non assicura l’attuazione positiva del diritto allo studio. Avere la possibilità di studiare non significa che a ognuno siano assicurati i mezzi per poterlo fare.

È quindi facile vagheggiare un’università che elevi molti giovani senza possibilità economiche all’interno di quelle istituzioni che poi dovrebbero creare la nuova classe dirigente. E similmente si può immaginare il flusso inverso: il declassamento di quei tanti studenti ricchi di mezzi che nelle università ci si ritrovano più per tradizione familiare che per interesse o necessità. In maniera più realistica, questo ascensore funzionerà soltanto verso l’alto. Chi già è favorito per nascita riuscirà a conservare la posizione, mentre i nuovi arrivati andranno a ingrossare le fila dei pur sempre pochi laureati italiani.

Nel 2011, i giovani tra 25 e 34 anni in possesso di un titolo di studio universitario o equivalente in Italia erano soltanto il 21%, mentre in Germania il 28% e in Francia il 43%, e la media OCSE era al 38% (OECD 2014, Population with tertiary education: indicator). Dati da tenere bene a mente ogni volta che si sente il ritornello: ci sono troppi laureati in Italia. Non è vero e, anzi, ce ne sono troppo pochi. Il problema semmai è che non vengono formati bene e, dall’altro lato, che il mercato del lavoro non sa come utilizzarli. Uno dei risultati di questo skills mismatch, il mancato incontro tra le competenze dei laureati e le esigenze dei datori di lavoro, è appunto la falsa idea per cui in Italia ci sono troppi laureati.

Ed ecco il secondo punto: andare all’università, ma per fare che cosa? L’altra convinzione, sorella dell’idea di università come ascensore, è che esista una “ideologia delle competenze” che implica la “rinuncia a una cultura complessa, profonda e disinteressata”. Le competenze sono l’insieme di attività che ogni persona è in grado di svolgere in un dato settore: le quattro principali sono le competenze di lettura e comprensione, matematiche, scientifiche e, infine, le competenze nel risolvere i problemi. In Italia si sta faticosamente tentando di adottare una seria politica di sviluppo delle competenze in ambito universitario. Al momento però rimane per lo più un vano tentativo, annacquato sovente dall’oscuro linguaggio burocratico in cui i piani formativi sono scritti.

Tuttavia, riuscire a tradurre in pratica lo sviluppo delle competenze individuali è il modo migliore per mettere in comunicazione i giovani laureati con il mondo del lavoro e, non ultimo, con il mondo della formazione internazionale. Non conta solo quante nozioni hai imparato, ma come le sai usare e se sei cosciente di poterlo fare. Molto spesso ai giovani laureati viene rimproverato di avere una formazione prettamente teorica: ovvero di non sapere che farsene delle cose che hanno imparato. Abbandonare l’idea romantica che all’opposto della cultura “complessa, profonda e disinteressata” non ci sia l’arida barbarie tecnocratica, ma nuovi strumenti di conoscenza per rendere i giovani più consapevoli delle loro capacità, sarebbe già un primo rilevante passo.

A conferma di questo fatto, nelle regioni italiane dove i test di valutazione delle competenze scolastico-personali danno risultati peggiori sono anche le regioni dove ci sono le maggiori diseguaglianze socio-economiche. Un risultato che contraddice la convinzione per cui quando la povertà è maggiore l’uguaglianza cresce, e dove invece la ricchezza è più accentuata allora le diseguaglianze sono più profonde (M. Braga, A. Filippin, “Le disuguaglianze nelle competenze scolastiche”, in Daniele Checchi 2012).

L’idea che l’università attuale possa essere un “ascensore sociale” è allora solo il miraggio di un luogo di promozione sociale. L’università è necessariamente un’istituzione selettiva, pena la sua irrilevanza. Modelli di apertura totale delle università non mancano e, ad esempio, l’esperienza francese avrebbe molto da insegnare: alla creazione delle università di massa è corrisposto il crollo del loro livello di formazione e il rafforzamento delle grandes écoles, divenute in molti settori le “vere” università, a cui i migliori studenti (cioè: i più ricchi) aspirano ad accedere (cfr. “L’Ecole polytechnique, ce concentré d’inégalités”, Le Monde, 25.11.2014).

Certamente l’obiettivo per una società più equa dovrà essere creare un’università che sia un “incrocio sociale”, dove le traiettorie dei giovani prenderanno differenti direzioni in base al loro merito personale piuttosto che alle disponibilità economiche. Questo cambiamento però non avrà alcun senso se si limiterà a favorire l’accesso all’università di chi è più svantaggiato ma non darà un valore reale a questi studi. Una laurea che sia soltanto un bel pezzo di carta non cambierà le cose e manterrà le diseguaglianze immutate. Per dirla con una canzone, “innalzò il povero a un ruolo difficile da mantenere e poi lo lasciò cadere”.

 

 

 

 

 



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