Una sfida realistica per la Sinistra

La tesi dell’ultimo libro di Chantal Mouffe (Agonistics, in corso di pubblicazione presso Mimesis) è che la democrazia debba prevedere il conflitto agonistico tra forze politiche opposte. Solo questo conflitto agonistico permette di oltrepassare la fase del puro antagonismo e della guerra sociale. Il presupposto del passaggio dall’antagonismo all’agonismo è la condivisione di una certa cornice comune, una cornice di tipo valoriale e istituzionale, entro la quale tutti gli attori politici accettano di muoversi. Di qui l’idea di un “consenso conflittuale” che starebbe alla base della vita democratica.

È necessario che ci sia consenso sulle istituzioni che sono costitutive della democrazia liberale e sui valori etico-politici che dovrebbero improntare l’associazione politica. Ma ci sarà sempre disaccordo sul significato di quei valori e sul modo in cui andrebbero attuati. Il consenso, perciò, sarà sempre un consenso conflittuale.

Dunque, sostiene Mouffe, affinché la democrazia sia davvero tale, occorrono principi comuni e condivisi ma interpretazioni conflittuali del loro significato e della loro effettiva portata. Classicamente, queste interpretazioni conflittuali hanno dato vita alla contrapposizione tra Destra e Sinistra. Ma qui si nasconde il problema: esiste ancora un’interpretazione di Sinistra dei valori e delle istituzioni delle odierne democrazie liberali? È ancora possibile una politica di Sinistra in Europa? È possibile altrove? Mouffe ritiene che si possa rispondere di sì a tutti e tre gli interrogativi. A me sembra invece che si debba rispondere di no quantomeno al secondo, per le ragioni che spiegherò subito e che proprio Mouffe, in realtà, ci aiuta a comprendere.
Discuterò brevemente il caso di Syriza, per molti versi esemplare. Alle politiche di austerità promosse dai governi nazionali così come dalle autorità europee (Unione Europea, Banca Centrale, Eurogruppo) e, almeno fino a una certa data, da alcuni organismi internazionali (FMI in testa), Tsipras avrebbe opposto un no secco, stando a quanto racconta la stessa Mouffe, spianando così la strada a una possibile politica alternativa, di Sinistra, su scala europea. È quanto pensano in tanti – anche se non in tantissimi, visti i deludenti risultati della lista Tsipras alle elezioni europee tenutesi dopo la pubblicazione di questo libro in inglese. In effetti, basandosi sulla teoria della democrazia agonistica di Mouffe, potremmo sostenere che l’Europa dispone di Trattati e di una Carta dei diritti fondamentali che fungono da cornice generale, a un tempo valoriale e istituzionale, della politica europea. Entro questa cornice, potremmo continuare, possono darsi interpretazioni diverse, se non opposte, degli stessi principi fondatori (Trattati e Carta). Dunque, un’interpretazione di Destra e una di Sinistra. Finora, potremmo concludere, avrebbe prevalso un’interpretazione di Destra, ma niente impedisce che domani la situazione si ribalti e una politica economica espansiva, di Sinistra, possa finalmente imporsi. Di qui l’appoggio di Mouffe a Syriza e Tsipras, di cui reca testimonianza questo libro.
Guardiamo però alla situazione storica concreta che stiamo vivendo. Come Mouffe ci ricorda, sempre in questo saggio, l’Europa è una comunità di popoli, ciascuno dotato di un suo Stato, di una Costituzione, e di piena sovranità. Così almeno fino a quel momento di forte accelerazione del processo di integrazione europea simboleggiato dall’euro. Da quel momento in avanti, gli Stati europei, e i relativi popoli, hanno perso in parte la loro autonomia finanziaria, dovendo rispettare vincoli di bilancio e di comportamento imposti dall’alto: da più in alto della summa potestas dello Stato nazionale, da più in alto di quella sovranità statale che ciascun popolo può democraticamente legittimare. Questo, com’è noto, senza che nel frattempo si approntassero a livello europeo meccanismi democratici, e istituzioni democratiche, in grado di compensare il deficit di democrazia patito dagli Stati membri sul piano nazionale. È possibile, sullo sfondo di una simile congiuntura storica e politica, offrire un’interpretazione democratica e di Sinistra delle istituzioni europee? È possibile se queste istituzioni sono non-democratiche? Per fare un esempio concreto: il Parlamento europeo è eletto da 28 paesi (tutti i paesi membri della UE), mentre l’Eurogruppo è composto di soli 18 paesi (quelli che hanno adottato l’euro). Non esiste dunque un’assemblea democratica e rappresentativa dei 18 paesi dell’Eurogruppo che possa dire la sua sulla gestione della moneta unica e sulle politiche economiche che vi stanno dietro. Rimaniamo così intrappolati in una gabbia che strozza la partecipazione democratica. Gli appelli di Tsipras a un cambio di passo in materia di politica economica sembrano del tutto insufficienti a parare il colpo. Qui non siamo infatti in presenza di istituzioni democratiche che possano fare da cornice a una lotta democratica e a un consenso conflittuale nel senso di Mouffe. Ci ritroviamo piuttosto al cospetto di istituzioni che, come constatiamo giorno dopo giorno, tendono a spegnere il conflitto democratico e a prosciugarlo in un consenso non-democratico prestato a istituzioni di natura altrettanto non democratica. La domanda, da questo punto di vista, diventa: si può pensare a una politica di Sinistra in queste condizioni? E a che tipo di politica eventualmente? Mi pare che sia questo uno degli interrogativi che il libro di Mouffe ci aiuta a formulare.
Sullo sfondo di questo interrogativo, si capisce anche il confronto serrato che Mouffe ingaggia con Negri. Ai teorici dell’esodo, della moltitudine e del “ritiro dalle istituzioni”, Mouffe oppone il suo “impegno con le istituzioni” e nelle istituzioni. Tutto sta a capire, però, cosa significa impegno. Nella situazione che stiamo vivendo oggi in Europa, governata da istituzioni non democratiche, l’appello di Negri in effetti non suona completamente assurdo. Una politica di Sinistra, nel contesto delle istituzioni europee, può aver luogo solo fuori da queste istituzioni, o addirittura contro di esse, per le ragioni or ora accennate. Eppure l’evento della moltitudine, come sottolinea ragionevolmente Mouffe, da solo non basta. Occorre che il potere destituente di cui Negri vuole farsi portavoce si trasformi poi in un potere costituente, capace di disegnare un percorso di costruzione istituzionale alternativa allo stato di cose attuale. Non esistono scorciatoie palingenetiche.
In questo confronto tra Mouffe e Negri pare riproporsi la contrapposizione tra rivoluzione e riforma, tra massimalismo e minimalismo, che ha segnato le vicende della Sinistra europea per oltre un secolo. Negri auspica un sovvertimento totale delle istituzioni, o dell’Impero. La moltitudine è per lui come il guanto rovesciato dell’Impero. E fortuna vuole che questo guanto tenda a rovesciarsi da solo. Mouffe rimprovera a Negri un massimalismo che lascia il tempo che trova, nel senso che lascia al tempo storico il compito di sciogliere i nodi politici. Per rovesciare un guanto, bisogna sempre infilarci la mano dentro. È questo che Mouffe chiama impegno con le istituzioni. Tuttavia, per quanto persuasiva appaia questa osservazione, si potrebbe tranquillamente rimproverare a Mouffe di sottovalutare qualcosa che Negri dal canto suo non trascura: la politicità e parzialità non democratica delle istituzioni con cui abbiamo a che fare – quantomeno oggi, quantomeno a livello europeo. Dentro queste istituzioni non c’è spazio per la democrazia agonistica e il consenso conflittuale di cui parla Mouffe. L’errore di Tsipras, perlomeno sin qui, è stato proprio quello di non averlo capito e denunciato con la dovuta chiarezza. La sua proposta politica alla fine è parsa sostanzialmente indecisa e inconcludente a una fetta importante dell’elettorato europeo (italiano) di Sinistra. E non a torto.
Ma cosa significa questo? Che oramai si può fare politica soltanto fuori dalle istituzioni, se si vuole praticare ancora una politica di Sinistra (che sia tale non solo a parole)? Anche in questo caso non si può rispondere in astratto e in generale. Tutto dipende dal contesto, che a volte rende sfumata e politicamente ambigua la distinzione tra il fuori e il dentro (le istituzioni). Torniamo al caso europeo e per chiarire il punto prendiamo la risposta della Destra alla crisi dell’eurozona. La ricetta della Destra è, com’è noto, il ritorno allo Stato e alla piena sovranità nazionale. In questa prospettiva, collocarsi fuori dalle istituzioni europee significa tornare a collocarsi dentro le istituzioni statali tradizionali. Il nazionalismo euro-scettico, quello che viene maliziosamente stigmatizzato come “populismo” anti-istituzionale dai politici che si sono più compromessi con il progetto della moneta unica, non corrisponde dunque al rifiuto in toto delle istituzioni, a un “ritiro dalle istituzioni” nel lessico di Mouffe. È un ritiro da certe istituzioni che viene a coincidere con il ripiegamento su altre istituzioni. È un ritiro da nuove istituzioni che viene identificato col ripiegamento su vecchie istituzioni. Si tratta, in tal senso, di una posizione che si dovrebbe definire letteralmente reazionaria (più che “populista”). Con l’aggiunta che, stante la non democraticità delle istituzioni europee, un simile atteggiamento reazionario finisce per assumere oggi le vesti di una difesa a oltranza della democrazia, che solo nella cornice istituzionale degli Stati nazionali continua a trovare per ora un’autentica espressione. Un paradosso, questo, che rende ovviamente ancora più difficile la vita a una Sinistra che voglia sganciarsi dalla retorica, sempre più onirica, del “sogno europeo”.
Questa Sinistra ancora non c’è. Syriza non l’ha saputa incarnare, collocandosi troppo dentro l’attuale cornice europea, finendo per accettarne tacitamente le premesse non-democratiche così come la logica politico-economico di impostazione libero-scambista (in tedesco: ordo-liberista) che resta incisa a caratteri cubitali nel Trattato di Maastricht (ricordo che Syriza non ha mai messo in discussione né l’euro, né il mercato unico, né altri aspetti sostanziali dei Trattati). Dentro questa cornice, tuttavia, c’è ben poco da fare: l’idea stessa di elaborare un’interpretazione di Sinistra dei principi e delle istituzioni che oggi come oggi puntellano la costruzione europea è destinata ad auto-confutarsi non appena la si voglia mettere in pratica. Ed è proprio questa, d’altronde, la fonte del grave disorientamento di cui soffre da anni l’intera Sinistra europea. Da Sinistra, questa è la lezione cui non si potrà restare sordi per lungo tempo, le istituzioni europee non possono essere gestite e riformate. Possono solo essere ripensate e rifondate, da cima a fondo, offrendo una concreta alternativa all’accartocciamento nazionalista delle Destre reazionarie.
È un progetto realistico? Nella fase che stiamo attraversando – e che potremmo definire una fase costituente, in cui molto resta da decidere sul profilo a venire delle istituzioni europee – non solo sembra realistico ma assolutamente necessario. In primo luogo, perché il progetto delle Destre reazionarie è, di per sé, assai meno realistico di quanto possa sembrare a prima vista. Non basta sicuramente la fine della moneta unica per riguadagnare la piena sovranità nazionale. I legami che stringono assieme, e di riflesso limitano, la libertà di movimento dei paesi membri della UE non sono solo economici, e tra quelli economici la moneta unica non è nemmeno il più rilevante (il mercato unico, con tutte le sue regole, lo è assai di più). Inutile dunque promettere qualcosa che non si può promettere: un ritorno pacifico allo status quo ante. Per riaffermare la piena sovranità degli Stati-Nazione in Europa ci vorrebbe una lunga serie di strappi violenti. Con un elettorato che chiede più di ogni altra cosa pace, benessere e tranquillità d’animo, dopo tanti anni di insicurezza economica e incertezza politica, questo è palesemente irrealistico.
Ma veniamo al cosiddetto realismo della Sinistra. Duole constatare che il realismo, in questo caso, assomiglia molto a pigrizia, pusillaminità e inettitudine. Realismo, per i politici europei di Sinistra, è diventato ormai un sinonimo di attesa, che a sua volta ricorda il tirare a campare della peggiore politica. Non potrà durare a lungo, in ogni caso, giacché i tempi incalzano e si avvicina il momento delle decisioni. L’Europa va rifondata. E la Sinistra rimane comunque la sola sponda politica da cui può venire l’impulso a una rifondazione. Delle Destre reazionarie già si è detto. Quanto alla Destra istituzionale (è proprio il caso di chiamarla così), la Destra tecnocratica e neoliberale che ha gestito sin qui il processo di integrazione, il suo fallimento, noto da tempo agli osservatori più attenti e addirittura pronosticato da alcuni di loro, sarà presto un’evidenza inconfutabile. Nemmeno la capillare, indecorosa manipolazione dei mezzi di informazione che ha inficiato il dibattito pubblico negli ultimi anni potrà più nasconderlo. Nemmeno le pressioni della grande finanza potranno più distogliere lo sguardo dal disastro e dall’insostenibilità politica, economica, sociale degli assetti odierni.
Cosa dobbiamo aspettarci, allora, dalla Sinistra? Premesso che dalla Sinistra attuale, dal suo personale politico, non possiamo aspettarci granché, da una Sinistra nuova, quella che con ogni probabilità vedrà la luce nei prossimi anni, c’è da aspettarsi di tutto, nel bene e nel male. L’elettorato, verosimilmente, le chiederà tutto. E tutto qui significa un‘invenzione politica che rimetta in moto il processo di integrazione su basi diverse da quelle pattuite a Maastricht e possa promettere un’Europa diversa da un supermercato: un’Europa in cui la democrazia sia posta al centro, e non ai margini, del processo di accentramento istituzionale, nel rispetto della congiuntura attuale che non consente di pensare ancora a un super-Stato europeo (i cosiddetti Stati Uniti di Europa). Non è questa la sede per analizzare i possibili contenuti di questa invenzione democratica. Ho provato a immaginarli altrove, (Davide Tarizzo, Dopo l’euro. L’Europa dell’ospitalità, in “Iride”, n. 3, 2013, pp. 597-616) e senza dubbio se ne potrebbero immaginare altri ancora. L’importante, però, è che si provi a immaginarli. Se non lo faremo, lasceremo di fatto alla storia il compito di tirarci fuori dai guai. E in quel caso, come la storia ci ha più volte dimostrato, le cose tendono ad andare per il verso sbagliato: quello, per intenderci, che fa soffrire di più chi sta già soffrendo e segna la disfatta di un’autentica politica democratica.
Per tornare a Mouffe, e per concludere, credo che l’esempio della crisi europea ci porti dritti al cuore della sua proposta teorica, ricca di spunti ma anche di problemi da cui prender le mosse per avviare una nuova riflessione. Il problema cruciale è quello del “consenso conflittuale”, nozione chiave e tra le più originali del libro (che fa il verso all’overlapping consensus di Rawls, rovesciandone la prospettiva). Su cosa ci deve essere consenso affinché si possa attivare la dinamica agonistica e conflittuale della democrazia? Potremmo pure riformulare la domanda così: la cornice valoriale e istituzionale entro la quale si produce un consenso conflittuale nel senso di Mouffe è qualcosa che può essere messo in questione dal conflitto democratico o è qualcosa che deve rimanere intatto? La bilancia deve pendere più dal lato del consenso o del conflitto? Mi è capitato qualche anno fa di porre la stessa domanda a Laclau, nella seguente forma: una politica democratica radicale deve, o almeno può, revocare in questione i “confini” (simbolici e istituzionali) entro i quali si muove? La sua risposta – ma devo dire che mi parve allora una risposta data più per istinto che sulla base di un solido convincimento teorico – fu un sì senza esitazioni. La risposta di Mouffe, malgrado le apparenze, mi pare andare ora nella stessa direzione, con un affondo teorico supplementare. Che cos’è la democrazia? Quand’è che possiamo dire di vivere in democrazia? Se scartiamo, come Mouffe ci invita a fare, l’approccio etico, razionalistico o normativo alla democrazia, che ne rinviene la ragion d’essere in qualche principio ultimo e universale di moralità o razionalità, in sé privo di politicità, la decisione su che cos’è la democrazia non può che essere eminentemente politica, e congiunturale. Senza dimenticare – questo è un ulteriore, fondamentale insegnamento di questo libro – che tale decisione non può eludere il momento propositivo, costruttivo: la democrazia è un’istituzione; lottare per la democrazia significa lottare per istituzioni democratiche; e, là dove non esistano ancora istituzioni democratiche, come in Europa, significa inventare istituzioni democratiche, decidendosi per un conflitto aperto, e puramente politico, con le istituzioni esistenti e il finto consenso democratico imposto dal “Non ci sono alternative”.
In quest’ottica, sbattiamo contro un limite teorico – la decisione su che cos’è la democrazia – che può essere scavalcato solo sul piano politico, con un gesto di rottura, e senza garanzie preliminari di successo. Non è un invito alla violenza, questo, né un inno alla distruzione e alla cieca ribellione. In realtà – lo ripeto: in realtà – solo la fantasia, l’elaborazione di alternative inedite, l’invenzione di nuove opzioni politiche potrà consentirci di rompere con il presente, salvandoci dalla violenza che scaturisce sempre, prima o poi, dal “Non ci sono alternative”. E in realtà – di nuovo: in realtà – gli elettori di tutta Europa (Germania inclusa) non aspettano altro, chi per una ragione (diffidenza) chi per un’altra (troppi sacrifici). Aspettano appunto che qualcuno indichi loro un’uscita dal guado in cui si trovano che non distrugga nulla ma che al contrario costruisca. La futura probabile fine della moneta unica, imposta dalla volontà dei popoli europei (non dei governi) che si sentono ancora troppo estranei gli uni agli altri per condividere una cassa (non una casa) comune, avrà bisogno di essere accompagnata da un progetto politico alternativo per l’Europa se si vorrà proseguire sulla strada dell’integrazione ed evitare di consegnarsi mani e piedi alle Destre reazionarie. Da questo punto di vista, la Grande Politica oggi, in Europa, non è un lusso. È una necessità, di cui occorre prendere atto con realismo. I popoli europei, c’è da scommetterci, premieranno chi oserà essere realista nei prossimi anni senza badare troppo ai belati della stampa e ai ruggiti della finanza. L’obiezione che ciò non si può fare, che è irrealistico, poiché gli elettori non credono più da tempo nei propri rappresentanti politici, non va respinta. Va accolta, invece, ma va anche capita fino in fondo. Gli elettori non credono più nei politici, non c’è dubbio, ma solo perché i politici, per primi, hanno smesso di credere negli elettori, hanno smesso di credere nell’effettiva sovranità dei popoli, hanno smesso di credere nei principi e nelle istituzioni della democrazia. Quando ricominceranno a crederci, noi tutti torneremo a credere in loro. Quando sentiremo da loro parole chiare su come democratizzare le istituzioni europee e riscrivere i Trattati, potranno riscuotere di nuovo la nostra fiducia. Fino ad allora saranno spazzati via, uno in fila all’altro.


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