Proponiamo un estratto dell’Introduzione al volume L’innesto. Realtà e finzioni da Matrix a 1Q84, Mimesis, in corso di pubblicazione.
Di Valentina Re e Alessandro Cinquegrani
I. Vero come le finzioni: cinema e mondo-versioni
Sofisticati ambienti virtuali indistinguibili dalla “realtà”, progettati e realizzati da macchine intelligenti per ottimizzare la gestione di “risorse umane” o da grandi compagnie per allietare il sonno di ricchi privilegiati sottoposti a criogenesi; enormi sceneggiature ludiche che programmaticamente confondono il confine tra “frame di gioco” e “realtà”, ed esperienze percepite come reali che si rivelano essere esperienze videoludiche, in un meccanismo di scatole cinesi che sembra potersi moltiplicare all’infinito; mondi finzionali in cui personaggi “reali” si trovano all’improvviso catapultati, e mondi finzionali costruiti su misura per un personaggio che non sa di essere tale, e vive la sua vita senza sapere dell’esistenza di un regista che la scrive e la mette in scena per milioni di telespettatori.
Si saranno riconosciuti, in queste poche righe, alcuni titoli che hanno chiaramente marcato l’uscita dal secondo millennio: Matrix, Apri gli occhi, The Game, eXistenZ, Pleasantville, The Truman Show […]. Un gruppo di film nutrito, compatto, facilmente identificabile sulla base dell’efficacia, che si direbbe sistematica, con cui propongono una problematizzazione del nostro senso della “realtà”, della distinzione tra ciò che è (o possiamo considerare) reale (e quindi vero) e ciò che si dà invece come finzionale (e quindi falso, illusorio), della capacità di definire lo statuto del mondo (o, spesso, dei molteplici mondi) in cui ci troviamo ad agire. Un filone, temporalmente circoscritto, divenuto chiaramente riconoscibile anche alla luce della significativa mole di studi che l’ha accompagnato, e che si è soprattutto sviluppata, a ridosso dell’uscita stessa dei film, intorno a due snodi: da un lato, il netto delinearsi di un’eredità dickiana, il riproporsi di storie (non necessariamente adattate o direttamente ispirate a racconti e romanzi di Philip K. Dick) che ci raccontano “la realtà” come problema, e dall’altro il dispiegarsi di una riflessione di matrice postmoderna sulla “scomparsa della realtà” e sui simulacri, che, almeno nel caso di Matrix, si amplia ad alcuni temi fondanti della tradizione filosofica.
Queste due linee […] presentano tra loro evidenti punti di contatto […], e qui vogliamo in particolare riprendere e rilanciare un’ipotesi di “saldatura” originariamente elaborata da Brian McHale attraverso la definizione di una “dominante ontologica” in grado di distinguere il funzionamento delle finzioni postmoderne […]. Certo è che ormai quasi trent’anni sono trascorsi dal Postmodernist Fiction di McHale […], e quello sul postmoderno è un dibattito che appare ormai, quanto meno nell’ambito degli studi sul cinema e sulla cultura visuale, residuale, se non del tutto esaurito. Nuovi “post” si sono progressivamente delineati e poi imposti nell’agenda degli studiosi. L’epoca che viviamo si distinguerebbe dunque in primo luogo per la sua natura “postmediale”, e quello con cui siamo chiamati a confrontarci come studiosi è il panorama complesso del “postcinema” (o cinema due, secondo Francesco Casetti, o ancora cinema della convergenza dopo Henry Jenkins). […]
In un rapporto di stretta interdipendenza, mutano gli oggetti di indagine e le domande che poniamo a questi oggetti, così come gli strumenti di cui ci dotiamo per interrogare gli oggetti ed elaborare le nostre risposte. […] Così, nell’ottica di Thomas Elsaesser, film come The Game o The Truman Show diventano esempi di mind-game film, che impostano con il fruitore un tipo di rapporto inedito, estraneo a logiche narrative classiche e moderne e finalizzato piuttosto a incoraggiare il fandom e le nuove forme di collocazione, circolazione, condivisione e riuso del “cinema” nel panorama contemporaneo. In direzione analoga, le categorie proposte da Jenkins di cultura convergente e transmedia storytelling non solo “eleggono” Matrix a loro emblematico caso di studio, riconfigurando e a tratti narcotizzando le precedenti interpretazioni, ma, ancor più significativamente, orientano in maniera nettissima l’indagine sui film della prima decade del nuovo millennio.
Ma a quali film stiamo pensando? A film che, di nuovo, tornano a mettere in discussione il nostro senso della realtà […]. Come accadeva dieci anni prima, film quali Moon, Inception, Shutter Island, Source Code, I guardiani del destino, Total Recall, Cloud Atlas, Oblivion segnano l’ingresso nel terzo millennio lavorando sistematicamente sulla problematizzazione della “realtà” e lasciando nuovamente emergere, verrebbe da dire con McHale, quella dominante ontologica che già potevamo riconoscere nella produzione di dieci anni precedente. […]
Proprio questi film ci hanno dunque suggerito la possibilità di riprendere in mano le categorie di McHale, la sua idea di dominante ontologica e le diverse strategie narrative che di volta in volta la declinano, per provare a comprendere se e come, rispetto al “filone Matrix” di solo dieci anni prima, il problema della realtà fosse diventato oggetto di operazioni di messa in forma differenti, e capaci quindi di produrre esiti ed effetti diversi.
Chiaramente, la ripresa di McHale rappresenta oggi una sfida almeno duplice […]: da un lato, si tratta di riuscire a rompere il nesso tra dominante ontologica e finzioni postmoderne, per verificare se la problematica ontologica possa essere intesa in un’accezione più ampia, che vada oltre i riferimenti alla letteratura di Dick e alla riflessione postmoderna predominanti nelle letture di fine anni Novanta. Dall’altro, si tratta di recuperare strumenti della teoria letteraria e narratologica nel tentativo di contestarne la riduzione a un approccio meramente formalista e dimostrarne la vitalità, nonché la possibile sinergia con altri strumenti e altre proposte teoriche […].
Come, dunque, affrontare in maniera produttiva questa duplice sfida? […] Sulla scorta dell’idea di dominante ontologica proposta da McHale e del concetto plurale di ontologia ad essa sotteso, cercheremo di argomentare l’utilità di un dialogo con l’approccio costruttivista di Nelson Goodman e con la sua nozione di mondo-versioni, con l’obiettivo di mettere in luce il ruolo cruciale delle “finzioni”, o delle narrazioni (letterarie e cinematografiche), nella nostra attività di “costruzione di mondi”, compresi quei mondi che siano riconoscibili come “reali”. […]
Ed è proprio attraverso l’analisi delle strategie narrative sistematicamente impiegate nei film […] che proveremo a comprendere […] in che modo le finzioni costruiscono, o contribuiscono a mettere in discussione e ridefinire, il nostro senso della realtà. Supportati anche dalla recente riflessione narratologica di Gérard Genette, ci soffermeremo in particolare su una di queste strategie, la metalessi […]. Nel suo contributo dedicato ai mind-game film, Elsaesser ha sintetizzato con grande efficacia il nuovo gioco del fandom: “Il mondo rappresentato”, ha scritto Elsaesser, “viene preso per vero”. La metalessi riguarda proprio questo: la trasgressione di una “frontiera mobile ma sacra” tra il mondo che si racconta e il mondo in cui si racconta. Trasgressione che, a seconda delle forme che assume, è in grado di alimentare vuoi quel sottile senso di complicità che si accompagna alla rottura (o incrinatura) del patto di finzione, vuoi quel profondo senso di vertigine che marca l’improvvisa incapacità di distinguere il “reale” dal “finzionale”, ma anche, come vedremo, quel piacere particolare che deriva dall’occasione di instaurare forme di relazione e di comunicazione “impossibili” tra il mondo che quotidianamente abitiamo e i mondi finzionali in cui quotidianamente amiamo, seppur provvisoriamente e temporaneamente, transitare. […]
II. Nella sala macchine della letteratura
In ambito più strettamente letterario si pone innanzitutto un problema di scelta di campo, nell’individuazione del corpus delle opere di cui trattare. Di fronte a un proliferare magmatico di romanzi, la cui considerazione critica è ancora scarsamente sedimentata, si è deciso di soffermarsi, con criteri meramente soggettivi, su quelle opere che fossero rappresentative dei settori più discussi nel dibattito critico degli ultimi venti e più anni. Al centro del discorso, dunque, non si è posta la fantascienza, come pure l’eredità di Dick e il tema affrontato avrebbero suggerito, in quanto è apparso un campo d’analisi settoriale nello spazio letterario e dunque meno utile a rappresentare un’epoca. Si è scelto piuttosto di prendere avvio, nella parte riservata alla narrativa, da un film, Pulp Fiction, che oggi può essere considerato il punto di partenza di un filone letterario che ha via via preso piede con decisione nella seconda metà degli anni Novanta anche se si è poi esaurito nel volgere di pochi anni ed oggi gode probabilmente di scarsa considerazione. Allo stesso modo, per quanto riguarda il decennio successivo si prende avvio da Gomorra, il testo certamente più discusso degli ultimi anni, campione di quel supposto “ritorno del reale” di cui molto si è parlato e si parla ancora. La semplice giustapposizione di queste due opere stabilisce una distanza incolmabile tra le due stagioni della letteratura, tra due sensibilità opposte. Poco importa, ai fini del discorso che qui si seguirà, stabilire se questa distanza sia frutto di una virata improvvisa avvenuta in un giorno, l’11 settembre 2001, o più probabilmente sia l’esito di un’evoluzione più graduale e meditata, ma pare evidente che una distanza ci sia.
Certo, a determinare questa netta differenza, è anche il dibattito critico che focalizza l’attenzione su determinati toni e testi, poiché è facile ritrovare negli anni Novanta opere che fanno della riflessione sul reale un punto cardine – si citerà, più avanti, il caso di Walter Siti – così come esistono autori che hanno continuato a incanalarsi nella cosiddetta linea pulp, e per esempio Quentin Tarantino, pur con una chiara evoluzione, conserva alcuni elementi di quella tradizione, o, se non lui, altri autori anche a lui vicini, come Robert Rodriguez, mantengono fin troppo graniticamente tratti di quell’ambiente e di quella temperie culturale. La distanza tra gli anni Novanta e i Duemila, dunque, che qui si assume schematicamente come vera, si fonda perciò sul presupposto che essa si basi soprattutto sugli oggetti ai quali si sceglie di dare attenzione.
Alcuni critici hanno recentemente dimostrato come gli anni Novanta e gli anni Zero siano accomunati dai medesimi moventi, e che addirittura è possibile ipotizzare una nuova etichetta che li racchiuda in una sola età. Raffaele Donnarumma, per esempio, usa il termine Ipermodernità, per definire quell’epoca che segue sia il “postmodernismo”, sia il “postmoderno”, terminati, a suo dire, nel 1995. In questa sede non si vuole definire un’epoca, né supporre che esistano presupposti teorici per una distinzione o un accorpamento dei due momenti culturali, si vuole piuttosto limitarsi ai fenomeni, a quanto è accaduto non solo e non tanto nella letteratura, ma nel dibattito critico. Potremmo ripetere convintamente quanto scrive Daniele Giglioli: “chi è alla ricerca di un canone, di una classifica o di una tabellina, è pregato di lasciare immediatamente queste pagine”; e aggiungere però che rispetto a Senza trauma da cui sono tratte queste parole, il fine di questo libro è ancora più limitato. Qui non si indagano le ragioni, i moventi, la psicologia collettiva che ha portato al successo di una o un’altra forma, della scrittura di genere o dell’autofiction, qui ci si limita a prendere atto di un panorama e all’interno di quel panorama segnare un percorso, che sia poi il tracciato di un’autostrada o di un sentiero per capre, è una questione diversa, che ognuno valuterà sulla base delle proprie esperienze di lettura.
In questo capitolo si analizzano i fenomeni senza mai voler fare una fenomenologia. Si incontrano casi di studio senza farne i campioni indiscussi di un’epoca. In nessun caso si troveranno interminabili elenchi di autori o di opere volti a dimostrare la superiorità numerica di un certo tipo di scritture su altre. Gli esempi sono scelti ovviamente nel tentativo di individuare opere importanti, che qualcosa possano dire, ma selezionare quattro o cinque opere e poi affermare che queste siano un’epoca sarebbe non solo limitativo ma addirittura ridicolo. È soltanto un percorso, un tracciato: davvero si vogliono unire i puntini per vedere il disegno che ne esce? Ma i puntini sono troppo pochi, troppo radi, il disegno avrà angoli troppo acuti, segmenti di retta troppo lunghi per vederne qualcosa di chiaramente definito.
Pulp Fiction, La trilogia di New York, Underworld, Canti del caos, La famiglia Winshaw, da una parte, Gomorra, Troppi paradisi, La vita come un romanzo russo, Espiazione, La pentalogia delle stelle, 1Q84, dall’altra: queste le tappe del nostro brevissimo viaggio. […]
Data dunque questa selezione (molto soggettiva) di opere, si è dovuta constatare la totale assenza di fantascienza, di mondi paralleli, di realtà al di fuori della realtà. Piuttosto appare centrale il confronto tra mondo scritto e mondo non scritto, tra realtà e romanzo, realtà e fiction: i livelli diegetici su cui si fondano gli intrecci sono per lo più determinati dall’attività della scrittura. […] Ma si tratta di un percorso che non solo mette l’uno accanto all’altro dei testi narrativi, ma permette di estrapolare anche alcune considerazioni teoriche come se il rispecchiamento della narrativa non fosse solo tra realtà e finzione, ma anche tra narrazione e narratologia: “Céline diceva che gli scrittori non devono mai far scendere i lettori nella sala macchine, devono tenerli sul ponte di coperta a divertirsi, a sollazzarsi durante la crociera. Io al contrario ho voluto portare il lettore nella sala macchine” (Mauro Covacich).
Valentina Re e Alessandro Cinquegrani