La società della violenza culturale

In Fa’ la cosa giusta, capolavoro di Spike Lee datato 1989, una sera come tante altre, un gruppo di ragazzi entra nella pizzeria di Sal per mangiare qualcosa. Tra di loro ci sono anche Buggin Out e Radio Raheem, dotato del suo gigantesco stereo perennemente acceso tutto volume. Sal gli chiede di spegnerlo, ma Radio Raheem si rifiuta. Sal allora prende una mazza da baseball e sfascia lo stereo. Radio Raheem gli salta addosso. Pino e Vito tentano di difendere il padre, mentre i clienti cercano di calmare Radio Raheem. Ma lui è scatenato, così scoppia una rissa. Interviene la polizia, che uccide Radio Raheem strangolandolo con un manganello. La gente del quartiere si reca alla pizzeria, osservando Radio Raheem morto. Mister Señor Love Daddy annuncia alla radio il decesso del ragazzo, morto per mano di poliziotti bianchi per proteggere un bianco. Mookie (il personaggio interpretato dal regista stesso) osserva tutto impietrito, diviso tra la paura di perdere il posto di lavoro e fare la cosa giusta. Improvvisamente si decide e afferra un bidone della spazzatura, quindi lo scaglia contro la vetrina della pizzeria. Tutti sembrano impazziti, ed entrano nel negozio per distruggerlo.
Sono trascorsi poco più di sei anni dal 4 novembre 2008, data in cui il fresco d’elezione Barack Obama tenne uno dei discorsi più memorabili della sua presidenza, sulla Michigan avenue di Chicago, la strada che porta a Grant Park, davanti a una folla estasiata di migliaia di afroamericani con il suo volto stampato sulle t-shirts. Sei anni dopo, persone come loro stanno sparando, dando fuoco, tirando pietre e manifestando – anche in modi più pacifici e nonviolenti – la loro rabbia nelle strade di molte città americane. Lo fanno a ragion veduta: ieri il grand jury si è pronunciato con una sentenza di non luogo a procedere verso Darren Wilson, il 28enne agente di polizia che lo scorso 9 agosto ha ucciso a Ferguson il 18enne afroamericano e disarmato Michael Brown. Ferguson è una cittadina del Missouri di 21mila abitanti, il cui corpo di polizia è composto per il 96 percento da bianchi, a fronte di una popolazione per i suoi due terzi afroamericana. La sentenza è arrivata a quarantotto ore dall’uccisione da parte di due agenti di polizia del 12enne afroamericano Tamir Rice, che sabato pomeriggio in un parco giochi di Cleveland si era rifiutato di alzare e le mani e aveva portato la mano verso la pistola-giocattolo che teneva nella cintura; e a poco più di settantadue ore dall’uccisione a New York, da parte di una recluta alle prime armi, di un giovane nero che usciva dall’appartamento della ragazza.
Nel commentare i disordini seguiti al proscioglimento di Wilson, Obama ha parlato di razzismo come “ferita aperta nel cuore dell’America”. Eppure, e anche un po’ paradossalmente, negli anni della sua governance il vento del razzismo ha ripreso a soffiare forte ed episodi di questo tipo, sfortunatamente, sono diventati pane quotidiano. Vicende come quelle dell’agosto 2012, quando un 51enne afroamericano venne circondato e ucciso dalla polizia perché stava fumando uno spinello nella trafficatissima Times Square; oppure come quella dell’aprile 2014, quando un video diffuso da Anonymous, che riprendeva l’esecuzione sommaria da parte di due poliziotti di James Boyd, un senzatetto che si era sistemato temporaneamente sulle colline fuori Albuquerque e reo di “campeggio non autorizzato”, aveva dato vita a una vera e propria sollevazione popolare. Come se non bastasse, sempre nel Missouri, questa volta nel distretto di Shaw, South Saint Louis, lo scorso 8 ottobre un agente bianco di 32 anni che stava pattugliando la zona per conto di un’azienda di sicurezza ha ucciso con 17 colpi di pistola il 18enne afroamericano – manco a dirlo, disarmato – Vonderrit Myers.
La frequenza con la quale si moltiplicano questi casi è allarmante, eppure sembra impossibile stabilire con precisione i numeri di questo fenomeno. Un rapporto dell’FBI parla di 400 morti l’anno, anche se nella stragrande maggioranza si tratta di “omicidi giustificabili”, cioè di autoassoluzione. Visto il vuoto governativo, il pool aggregator online Five Thirty Eight ha deciso di occuparsi della questione. Dalla pagina web si apprende che i tentativi creare database ad hoc sui quali registrare il numero delle vittime ci sono stati, come dimostrano Fatal Encounters e Deadspin. Tuttavia, l’elenco più completo sembra essere quello della pagina Facebook Killed by Police, che tiene costantemente aggiornato il conteggio delle persone uccise dalla polizia senza distinguere tra omicidi “giustificabili” e non, collegando i singoli casi a fonti giornalistiche. Secondo Killed by Police, le persone uccise dalla polizia sarebbero 1.450 da quando la pagina è nata nel maggio 2013, pari a una media di tre omicidi al giorno. Le vittime appartengono a ogni razza ma con una forte preponderanza di afroamericani, che si stima costituiscano il 40% dei morti (soprattutto i giovani maschi).
L’America dunque cambia e sia nelle metropoli che nelle città più piccole cresce una borghesia nera, asiatica e ispanica, e cresce di conseguenza anche (a ritmi vertiginosi) il numero di persone che si sposano con uomini e donne di etnie differenti. Parallelamente però l’America non cambia di una virgola, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento verso la popolazione afroamericana: tra di loro c’è maggiore disoccupazione, si muore prima e spesso ammazzati, si finisce con più facilità dietro le sbarre e lì si rimane più a lungo. Nelle comunità nere la brutalità degli agenti si riallaccia a una serie infinita di ingiustizie ataviche, un filo rosso che unisce tutti insieme i riot di Watts del 1965, il pestaggio ingiustificato di un tassista nero a Newark nel 1967, l’omicidio di un ragazzo nero da parte di un poliziotto in moto prima dei disordini di Overtown a Miami nell’89 e il celeberrimo caso di Rodney King causa della rivolta di Los Angeles del 1992.
Lette in trasparenza, tragedie come quelle di Tamir Rice o Michael Brown, sono doppiamente rivelatrici. Da una parte sono casi palesi di racial profiling che testimoniano di un livello di violenza connaturato al conflitto di classe negli Stati Uniti (guardare America 1929. Sterminateli senza pietà di Martin Scorsese, per credere); dall’altra offrono uno spaccato emblematico di quella cultura della violenza che domina il lungo e il largo il suolo sia la sfera simbolica che quella reale del popolo a stelle strisce, per cui armi e le pistole sono oggetto di culto e di vanto e vengono brandite con orgoglio, proprio come faceva Tamir Rice nei giardinetti in cui è stato ucciso. Spesse volte chi guarda oltreoceano rischia facilmente lo strabismo, preso in mezzo dallo scarto indescrivibile tra principi enunciati e realtà empirica, tipo il “diritto alla felicità” inscritto nella Dichiarazione d’Indipendenza e la morte distribuita con sublime nonchalance a concittadini, migranti, popoli lontani. Parlo, ovviamente, non di una cultura violenta (la violenza è presente, più o meno, in tutte le “città degli uomini”), ma di una cultura della violenza, ossia di una cultura che giustifica e considera la violenza come mezzo legittimo di autodifesa. La violenza come unico modo per produrre una società senza violenza. Essa parte dalla constatazione che la società esistente si fonda su di una violenza legalizzata e che solo la “violenza giusta” potrà eliminare la “violenza ingiusta”.
Non per nulla, di violenza, armi e morti è intessuta la storia della lotta operaia statunitense, perlomeno dalle origini fino alla seconda guerra mondiale. Da manuale, in quest’ottica, la surreale domanda che uno dei fondatori del Black Panther Party rivolse al proprietario di un’armeria: «Sono Huey P. Newton del BPP; ecco qui i miei soldi, voglio il fucile». Aggiungendo poi: «Il BPP è un’organizzazione, c’è qualche sconto?». Battute a parte, in questo rapporto sociale c’entra – e anche parecchio – il diritto di ogni cittadino americano a portare armi e quell’eredità di frontiera mista al retaggio della guerra d’indipendenza, che fa del solo cittadino armato un cittadino nel pieno controllo dei propri diritti. In estrema sintesi, l’ideologia della “legittima difesa” è una discendente diretta del biblico “occhio per occhio”, nella migliore tradizione rispettata alla lettera. Sull’incapacità, oltre che impossibilità, di regimentare il la circolazione delle pistole pesano (e quanto) i dollari che le lobby versano a fiumi nelle casse dei repubblicani. Sull’incapacità di regolare Sulla discriminazione invece pesa la selezione dei poliziotti, troppo spesso bianchi, e un’antica cultura razzista su cui si è innestato il pregiudizio nuovo secondo cui se sei nero, giovane e baldanzoso, molto probabilmente sei un pericoloso criminale con una pistola in tasca.
L’America continua dunque ad avere un enorme problema di pregiudizio istituzionale nei confronti dei neri, anche quando in essi vi è la piena accettazione delle regole di mercato, del sistema di vita e dei valori americani, e fino a quando gli assi portanti saranno discriminazione istituzionale e cultura delle armi, non si potranno che ripetere circostanze tragedie come quelle di Ferguson e Cleveland. Il sociologo weberiano Norbert Elias sostiene in Il processo di civilizzazione che la civilizzazione nasce non solo con l’avvento dello Stato, ma anche con l’affermarsi delle buone maniere, del controllo delle pulsioni, della moderazione del proprio comportamento. E dietro a tutti questi processi c’è la monopolizzazione del potere militare e del potere fiscale: nel momento stesso in cui si afferma il primo, coi suoi ingenti costi, subito si rende necessario l’affermarsi anche del secondo, in forza del quale lo Stato può estrarre dalla collettività le risorse finanziarie adeguate per mantenere il monopolio militare. Chi ha il potere, infatti, offre protezione e, in cambio, esige obbedienza. Morto dopo morto.


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